- Diversa sarebbe stata, invece, la conclusione se la disposizione
impugnata avesse previsto l'obbligo dell'avvocato, tenuto all'osservanza delle
regole del proprio Codice Deontologico, di rinunciare all'attività di
mediazione ove, in relazione a questa, la normativa primaria avesse introdotto
previsioni contrastanti con il Codice.
- L’eventuale violazione
delle regole introdotte dall'art. 55 bis, così come di qualsiasi altra
disposizione del Codice Deontologico, non si riverbera sull'attività
esercitata dall'avvocato-mediatore in sede di mediazione o in un'aula di
giustizia, ma ha riflessi solo sul piano disciplinare.
(1) Si veda in questo senso
Cass. n. 17004/11, Cass.
S.U. n. 14617/10 e Cass. n. 15852/09.
Fonte: Osservatorio
Mediazione Civile n. 32/2013
Tribunale Amministrativo Regionale per il
Lazio
29 ottobre 2012, n. 8858
Sez. Terza Quater
Sentenza
…omissis…
FATTO
1. Con atto notificato
in data 21 novembre 2011 e depositato il successivo 7 dicembre, i ricorrenti -
tutti avvocati iscritti agli ordini professionali di appartenenza e mediatori
abilitati o accreditati nell'ambito dell'attività finalizzata alla
conciliazione delle controversie civili e commerciali ai sensi del d.lgs. 14
maggio 2010, n. 28 nonché avvocati soci o associati o condividenti i locali di
studio con colleghi mediatori abilitati - impugnano la delibera assunta dal
Consiglio Nazionale Forense (d'ora in poi, CNF) nella seduta del 5 luglio 2011,
con la quale è stato modificato il Codice Deontologico Forense, introducendo
l'art. 55 bis, nonché la relativa circolare dello stesso Consiglio 23 settembre
2011, n. 24-C-2011.
Parte ricorrente espone,
in fatto, che il CNF ha disciplinato, con il nuovo art. 55 bis, lo svolgimento
dell'attività di mediazione da parte degli avvocati portando sostanziali
modifiche al Codice Deontologico Forense. Tali disposizioni regolano altresì
l'attività svolta dagli avvocati che rivestono la qualità di soci, associati o
si limitano a dividere i locali con colleghi che svolgono attività di
mediatori. Il citato art. 55 bis: a) ai canoni primo, secondo e quarto
introduce regole concernenti requisiti dell'attività di mediazione svolta
dall'avvocato (dovere di competenza, dovere di evitare situazioni di
incompatibilità e limitazioni all'individuazione della sede dell'organismo di
mediazione); b) al canone terzo disciplina l'attività svolta dall'avvocato
successivamente all'espletamento di un incarico di mediazione.
2. Avverso la predetta
disciplina contenuta nell'art. 55 bis parte ricorrente è insorta deducendo:
a) Violazione di legge
con riferimento all'art. 60, l. n. 69 del 2009 e al d.lgs. n. 28 del 2010, con
particolare riferimento agli artt. 3 e 14 - Violazione di norma regolamentare
con particolare riferimento al D.M. n. 180 del 2010 e al D.M. n. 145 del 2011 -
Difetto assoluto di attribuzione - Eccesso di potere per genericità.
L'art. 55 bis è
illegittimo nella parte in cui prevede che l'avvocato, che svolge la funzione
di mediatore, deve rispettare gli obblighi dettati dalla normativa in materia e
la previsione del regolamento dell'organismo di mediazione, nei limiti in cui
dette previsioni non contrastino con quelle del Codice Deontologico. Tale norma
impone, infatti, all'avvocato-mediatore di subordinare il rispetto di
disposizioni di fonte primaria e regolamentare, quali quelle che disciplinano
l'attività di mediazione, alla preventiva verifica di compatibilità delle
stesse con quanto previsto dal Codice Deontologico Forense e dispone di fatto
la loro disapplicazione nel caso di eventuale contrasto con quest'ultimo.
