=> Corte di
Cassazione 7 febbraio 2024, n. 3452
Va enunciato il seguente principio di diritto: «La condizione di procedibilità
prevista dall’art. 5 d.lgs. n. 28 del 2010 sussiste per il solo atto
introduttivo del giudizio e non per le domande riconvenzionali, fermo restando che al mediatore compete di valutare
tutte le istanze e gli interessi delle parti ed al giudice di esperire
il tentativo di conciliazione, per l’intero corso del processo e laddove
possibile (I) (II).
(I) Si veda l’art. 8, d.lgs. n. 28/2010 (come novellato dalla c.d.
riforma Cartabia), in Osservatorio Mediazione Civile n. 28/2023.
(II) per approfondimenti, SPINA, Domanda riconvenzionale e mediazione c.d. obbligatoria: osservazioni a prima lettura sulla portata applicativa di Cass. s.u. 7.2.2024, n. 3452 (argomenti e spunti di riflessione) (Osservatorio Mediazione Civile n. 8/2024); inoltre, per l'inquadramento della questione (contributi precedenti alle s.u. del 2024) si segnala:
Fonte: Osservatorio
Mediazione Civile n. 6/2024
(www.osservatoriomediazionecivile.blogspot.com)
Cote di cassazione
Sezioni unite
sentenza n. 3452
7 febbraio 2024
Omissis
1. – La questione. L’ordinanza di rinvio pregiudiziale ex art.
363-bis c.p.c. pone la questione di diritto se, ai sensi dell’art. 5
del
d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, sussista l’obbligo di provvedere alla
mediazione nel caso di proposizione di una domanda
riconvenzionale, ove la mediazione sia stata già ritualmente
effettuata, anteriormente alla prima udienza, in relazione alla sola
domanda principale.
Reputano le Sezioni unite di risolvere tale questione escludendo
che il tentativo obbligatorio di conciliazione sia condizione di
procedibilità della proposizione della domanda riconvenzionale, alla
stregua delle seguenti considerazioni.
2. – La diversa natura delle domande riconvenzionali
astrattamente proponibili in giudizio. Gli interpreti sogliono
distinguere tra domanda riconvenzionale collegata all’oggetto della
lite e domanda riconvenzionale ad essa “eccentrica”.
La prima tipologia emerge dal sistema positivo processuale,
come interpretato nel c.d. diritto vivente, secondo cui
l’ammissibilità delle domande riconvenzionali, avanzate dal
convenuto nel giudizio introdotto in via principale dall’attore, è
subordinata alla comunanza del titolo già dedotto in giudizio
dall’attore o da quello che appartiene alla causa come mezzo di
eccezione – come recita l’art. 36 c.p.c. – ma al solo fine di ritenerle
devolute al medesimo in quanto rientrino nella sua competenza per
materia o per valore.
Analoga “comunanza” della lite si richiede, peraltro, al fine di
reputare ammissibile la domanda riconvenzionale, che pure non
importi lo spostamento di competenza: invero, del pari, in tal caso
la giurisprudenza di legittimità esige «un qualsiasi rapporto o
situazione giuridica in cui sia ravvisabile un collegamento obbiettivo
tra domanda principale e domanda riconvenzionale, tale da rendere
consigliabile e opportuna la celebrazione del simultaneus
processus» (già Cass. 19 ottobre 1994, n. 8531; nonché, tra le
tante, Cass. 14 gennaio 2005, n. 681; Cass. 4 luglio 2006,
n. 15271; Cass. 15 gennaio 2020, n. 533; Cass. 4 marzo 2020,
n. 6091).
Tale collegamento oggettivo, che rende opportuno il
simultaneus processus, viene rimesso alla valutazione discrezionale
del giudice di merito, al quale è richiesto unicamente di motivare al
riguardo, in particolare ove ritenga la riconvenzionale
inammissibile.
Resta, però, fermo in entrambi i casi ricordati – domanda
riconvenzionale che ecceda, oppure no, la competenza del giudice
della causa principale – il detto principio circa la necessaria
esistenza di un “collegamento oggettivo con l’oggetto” che già
appartiene al giudizio.
Dall’altra parte si pone la seconda tipologia di domande
afferente alla nozione di riconvenzionale c.d. eccentrica: la quale,
per sottrazione, indica quella in nessun modo “obiettivamente
ricollegabile all’oggetto” della causa.
La genericità dei termini, alla luce dei precedenti di merito editi
e di legittimità, ha reso, però, tutt’altro che rara l’estensione della
lite fra le parti, proprio sul profilo se debba ritenersi sussistente
un
tale “collegamento oggettivo”; mentre poi una pluralità di indici
positivi, presenti nell’ordinamento, conduce a non differenziare
affatto le due tipologie indicate, quanto agli effetti, che ora
interessano, della sottoposizione all’obbligo della preventiva
mediazione, quale condizione di proponibilità della domanda
riconvenzionale.
3. – Ragioni dell’esclusione della mediazione obbligatoria per le
domande riconvenzionali.
3.1. – La disciplina. Con l’art. 5, comma 1-bis, d.lgs. n. 28 del
2010 è stata reintrodotta nell’ordinamento – dopo la declaratoria
d’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del decreto
legislativo ad opera di Corte cost. n. 272 del 2012 per eccesso di
delega – la mediazione civile, quale condizione di procedibilità delle
domande giudiziali relative a talune materie.