L'art. 55 bis è quindi nullo perché adottato in carenza assoluta di potere,
avendo il CNF chiesto all'avvocato, che svolge funzioni di mediatore, di
disapplicare o addirittura violare norme di fonte primaria ovvero coperte da
fonte primaria per rispettare il Codice Deontologico.
b) Violazione di legge
con riferimento all'art. 60, l. n. 69 del 2009 e al d.lgs. n. 28 del 2010, con
particolare riferimento agli artt. 3 e 14 - Violazione di norma regolamentare
con particolare riferimento al D.M. n. 180 del 2010 e al D.M. n. 145 del 2011 -
Difetto assoluto di attribuzione.
I canoni primo e secondo
dell'art. 55 bis sono illegittimi perché emanati in aperta violazione delle
disposizioni di legge e di natura regolamentare che disciplinano la materia
della mediazione. Solo il regolamento che disciplina l'attività di mediazione
può, infatti, prevedere casi d'incompatibilità.
c) Violazione di legge
con riferimento all'art. 60, l. n. 69 del 2009 e al d.lgs. n. 28 del 2010, con
particolare riferimento agli artt. 3 e 14 - Violazione di norma regolamentare
con particolare riferimento al D.M. n. 180 del 2010 e al D.M. n. 145 del 2011 -
Eccesso di potere per ingiustizia manifesta, irragionevolezza,
contraddittorietà e illogicità, travisamento dei fatti, difetto di presupposti.
È illegittima la
previsione secondo cui l'avvocato non deve assumere funzioni di mediatore in
difetto di adeguata competenza.
d) Violazione di legge
con riferimento all'art. 60, l. n. 69 del 2009 e al d.lgs. n. 28 del 2010, con
particolare riferimento agli artt. 3 e 14 - Violazione di norma regolamentare
con particolare riferimento al D.M. n. 180 del 2010 e al D.M. n. 145 del 2011 -
Eccesso di potere per ingiustizia manifesta, irragionevolezza, contraddittorietà
e illogicità, travisamento dei fatti, difetto di presupposti.
È illegittima per
illogicità la prescrizione codicistica che inibisce all'avvocato, che ha svolto
l'incarico di mediatore, d'intrattenere rapporti professionali con una delle
parti se non sono decorsi almeno due anni dalla definizione del procedimento.
e) Violazione di legge
con riferimento all'art. 60, l. n. 69 del 2009 e al d.lgs. n. 28 del 2010, con
particolare riferimento agli artt. 3 e 14 - Violazione di norma regolamentare con
particolare riferimento al D.M. n. 180 del 2010 e al D.M. n. 145 del 2011 -
Eccesso di potere per ingiustizia manifesta, irragionevolezza,
contraddittorietà e illogicità.
È illegittima - per
violazione dei principi di eguaglianza, imparzialità e proporzionalità -
l'estensione dei divieti anche ai soci, associati e ai professionisti che
esercitano negli stessi locali dell'avvocato abilitato alla mediazione. Tali
disposizioni violano anche gli obblighi di riservatezza e di trattamento dei
dati personali perché obbligano i mediatori a comunicare costantemente ai
predetti soggetti i nomi delle parti che ad essi si sono rivolti per
l'espletamento di incarichi di mediazione, con evidente detrimento delle
esigenze di tutela della riservatezza ed in aperta violazione con quanto
previsto dall'art. 9, d.lgs. n. 28 del 2010.
f) Violazione di legge
con riferimento all'art. 60, l. n. 69 del 2009 e al d.lgs. n. 28 del 2010, con
particolare riferimento agli artt. 3 e 14 - Violazione di norma regolamentare
con particolare riferimento al D.M. n. 180 del 2010 e al D.M. n. 145 del 2011 -
Eccesso di potere per ingiustizia manifesta, irragionevolezza,
contraddittorietà e illogicità.
Illegittimamente l'art.
55 bis colpisce e condiziona anche coloro che non hanno svolto attività di
mediazione.
g) Violazione dei
principi di libera concorrenza - Eccesso di potere per ingiustizia manifesta,
irragionevolezza, contraddittorietà e illogicità.