Si prevede quindi che «[c]hi intende esercitare in giudizio
un’azione relativa a una controversia in materia di (…) è tenuto
preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione», quale
«condizione di procedibilità della domanda giudiziale».
È altresì disposto che l’improcedibilità sia «eccepita dal
convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice
non oltre la prima udienza. Il giudice, quando rileva che la
mediazione non è stata esperita o è già iniziata, ma non si è
conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine
di cui all’articolo 6» ossia, tre mesi, più tre su accordo delle parti
(così i commi 1 e 2, a seguito della sostituzione dell’intero art. 5 ad
opera dell’art. 7, comma 1, lett. d, d.lgs. n. 149 del 2022).
Dunque, chi intenda esercitare una di simili liti è tenuto,
preliminarmente, a tentare la composizione stragiudiziale della
controversia mediante l’esperimento del procedimento disciplinato
dal d.lgs. medesimo, il cui svolgimento è affidato ad appositi
organismi di mediazione.
Tale condizione di procedibilità della domanda giudiziale è un
presupposto processuale, il cui difetto è sanabile retroattivamente,
qualora il giudice rilevi il mancato esperimento del tentativo o la
sua pendenza, per permetterne la conclusione.
Non si parla di “sospensione” in senso tecnico, trattandosi di un
mero rinvio, ma questo comporta pur sempre un differimento della
trattazione della causa; il quale, inoltre, non necessariamente sarà
contenuto nei pochi mesi indicati dal legislatore, essendo «dopo la
scadenza» previsione relativa solo al termine minimo, non
massimo, il quale ultimo invece necessariamente seguirà le
esigenze del calendario del giudice.
3.2. – Le riconvenzionali “non eccentriche”. Con riguardo alla
riconvenzionale c.d. non eccentrica, la lettera
e la ratio della
disposizione inducono a ritenerla non sottoposta alla condizione
della mediazione obbligatoria, in quanto si collega all’oggetto del
processo già introdotto dall’attore.
Infatti, la legge non prevede espressamente né che la
riconvenzionale sia sottoposta a mediazione obbligatoria, né le
modalità processuali di tale eventualità; ed il legislatore, pur
intervenuto anche recentemente sul tema quando la questione in
esame era ampiamente emersa, nulla ha ritenuto di disporre al
riguardo.
L’istituto processuale in questione si inserisce in un contesto
riformatore che esprime la ratio di costituire «una reale spinta
deflattiva e contribuire alla diffusione della cultura della
risoluzione
alternativa delle controversie» (così la relazione illustrativa al
d.lgs.
n. 28 del 2010).
Ciò, al fine di preservare la “risorsa” della giurisdizione, nella
«consapevolezza, sempre più avvertita, che, a fronte di una
crescente domanda di giustizia, anche in ragione del
riconoscimento di nuovi diritti, la giurisdizione sia una risorsa non
illimitata e che misure di contenimento del contenzioso civile debbano
essere messe in opera» (Corte cost. 19 aprile 2018, n.
77).
Da ciò l’adozione degli istituti processuali diretti, in via
preventiva, a favorire la composizione della lite in altro modo, quali
le misure di Adr (Alternative dispute resolution), cui sono
riconducibili le procedure di mediazione, la negoziazione assistita, il
trasferimento della lite alla sede arbitrale; nella stessa linea è la
previsione generale del codice di rito civile, con gli artt. 185 e 185-
bis c.p.c., relativi al tentativo di conciliazione ed alla formulazione
della proposta di conciliazione da parte del giudice.
Si noti – sin d’ora – come anche il giudice delle leggi abbia
avvicinato, quanto alla ratio di indurre le parti a conciliarsi
nell’intento di economizzare la risorsa giustizia, gli strumenti c.d.
alternativi, quale la mediazione, all’attività del giudice stesso nel
processo: il quale, in adempimento di un suo compito essenziale,
conoscendo gli atti e le parti, ha tutto l’agio e le competenze per
tentare la conciliazione lungo tutto il corso del processo, così come
ora prevede l’art. 185-bis c.p.c., «fino al momento in cui fissa
l’udienza di rimessione della causa in decisione» (non solo «alla
prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l’istruzione», come
recitava la norma prima delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 149
del 2022).
La mediazione rientra tra le disposizioni «finalizzate,
unitamente alle altre adottate in materia di giustizia, alla
realizzazione dei comuni e urgenti obiettivi – a loro volta
preordinati al rilancio dell’economia – del miglioramento
dell’efficienza del sistema giudiziario e dell’accelerazione dei tempi
di definizione del contenzioso civile» (Corte cost. 18 aprile 2019, n.
97). «Si è al cospetto, pertanto, di un procedimento contraddistinto
dall’obbligatorietà, che deve essere espletato, pena l’improcedibilità
della domanda, prima dell’instaurazione di una lite giudiziaria Esso,
di conseguenza, condiziona, in determinate materie,
l’esercizio del diritto di azione» (Corte cost. 20 gennaio 2022, n.
10).
L’istituto pone una condizione di procedibilità della domanda
giudiziale, specificamente «con finalità deflattiva» (Corte cost. 20
gennaio 2022, n. 10 e 18 aprile 2019, n. 97, citt.).
La mediazione, con l’auspicata conciliazione, delle controversie
mira a transigere le liti, evitando, in tal modo, che il soggetto
debba ottenere soddisfazione attraverso gli organi di giustizia, con
elevati costi e tempi, che nocciono alla parte, come al sistema
giudiziario nel suo complesso. Il fine, dunque, è l’auspicata non
introduzione della causa, risolta preventivamente innanzi all’organo
apposito, in via stragiudiziale.
Ciò induce a ritenere che la riconvenzionale c.d. non eccentrica
non sia sottoposta alla condizione della mediazione obbligatoria. La
mediazione è stata già esperita senza esito positivo, prima del
processo o nel termine concesso dal giudice, dall’attore: onde la
condizione di procedibilità è soddisfatta e la lite pende ormai
innanzi ad un giudice, che ne resta investito.
La mediazione obbligatoria si collega non alla domanda sic et
simpliciter, ma al processo, che ormai è pendente, onde, essendo
la causa insorta, la funzione dell’istituto viene meno, non avendo
avuto l’effetto di prevenzione per la instaurazione del processo: in
quanto essa si collega alla causa, non alla domanda come tale, in
funzione deflattiva del processo.
Pertanto, una volta che la domanda principale sia stata
regolarmente proposta dopo che la mediazione abbia già fallito
l’obiettivo, una nuova mediazione obbligatoria relativa alla
domanda riconvenzionale – pur volendo trascurare ogni previsione
sulle sue possibilità di successo, che non rilevano a questi fini
interpretativi – non realizzerebbe, in ogni caso, il fine di operare un
«filtro» al processo innanzi ad un organo della giurisdizione. Il
giudice è già investito della controversia introdotta dall’attore, di
cui non verrebbe ormai spogliato, neppure se il tentativo sulla
domanda del convenuto avesse esito positivo, dovendo il processo
proseguire per la decisione sulla domanda principale e, dunque, al
più, con una mera “riduzione” del suo oggetto.
Posto che l’istituto ha esclusive finalità di economia
processuale, nel senso di evitare il proliferare di cause iscritte
innanzi all’organo giudiziario, imporre un successivo, o più
successivi ad ogni ulteriore domanda proposta nel giudizio,
tentativi obbligatori di conciliazione, nel contempo differendo la
trattazione della causa per mesi ad ogni nuova domanda proposta
in giudizio, è un effetto eccessivo non voluto dalla norma rispetto
allo scopo deflattivo perseguito.
3.3. – Le riconvenzionali “eccentriche”. Resta da considerare il
caso della proposizione della riconvenzionale c.d. eccentrica alla
lite, che allarga l’oggetto del giudizio senza connessione con quello
già introdotto dalla parte attrice.
Qui, ad escludere la condizione di procedibilità concorrono –
accanto alla ratio normativa di deflazione dei processi richiamata –
ulteriori criteri d’interpretazione: quali il principio della certezza
del
diritto, che si oppone alla causazione di ulteriore contenzioso sul
punto, e quello della ragionevole durata del processo.
3.3.1. – Sotto il primo profilo, occorre rilevare l’inadeguatezza
di soluzioni intermedie, al fine di preservare il bene della certezza
del diritto.
Nei precedenti relativi alle controversie agrarie, ai sensi dell’art.
46 l. 3 maggio 1982, n. 203, la S.C. ritiene che il tentativo di
conciliazione debba precedere anche la domanda riconvenzionale
da parte del convenuto (cfr. Cass. 11 novembre 2022, n. 33379;
Cass. 26 maggio 2014, n. 11644; Cass. 23 agosto 2013, n. 19501, in
motivazione; Cass. 14 novembre 2008, n. 27255; Cass. 15 luglio
2008, n. 19436; Cass. 16 novembre 2007, n. 23816; Cass. 18
gennaio 2006, n. 830; Cass. 28 luglio 2005, n. 15802; Cass. 2
agosto 2004, n. 14772, ove non è massimato questo punto; Cass.
22 ottobre 2002, n. 14900; Cass. 19 febbraio 2002, n. 2388; Cass.
8 giugno 1999, n. 5613; Cass. 1° dicembre 1998, n. 12196; Cass.
7 marzo 1992, n. 2753).
Peraltro, l’immanente insoddisfazione per la soluzione, attesi
tutti gli inconvenienti sopra indicati e che vengono all’evidenza
avvertiti dai giudici, ha indotto a compiere una serie di distinguo: i
quali, se riescono a scongiurare alcuni di quegli inconvenienti, sono
forieri poi di un pregiudizio assai più rilevante all’ordinamento nel
suo complesso, ossia la compromissione del principio fondante
della certezza del diritto, il quale, come è noto, non è un principio
come gli altri, ma è essenziale espressione dello Stato
costituzionale di diritto, a fini anche di uguaglianza.