La norma, che viola i
principi comunitari di libera concorrenza, è abnorme e in contrasto con
l'intenzione del legislatore di privilegiare la categoria professionale degli
avvocati atteso che essi, in ragione della pregressa esperienza nelle
discipline giuridiche di loro competenza, sono in grado, più di ogni altro
professionista, di assolvere le funzioni di mediatore.
3. Si è costituito in
giudizio il Consiglio Nazionale Forense, che ha preliminarmente eccepito
l'inammissibilità del ricorso, mentre nel merito ne ha sostenuto
l'infondatezza.
4. Si sono costituiti in
giudizio il Ministero della giustizia e l'Autorità Garante della Concorrenza e
del Mercato per resistere al ricorso, ma senza espletare alcuna attività
difensiva.
5. Con memorie
depositate alla vigilia dell'udienza di discussione le parti costituite hanno
ribadito le rispettive tesi difensive.
6. Alla Camera di
consiglio del 10 gennaio 2011, sull'accordo delle parti, l'esame dell'istanza
di sospensione cautelare è stato abbinato al merito.
7. All'udienza del 24
ottobre 2012 la causa è stata trattenuta per la decisione.
DIRITTO
1. Come esposto in
narrativa, sono impugnate le norme dell'art. 55 bis del Codice Deontologico
Forense, introdotto dal Consiglio Nazionale Forense (d'ora in poi, CNF) con
delibera del 5 luglio 2011, nella parte in cui vieta all'avvocato di assumere
funzioni di mediatore se ha avuto rapporti professionali con una delle parti
negli ultimi due anni o se una delle parti è o è stata assistita, anche in
questo caso negli ultimi due anni, da un professionista di lui socio o con lui
associato o che eserciti l'attività forense negli stessi locali, nonché di
intrattenere rapporti professionali con una delle parti se non è passato un
biennio dalla definizione del procedimento di mediazione e se l'oggetto
dell'attività non è diverso da quello del procedimento stesso.
Nel costituirsi in
giudizio il CNF ha sollevato l'eccezione di inammissibilità del ricorso, sul
rilievo che la disposizione impugnata non è immediatamente lesiva, divenendolo
solo quando al professionista, che non abbia osservato le disposizioni dettate,
verrà comminata la sanzione. L'eccezione è priva di pregio atteso che le
disposizioni, alle quali il professionista deve obbligatoriamente attenersi,
hanno portata immediatamente lesiva della sua sfera giuridica, non solo perché
la sanzione è conseguenza certa e ineludibile dell'inosservanza di dette
regole, ma soprattutto perché l'avvocato, che è rispettoso del Codice
Deontologico e non intende violarlo, subisce immediatamente le limitazioni
imposte dal CNF. Correttamente, dunque, i professionisti ricorrenti, che non
intendono violare le disposizioni impartite sino a quando le stesse esistono,
seguono la via legale dell'impugnazione, chiedendo al giudice naturalmente
competente di espungerle dal Codice.
Al fine del decidere è
opportuno ricordare la definizione che l'art. 1, d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28,
adottato in attuazione dell'art. 60, d.lgs. 18 giugno 2009, n. 69, dà della
mediazione, e cioè "l'attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale
e finalizzata ad assistere due o più soggetti sia nella ricerca di un accordo
amichevole per la composizione di una controversia, sia nella formulazione di
una proposta per la risoluzione della stessa". A sottolineare ancora
l'importanza dell'imparzialità del mediatore è il comma 2 del successivo art.
3, secondo cui il regolamento scelto dalle parti e applicato al procedimento di
mediazione deve in ogni caso garantire la riservatezza del procedimento e
modalità di nomina del mediatore che ne assicurino l'imparzialità e l'idoneità
al corretto e sollecito espletamento dell'incarico. È dunque di palese evidenza
il carattere di imparzialità che deve connotare la figura del mediatore e,
quindi, la differenza che intercorre tra questa attività e quella svolta dall'avvocato.