Così, si afferma che il convenuto in riconvenzionale sia onerato
dal tentativo di conciliazione, ma solo se:
i) «la domanda riconvenzionale vada ad ampliare l’ambito della
controversia rispetto ai limiti posti alla stessa in sede di
esperimento del tentativo di conciliazione di cui alla domanda
principale» (Cass. 26 maggio 2014, n. 11644; Cass. 23 agosto
2013, n. 19501, in motivazione; Cass. 14 novembre 2008, n.
27255; Cass. 19 febbraio 2002, n. 2388; Cass. 4 aprile 2001, n.
4982; Cass., 26 febbraio 1998, n. 2117);
ii) «la riconvenzionale investa aspetti nuovi della controversia,
che se conosciuti e valutati dalle parti unitamente a quelli per i
quali vi è già vertenza giudiziaria, potrebbero condurre ad una
definizione bonaria della lite, evitando l’intervento del giudice»
(Cass. 27 aprile 1995, n. 4651), in quanto «si espongono aspetti
nuovi della controversia che, se conosciuti anticipatamente, avrebbero
potuto condurre ad una definizione bonaria della
controversia» (Cass. 14 novembre 2008, n. 27255, la quale reputa,
sulla base di tale premessa, non ampliati i confini della controversia
dalla domanda riconvenzionale di risarcimento del danno, ove lo
sforzo di affermare che «la domanda principale era diretta a sentire
dichiarare la validità ed efficacia del contratto di soccida inter
partes e, pertanto, implicitamente, la verifica che nessun
inadempimento si era verificato da parte dell’attore»; ivi i giudici
del merito avevano ritenuto, al fine di dimostrare come per effetto
della riconvenzionale si sia avuto un ampliamento della materia del
contendere, rilevante che si fosse posta l’esigenza di espletamento
della c.t.u. riconnessa proprio alla domanda riconvenzionale e non
a quella di pagamento formulata dalla soccidaria; Cass.
1° dicembre 1999, n. 13359; Cass. 8 giugno 1999, n. 5613);
iii) «la domanda stessa [non] si ricolleghi direttamente al
contrasto tra le parti ed alle pretese fatte valere dall’attore che
abbia esperito la procedura in questione» (Cass. 8 agosto 1995, n.
8685);
iv) «il convenuto [non] abbia già dedotto le relative richieste
nella procedura di conciliazione sperimentata dall’attore» (Cass. 16
novembre 2007, n. 23816; Cass. 14 luglio 2003, n. 10993; Cass.
17 gennaio 2001, n. 593; Cass. 8 agosto 1995, n. 8685; Cass. 5
ottobre 1995, n. 10447).
Dunque, la tesi in esame afferma la necessità del tentativo
anche per la domanda riconvenzionale, ma con distinzioni
casistiche.
Peraltro, i tanti distinguo rivelano l’imbarazzo, percepito dalle
stesse decisioni che li propongono, di ritardare il processo con
ulteriori oneri, quando le parti comunque non siano addivenute ad
un accordo bonario palesando una indisponibilità al riguardo: onde
si palesa trattarsi di un adempimento non conforme al parametro di
ragionevolezza, in quanto non funzionale allo scopo di evitare
l’intervento della giurisdizione mediante un componimento bonario
della lite. In tal modo, essa è foriera di eccessiva incertezza del
diritto.
È facile, invero, prevedere code e sviluppi contenziosi allorché,
proposta la domanda riconvenzionale senza mediazione, si
sostenga dall’una e dall’altra parte, secundum commoda, che la
domanda riconvenzionale “amplia l’ambito”, si “ricollega al
contesto”, concerne questioni “intorno alle quali il tentativo si è
svolto”, “si ricolleghi direttamente al contrasto tra le parti ed alle
pretese fatte valere dall’attore”, che nella domanda di conciliazione
“erano già esposti tutti i fatti, nonché la valutazione giuridica degli
stessi” o “il convenuto abbia già dedotto le relative richieste nella
procedura di conciliazione sperimentata dall’attore” o che, con la
sua nuova domanda, “espone aspetti nuovi della controversia che,
se conosciuti anticipatamente, avrebbero potuto condurre ad una
definizione bonaria della controversia”.
Ed invero, molti possono essere i profili e le questioni dubbie,
se il linguaggio resta vago ed i concetti controvertibili. Non questo
è il senso del tentativo obbligatorio di mediazione o di
conciliazione, ma proprio il fine opposto deflattivo delle liti
giudiziarie, nell’an e nel tempus.
Imporre di valutare se la domanda riconvenzionale «investa
aspetti nuovi che se conosciuti e valutati dalle parti unitamente a
quelli per i quali vi è già vertenza, giudiziaria, potrebbero condurre
ad una definizione bonaria della lite, evitando l’intervento del
giudice» (Cass. 27 aprile 1995, n. 4651) è ancora più arduo:
impingendo così il criterio, invero, in una valutazione dello stato
psicologico e dell’intendimento soggettivo presunto o ricostruito ex
post (analogamente es. agli artt. 1419 e 1424 c.c.: dove però la scelta
del legislatore ha ben altra ratio di conservazione degli atti
giuridici e sicurezza dei traffici).
Con evidenti forzature, volta a volta, da parte del giudicante,
cui neppure questa Corte è rimasta immune: come quando (Cass.
14 novembre 2008, n. 27255) ha ritenuto che, proposta domanda
diretta a sentir dichiarare la validità ed efficacia del contratto di
soccida inter partes, la domanda riconvenzionale di risoluzione per
inadempimento e di risarcimento del danno fosse ricompresa nella
prospettazione attorea, avente ad oggetto «implicitamente, la
verifica che nessun inadempimento si era verificato da parte
dell’attore», nonché fosse «irrilevante, al fine di pervenire ad una
diversa conclusione, [è] la circostanza che solo nella
riconvenzionale si invochino i danni assertivamente patiti dalla
società convenuta a causa del comportamento di quella attrice,
atteso – da una parte – che la richiesta di danni è consequenziale
alla pronunzia di risoluzione, dall’altra, che … non è sufficiente un
mero ampliamento del petitum perché sorga l’obbligo, per il
convenuto in via riconvenzionale, di sollecitare un nuovo tentativo
di conciliazione ai sensi della l. 3 maggio 1982, n. 203, art. 46»; e
che neppure, «al fine di dimostrare come per effetto della
riconvenzionale si sia avuto un ampliamento della materia del
contendere è sufficiente considerare che l’esigenza di espletamento
della c.t.u. si riconnette proprio alla domanda riconvenzionale e
non a quella di pagamento formulata dalla soccidaria», come
invece reputato dal giudice di merito.
Ulteriore complicazione induce la tesi in discorso, laddove
compaia il difensore in sede conciliativa, ove pure si fosse trattata
ogni questione, e tuttavia ovviamente egli non avesse il mandato
degli attori al riguardo (cfr. Cass. 23 agosto 2013, n. 19501).
3.3.2. – Sotto il secondo profilo, sussistono limiti, individuati
dallo stesso legislatore positivo e dal giudice delle leggi, contro
l’allungamento dei tempi dovuti alla mediazione obbligatoria ed altri
simili istituti, in ossequio al principio di ragionevole durata del
processo.
3.3.2.1. – L’esigenza di non cadere in soluzioni
controproducenti emerge con chiarezza, invero, dalle regole
positive dettate dal legislatore, nel testo normativo in esame ed il
altri similari, sul piano della interpretazione teleologica e avuto
riguardo allo scopo perseguito dal legislatore medesimo.
i) Anzitutto, nell’art. 23, secondo comma, d.lgs. n. 28 del 2010
è stabilito che «Restano ferme le disposizioni che prevedono i
procedimenti obbligatori di conciliazione e mediazione, comunque
denominati, nonché le disposizioni concernenti i procedimenti di
conciliazione relativi alle controversie di cui all’art. 409 del codice
di
procedura civile. I procedimenti di cui al periodo precedente sono
esperiti in luogo di quelli previsti dal presente decreto». In tal
modo, si è voluto escludere il concorso di analoghi istituti.
Del pari, l’art. 3, primo comma, secondo periodo, d.l. n. 132 del
2014, conv. nella l. n. 162 del 2014 (Misure urgenti di
degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione
dell’arretrato in materia di processo civile) prevede la convenzione
di negoziazione assistita per chi intende proporre in giudizio una
domanda di pagamento a qualsiasi titolo di somme non
eccedenti cinquantamila euro, ma «fuori dei casi previsti …
dall’articolo 5, comma 1-bis, del decreto legislativo 4 marzo 2010
n. 28».
Infine, la medesima prospettiva restrittiva emerge dai commi 3
e 6 dell’art. 5 d.lgs. n. 28 del 2010, rispettivamente concernenti
altre specifiche procedure e peculiari esclusioni.
Dunque, l’“eccesso di mediazione” è stato temuto e scongiurato
dal legislatore mediante le riportate previsioni, ed altre analoghe,
che escludono l’ipotesi del concorso di diverse procedure di
conciliazione o mediazione obbligatoria, o altre condizioni di
procedibilità «comunque denominat[e]»: dettando una disciplina
che risolve, in tal modo, il concorso tra la mediazione obbligatoria e
le altre condizioni di procedibilità della domanda giudiziale,
escludendo un doppio e contemporaneo “filtro alla giurisdizione”,
ma optando, invece, per l’alternatività di procedure. Una diversa
soluzione, invero, avrebbe determinato una gravosa duplicazione di
costi superflui per le parti, attesa la necessità di assistenza
difensiva in tutte le procedure, onde avrebbe finito per costituire,
piuttosto, un serio ostacolo al raggiungimento di una soluzione
conciliativa e causa di ritardo nella soluzione della lite insorta.
ii) A ciò si aggiunga il disposto dell’art. 5, comma 2, secondo
periodo, d.lgs. n. 28 del 2010, secondo cui «L’improcedibilità deve
essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata
d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza». Il legislatore ha
dunque, pur nel favor per la soluzione alternativa delle
controversie, circoscritto la condizione di improcedibilità al rilievo
d’ufficio o all’eccezione di parte entro un limite processuale assai
ristretto (la prima udienza).