Mentre quest'ultimo è il professionista che tutela gli interessi esclusivi
della parte che lo ha nominato, il mediatore aiuta due parti a raggiungere un
accordo amichevole o conciliativo; è neutrale, non curando, al contrario
dell'avvocato, gli interessi dell'una o dell'altra. Lo stesso d.lgs. n. 28 del
2010 individua (art. 14) una serie di preclusioni, a carico del mediatore, di
carattere generale e che prescindono dall'attività professionale eventualmente
svolta (ad esempio, di avvocato). Al mediatore e ai suoi ausiliari è fatto
divieto di assumere diritti o obblighi connessi, direttamente o indirettamente,
con gli affari trattati, fatta eccezione per quelli strettamente inerenti alla
prestazione dell'opera o del servizio; è fatto divieto anche di percepire
compensi direttamente dalle parti. Al mediatore è fatto obbligo, tra l'altro,
di sottoscrivere, per ciascun affare per il quale è designato, una
dichiarazione di imparzialità secondo le formule previste dal regolamento di
procedura applicabile, e di informare immediatamente l'organismo e le parti
delle ragioni di possibile pregiudizio all'imparzialità nello svolgimento della
mediazione.
Il CNF, con l'art. 55
bis del Codice Deontologico, ha inteso tutelare e garantire tale imparzialità.
E lo ha fatto individuando a priori alcune situazioni che, se si verificassero,
sarebbero in grado di minarla. Con il suo intervento l'organo in questione ha
dunque svolto una necessaria e doverosa attività di prevenzione di possibili
futuri abusi, agevolati - come anche il comune buon senso suggerisce -
dall'abbinamento in caso alla stessa persona di due professioni che, come si è
detto, si pongono in assoluta contrasto non solo per la diversa attività svolta
(l'avvocato è uomo di parte, il mediatore è uomo di pace), ma anche perché
ciascuna della due toglie spazio all'altra, sicché il contemporaneo esercizio
delle due da parte dello stesso soggetto pone all'organo di controllo problemi
di non poco momento.
Rileva il Collegio che
si tratta di una necessità che il Consiglio dell'Ordine ha giustamente
avvertito in considerazione della differenza strutturale che, come chiarito,
caratterizza le due professioni. In altri termini, preso atto della scelta
legislativa di consentire anche agli avvocati di svolgere attività di
mediazione - scelta che in questa sede non è dato sindacare - il CNF ha dovuto
dettare le regole alle quali l'avvocato, che intende affiancare alla propria
attività professionale di difensore di una delle parti litiganti anche quella
di mediatore, si deve attenere per evitare l'ingenerarsi di un conflitto che
ridonderebbe negativamente sulla sua figura e a discapito degli utenti delle
prestazioni.
Pienamente da
condividere è dunque l'affermazione del CNF nei propri scritti difensivi,
secondo cui la scelta del legislatore di consentire all'avvocato di esercitare
anche l'attività di mediatore - nonostante la sua radicale differenza rispetto
a quella forense - ha comportato l'insorgere di problematiche di assoluto
rilievo con conseguente dovere per gli organismi professionali competenti di
provvedere affinché, sul piano dei comportamenti concreti, l'esercizio da parte
dello stesso soggetto di professioni aventi obiettivi radicalmente contrastanti
non dia luogo a condotte disciplinarmente sanzionabili.
Parimenti condivisibile
è quindi anche l'assunto di parte ricorrente secondo cui la mediazione è
professione diversa e separata da quella forense; ritiene però il Collegio che,
allorché a svolgere tale professione è un avvocato, è corretto e, anzi,
doveroso che il soggetto istituzionalmente deputato a rappresentare l'intera
classe forense e a tutelarne l'immagine, ponga regole alle quali l'avvocato
deve attendersi perché il cumulo delle due prestazioni professionali, così
ontologicamente diverse tra loro, non finisca per influire negativamente
sull'immagine che l'avvocato deve offrire di sé stesso e della funzione che è
chiamato a svolgere. Legittima è dunque la preoccupazione del CNF di
salvaguardare la dignità, la correttezza e la trasparenza di comportamento che
non solo il singolo utente ma l'opinione pubblica in generale ha ragione di
pretendere da chi svolge l'attività di avvocato e che sono suscettibili di
essere inquinati da un uso strumentale dell'attività di mediazione per
l'acquisizione per via traversa di vantaggi economici sul piano della
professione forense.