iii) Nella stessa direzione milita la generale previsione di una
durata massima del procedimento di mediazione – fissata in tre
mesi, prorogabile di ulteriori tre mesi dopo la sua instaurazione e
prima della sua scadenza con accordo scritto delle parti – ai sensi
dell’art. 6 d.lgs. n. 28 del 2010, termine, inoltre, neppure soggetto
a sospensione feriale: a confermare che per il legislatore il
tentativo è utile e necessario, ma solo se esperito in tempi definiti e
non foriero, invece, di ulteriori ritardi.
iv) Ancora, espressamente l’art. 7 d.lgs. n. 28 del 2010 si
preoccupa del principio della ragionevole durata del processo:
stabilendo che «Il periodo di cui all’articolo 6 e il periodo del
rinvio
disposto dal giudice ai sensi dell’articolo 5, comma 2 e dell’articolo
5-quater, comma 1, non si computano ai fini di cui all’articolo 2
della legge 24 marzo 2001, n. 89». Al di là dell’intervento
restrittivo di Corte cost. 6 dicembre 2012, n. 272, come delle
perplessità in dottrina sollevate circa la reale precettività della
disposizione ai fini del computo del termine ragionevole di cui
all’art. 6 Cedu (quanto alla possibilità di escludere il tempo
utilizzato per il procedimento di mediazione, ove questo costituisca,
in virtù del diritto interno, un presupposto indispensabile per
l’accesso alla tutela giurisdizionale), il punto è che il conflitto con
il
fondamentale principio della ragionevole durata è avvertito
chiaramente dallo stesso legislatore.
3.3.2.2. – Quanto al giudice delle leggi, se è costante nel
ritenere non violato dalla mediazione obbligatoria l’art. 24 Cost.,
laddove questo tutela il diritto di azione, in quanto détto principio
«non comporta l’assoluta immediatezza del suo esperimento, ben
potendo la legge imporre oneri finalizzati a salvaguardare ”interessi
generali”, con le dilazioni conseguenti», interessi individuati
nell’evitare «che l’aumento delle controversie attribuite al giudice
ordinario… provochi un sovraccarico dell’apparato giudiziario, con
conseguenti difficoltà per il suo funzionamento» e nel favorire «la
composizione preventiva della lite, che assicura alle situazioni
sostanziali un soddisfacimento più immediato rispetto a quella
conseguita attraverso il processo» (Corte cost. 13 luglio 2000, n.
276; e già sent. n. 46 del 1974; n. 47 del 1964; nn. 56, 83 e 113
del 1963; n. 40 del 1962), resta tuttavia il rilievo del principio
generale di ragionevolezza delle restrizioni a tale diritto, in ispecie
in comparazione con un reale effetto positivo dell’istituto
conciliativo: ossia per gli scopi, ora ricordati, di non investire
affatto il giudice della lite e di dare presto a questa soluzione
stragiudiziale, nei limiti, quindi, in cui tale effetto positivo
verosimilmente sussista, e non sia, invece, irragionevolmente ed inevitabilmente soppiantato da ritardi non
più giustificabili, perché
non idonei a realizzare détti scopi.
Le previsioni ricordate ai punti precedenti hanno un’indubbia
valenza sistematica, al fine dell’individuazione di un «appropriato
meccanismo di coordinamento, ispirato alla considerazione
necessariamente unitaria della vicenda sostanziale dedotta in
giudizio e all’esigenza di salvaguardare la ragionevole durata del
processo (art. 111, secondo comma, Cost.), senza vanificare, con
inutili intralci, l’effettività della tutela giurisdizionale (art. 24
Cost.)», secondo l’esigenza ravvisata dalla Corte costituzionale
(Corte cost. 12 dicembre 2019, n. 266, nel dichiarare inammissibile
la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 1,
secondo e terzo periodo, e 5, d.l. n. 132 del 2014).
La Corte costituzionale da tempo rileva che, se simili strumenti
«tendono, infatti, ad evitare l’abuso del diritto alla tutela
giurisdizionale, nondimeno l’adempimento di un onere, lungi dal
costituire uno svantaggio per il titolare della pretesa sostanziale,
rappresenta il modo di soddisfazione della posizione sostanziale più
pronto e meno dispendioso»: proprio lo scongiurare «l’abuso… della
giurisdizione, in vista di un interesse della stessa funzione
giurisdizionale, è stato sovente la ratio espressa della “giurisdizione
condizionata”. Il principio di economia processuale, inteso come più
efficace e pronta soluzione dei conflitti, ha solitamente fondato la
rispondenza dei condizionamenti censurati alla previsione
costituzionale del diritto di azione» (Corte cost. 4 marzo 1992, n.
82).
In altre occasioni, la giurisprudenza costituzionale ha affermato
la legittimità di quelle regole, che subordinano «l’esercizio dei
diritti
a controlli o condizioni, purché non vengano imposti oneri o
modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile
l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività
processuale» (sent. 13 aprile 1977, n. 63), in particolare stabilendo
che il tentativo di conciliazione riguardo alle cause agrarie non
costituisce «adempimento vessatorio di difficile osservanza né
un’insidiosa complicazione processuale tale da ledere il diritto di
difesa dell’attore» (Corte cost. 21 gennaio 1988, n. 73).
Per la Corte costituzionale, dunque, la mediazione obbligatoria
non viola il diritto di azione, sancito dalla Costituzione, soltanto
laddove risulti idoneo a produrre il risultato vantaggioso del c.d.
effetto deflattivo, senza mai divenire tale da provocare un inutile
prolungamento dei tempi del giudizio.
Le indicazioni del giudice delle leggi additano, in sostanza, una
linea di equilibrio fra il principio di azione di ordine costituzionale
e
le deroghe che possono esservi apportate in funzione di interessi di
estrema rilevanza, ma confermano il carattere eccezionale delle
ipotesi limitative: ne deriva che le condizioni di procedibilità
stabilite dalla legge non possono essere aggravate da una
interpretazione che conduca ad estenderne la portata (Cass. 21
gennaio 2004, n. 967, con riguardo alla conciliazione lavoristica).
Analogamente, come ricorda anche la relazione del Massimario,
il principio della tutela giurisdizionale effettiva costituisce un
principio generale del diritto comunitario, derivante dalle tradizioni
costituzionali comuni agli Stati membri, sancito dagli artt. 6 e 13
della CEDU (intitolati, rispettivamente, “Diritto a un equo processo”
e “Diritto a un ricorso effettivo”), oltre ad essere stato ribadito
anche dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 (intitolato “Diritto
a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale”). Viene in rilievo
anche l’art. 67, par. 4, TFUE, secondo il quale “l’Unione facilita
l’accesso alla giustizia, in particolare attraverso il principio del
reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziali ed extragiudiziali
in materia civile”.
Con sentenza del 18 marzo 2010, C-317, C-318, C-319 e C320, la Corte di
giustizia dell’Unione europea ha escluso che il
tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all’art. 1, comma 11,
della l. n. 249/1997 confligga col diritto comunitario (in particolare,
con l’art. 34 della direttiva 2002/22/CE, relativa al servizio
universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di
comunicazione elettronica), rimarcando come la conseguente
restrizione ai diritti fondamentali degli utenti sia legittima, in
quanto tesa al perseguimento di obiettivi di interesse generale e
non sproporzionata rispetto a questi ultimi.
3.3.2.3. – Tutto quanto esposto indica l’esistenza un
bilanciamento degli interessi, già operato dal legislatore positivo e
confermato come legittimo dal giudice delle leggi: in quanto, se è
vero che anche un ripetuto strumento conciliativo extragiudiziale
potrebbe condurre, a volte, ad una soluzione favorevole della lite al
secondo, al terzo o ulteriore tentativo, è pur vero che così si
finirebbe per contraddire l’intento di rendere più rapida e meno
onerosa per tutti la risoluzione della controversia, quando questa
sia ormai comunque instaurata.
Effetto deflattivo, ragionevole durata e divieto di inutili intralci
sono, dunque, principî ampiamente presenti anche innanzi al
giudice delle leggi.
L’art. 5 d.lgs. n. 28 del 2010 estende a numerose materie la
mediazione obbligatoria, al fine di evitare l’introduzione della lite
ed
assicurare una maggiore celerità al processo, non di ostacolarla
oltre il ragionevole. Dovendosi dunque, piuttosto, secondo il
legislatore pervenire – è la ratio sottesa – al processo ordinario,
una volta infruttuosamente esperito il tentativo di mediazione in via
obbligatoria senza che esso sia andato a buon fine, quale
condizione di procedibilità da applicare al solo atto introduttivo, non
a tutte le “domande” proposte nel processo.
Con il fine di auspicata riduzione dei generali tempi di
definizione del contenzioso civile si porrebbe in irrimediabile
contrasto l’effetto di estendere alla domanda riconvenzionale un
ulteriore e ripetuto analogo tentativo. Invero, l’art. 5, comma 2,
terzo periodo, d.lgs. n. 28 del 2010 prevede che il giudice, quando
rileva che la mediazione non è stata esperita o conclusa, fissa la
successiva udienza dopo la scadenza del termine di tre mesi (più
tre, su accordo delle parti) di cui all’art. 6: con un inevitabile, ma
dal legislatore ponderato, allungamento dei tempi processuali. In
tal modo, se si reputasse obbligato anche il convenuto in
riconvenzionale ad esperire la mediazione, i tempi si
allungherebbero, però, in modo non prevedibile. Il differimento
della trattazione, previsto dal legislatore quale strumento per
contrastare l’elusione della condizione di procedibilità prescritta per
la domanda introduttiva, si dilaterebbe oltre ogni modo: il rinvio
necessariamente riguarderebbe non soltanto la trattazione della
domanda riconvenzionale, ma l’intero giudizio, ivi compresa la
domanda introduttiva, sebbene ormai procedibile, onde pure il
pericolo di abusi ad opera del convenuto.
La mediazione obbligatoria svolge un ruolo proficuo, solo se
non si presti ad eccessi o abusi. La mediazione, più che
accertamento di diritti, è “contemperamento di interessi”, con
semplicità di forme e rapidità di trattazione, anche senza verifiche
fattuali: è una sorta di “esperimento” finalizzato ad un accordo
negoziale, che va certamente tentato, nella prospettiva assunta dal
legislatore, ma prima di intraprendere la causa in funzione di
scongiurare la originaria iscrizione a ruolo, e che non avrebbe
senso diluire e prolungare oltre misura.