Quanto poi alla
competenza del CNF ad individuare gli impugnati limiti, è da rilevare che il
Consiglio, nell'introdurre nel Codice Deontologico forense l'art. 55 bis, non
ha affatto preteso di sostituire il legislatore nei definire i requisiti
tecnico-professionali che deve possedere il soggetto che intende intraprendere
la nuova professione di conciliatore, ma si è responsabilmente preoccupato di
indicare le condotte che l'avvocato deve tenere, nel rispetto delle regole che
presiedono all'attività forense, se decide di svolgere anche la nuova
professione. In effetti il Consiglio non è affatto intervenuto, con le sue
prescrizioni, sulle norme che regolano l'attività di mediazione, ma si è giustamente
preoccupato di creare, con le sue prescrizioni, le condizioni che consentano
all'avvocato di esercitare anche la nuova professione nel rispetto dei principi
fondamentali dettati a tutela di quella forense, rendendo questa effettivamente
compatibile con l'altra.
Né si può ritiene che il
CNF, con le sue prescrizioni, abbia illegittimamente invaso un settore già
normato dagli organi competenti. Destinatario delle prescrizioni del Consiglio
è infatti solo l'avvocato, che ha scelto di fare anche il mediatore; la
normativa richiamata dal Consiglio e quella che esso ha introdotto ad
integrazione della precedente, sempre di sua paternità, è soltanto quella che
regola l'attività forense; l'avvocato, che intende continuare a svolgerla, è
obbligato a rispettarla anche quando esercita una nuova professione, che non è
solo quella di mediatore, ma potrebbe anche essere d'insegnante di materie
giuridiche nelle scuole professionali, di docente negli istituti universitari,
di amministratore delegato di società, di consigliere di società, ecc.
Due ultime annotazioni
di carattere generale sembra al Collegio utile fare, prima di passare all'esame
dei singoli motivi di ricorso.
La prima è che
l'eventuale violazione delle regole introdotte dall'art. 55 bis, così come di qualsiasi
altra disposizione del Codice Deontologico, non si riverbera sull'attività
esercitata dall'avvocato-mediatore in sede di mediazione o in un'aula di
giustizia, ma ha riflessi solo sul piano disciplinare. E ciò è rilevante agli
effetti di ben individuare e circoscrivere la portata dei poteri esercitati dal
CNF con l'introduzione dell'art. 55 bis.
La seconda è che, per
evitare di essere assoggettato a tali regole, l'avvocato può sempre scegliere
di cancellarsi dall'albo e di svolgere solo l'attività di mediatore (che, è
bene ricordare, può essere espletata anche da chi non è avvocato), facendo
venire meno, in radice, la possibilità di commistione tra le due attività e
l'obbligo di osservare le regole dettata dal CNF.
2. Tutto ciò chiarito,
si può passare all'esame del merito facendo applicazione, per decidere i
diversi motivi di ricorso, dei principi richiamati sub 1.
Con il primo motivo si
censura l'art. 55 bis del Codice Deontologico nella parte in cui prevede che
"l'avvocato, che svolga la funzione di mediatore, deve rispettare gli
obblighi dettati dalla normativa in materia e la previsione del regolamento
dell'organismo di mediazione, nei limiti in cui dette previsioni non
contrastino con quelle del presente Codice". In altri termini si chiede
all'avvocato-mediatore, in caso di contrasto tra le disposizioni del Codice e
quelle del d.lgs. n. 28 del 2010 e del d.m. 18 ottobre 2010, n. 180, di dare
priorità alle prime, in spregio delle seconde. Ad avviso di parte ricorrente
tale norma impone, infatti, all'avvocato-mediatore di subordinare il rispetto
di disposizioni di fonte legale e regolamentare alla preventiva verifica di
compatibilità delle stesse con quanto previsto dal Codice Deontologico Forense,
imponendo la disapplicazione delle prime nel caso di eventuale contrasto con il
secondo.
Il motivo è fondato.
Nonostante la non felice
formulazione della prescrizione, questa deve essere letta proprio nel senso
prospettato da parte ricorrente, e cioè che "le previsioni del regolamento
dell'organismo di mediazione" devono essere rispettate dall'avvocato che
svolge funzione di mediatore "nei limiti in cui (id est, se e in quanto)
dette previsioni non contrastino con quelle del presente Codice". La
lettura testuale della norma non può portare a diversa conclusione, con
conseguente sua illegittimità. Ed invero, il Codice Deontologico - che nel
sistema delle fonti è certamente di rango subordinato alla normativa primaria
in materia di conciliazione - non ha la forza di prevalere sulle norme primarie
con lo stesso contrastanti. Come chiarito dalla Corte di cassazione (sez. VI, 4
agosto 2011, n. 17004; s.u. 17 giugno 2010, n. 14617; id. 7 luglio 2009, n.
15852) le previsioni del Codice Deontologico hanno natura di fonte meramente
integrativa dei precetti normativi. Né rileva la circostanza che allo stato non
sussiste alcun contrasto tra le norme primarie e quella impugnata perché
nessuna disposizione normativa ha previsto che sono compatibili le attività
precluse dall'art. 55 bis, essendo possibili interventi successivi che
modifichino tali norme nel senso di contenere previsioni opposte a quelle del
Codice Deontologico.
Diversa sarebbe stata,
invece, la conclusione se la disposizione impugnata avesse previsto l'obbligo
dell'avvocato, tenuto all'osservanza delle regole del proprio Codice
Deontologico, di rinunciare all'attività di mediazione ove, in relazione a
questa, la normativa primaria avesse introdotto previsioni contrastanti con il
Codice.
3. Con i motivi secondo,
terzo e quarto si censurano i canoni primo e secondo dell'art. 55 bis.
Il primo canone prevede
che "l'avvocato non deve assumere funzioni di mediatore in difetto di
adeguata competenza". Il Collegio prescinde dal verificare l'interesse ad
impugnare siffatta disposizione, quasi che parte ricorrente volesse eliminare
un ostacolo che si frappone alla possibilità per l'avvocato di accettare
mediazioni pur nella consapevolezza di non essere in grado, per le specifiche
competenze richieste, di offrire un adeguato servizio. La legittimità di tale
norma appare infatti evidente leggendo la speculare disposizione dettata
dall'art. 12 dello stesso Codice, secondo cui "L'avvocato non deve
accettare incarichi che sappia di non poter svolgere con adeguata
competenza".
4. Il secondo canone
prevede che "Non può assumere la funzione di mediatore l'avvocato: a) che
abbia in corso o abbia avuto negli ultimi due anni rapporti professionali con
una delle parti; b) quando una delle parti sia assistita o sia stata assistita
negli ultimi due anni da professionista di lui socio o con lui associato ovvero
che eserciti negli stessi locali". Si tratta dunque di limiti imposti
all'avvocato nell'assunzione di incarichi di mediatore. Tali previsioni, ad
avviso di parte ricorrente, sono nulle per carenza assoluta di potere.
Anche la seconda censura
dedotta con il secondo motivo di ricorso non è suscettibile di positiva
valutazione.
Come si è detto sub 1,
connotato principale della professione del mediatore è l'indipendenza. Il
regolamento previsto dalla normativa primaria, al quale quest'ultima affida il
compito di fissare le cause di incompatibilità del mediatore, non è di ostacolo
all'individuazione, da parte dei singoli Consigli Nazionali, di ulteriori
ipotesi che, in relazione alla specificità della professione forense, rendono inopportuno
lo svolgimento dell'incarico di mediatore. In altri termini, la disciplina
delle incompatibilità dettata dal regolamento non esaurisce tutte le ipotesi ed