Ma la soluzione che volesse sottoporre la domanda
riconvenzionale a mediazione obbligatoria dovrebbe – per coerenza
– essere estesa ad ogni altra domanda fatta valere in giudizio, diversa
ed ulteriore rispetto a quella inizialmente introdotta
dall’attore: non solo, quindi, la domanda riconvenzionale, ma anche
la riconvenzionale a riconvenzionale (c.d. reconventio
reconventionis), la domanda proposta da un convenuto verso
l’altro, oppure da e contro terzi interventori, volontari o su
chiamata.
Del pari, potrebbero esperirsi tante successive mediazioni non
simultanee, con una assai poco efficiente gestione separata dei
conflitti, che difficilmente condurrebbe ad un proficuo ed unitario
accordo fra tutte le parti; mentre il processo necessariamente
vedrebbe una trattazione disordinata e disarticolata, in attesa
dell’esperimento di tanti tentativi di conciliazione stragiudiziali.
3.4. – Conclusioni. In definitiva, la mediazione obbligatoria ha
la sua ratio nelle dichiarate finalità di favorire la rapida soluzione
delle liti e l’utilizzo delle risorse pubbliche giurisdizionali solo
ove
effettivamente necessario: posta questa finalità, l’istituto non può
essere utilizzato in modo disfunzionale rispetto alle predette finalità
ed essere trasformato in una ragione di intralcio al buon
funzionamento della giustizia, in un bilanciamento dal legislatore
stesso operato, secondo una lettura costituzionale della
disposizione in esame, affinché, da un lato, non venga obliterata
l’applicazione dell’istituto, e dall’altro lo stesso non si determini
una
sorta di “effetto boomerang” sull’efficienza della risposta di
giustizia.
Per ogni altro profilo, sussiste il compito generale del giudice, a
fini di risparmiare risorse giurisdizionali e non emettere la
sentenza, di tentare e proporre egli stesso la conciliazione (artt.
185, 185-bis c.p.c.), dove il tentativo di conciliazione potrà avere
svolgimento con maggiore probabilità di esito positivo.
Va anche precisato che spetta al mediatore, nel diligente
adempimento del suo incarico professionale, esortare le parti a mettere
ogni profilo “sul tappeto”, ivi comprese altre richieste del
convenuto. Ciò, ai sensi dell’art. 8, comma 3, d.lgs. n. 28 del 2010:
«Il mediatore si adopera affinché le parti raggiungano un accordo
amichevole di definizione della controversia», dunque l’intera lite
tra di loro. L’accordo sarà ricompreso nella proposta di conciliazione
ex art. 11 del d.lgs., secondo cui, se è raggiunto un accordo
amichevole, il mediatore forma processo verbale al quale è allegato
il testo dell’accordo medesimo, mentre, quando l’accordo non è
raggiunto, il mediatore può formulare una proposta di
conciliazione; in ogni caso, il mediatore formula una proposta di
conciliazione se le parti gliene fanno concorde richiesta in
qualunque momento del procedimento.
Piuttosto, la trattazione congiunta di più interessi di cui le varie
parti siano portatrici sarà possibile all’interno dell’unico
procedimento di mediazione: situazione che in diritto è ammessa
ed in fatto è auspicabile, come è proprio delle funzioni di un
bonario componimento degli interessi, affidato ad un terzo
preparato ed estraneo alle parti.
La mediazione torna un modo attraverso il quale le parti
provano a risolvere la lite, anche in maniera diversa
dall’applicazione rigorosa delle norme che regolano la vicenda,
ricercando un equilibrio tra i rispettivi interessi, purché questi
vengano peraltro adeguatamente ponderati e non ridotti
forzatamente “a pari merito”, il tutto innanzi ad un organo
apposito, per scongiurare l’introduzione della lite innanzi ad un
giudice.
4. – Principio di diritto. È enunciato il principio di diritto: «La
condizione di procedibilità prevista dall’art. 5 d.lgs. n. 28 del 2010
sussiste per il solo atto introduttivo del giudizio e non per le
domande riconvenzionali, fermo restando che al mediatore
compete di valutare tutte le istanze e gli interessi delle parti ed al
giudice di esperire il tentativo di conciliazione, per l’intero corso del
processo e laddove possibile».
5. – Trasmissione degli atti di causa. È disposta la restituzione
degli atti al Tribunale di Roma.
6. – Spese. Non vi è luogo a provvedere sulle spese sostenute
nel procedimento di rinvio pregiudiziale, non sussistendo in
relazione ad esso una soccombenza riferibile alla iniziativa delle
parti.
PQM
La Corte, a sezioni unite, pronunciando sul rinvio pregiudiziale
disposto dal Tribunale di Roma ai sensi dell’art. 363-bis c.p.c. con
ordinanza del 13 giugno 2023, enuncia il seguente principio di
diritto: «La condizione di procedibilità prevista dall’art. 5 d.lgs. n.
28 del 2010 sussiste per il solo atto introduttivo del giudizio e non
per le domande riconvenzionali, fermo restando che al mediatore
compete di valutare tutte le istanze e gli interessi delle parti ed al
giudice di esperire il tentativo di conciliazione, per l’intero corso
del
processo e laddove possibile».
AVVISO. Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità.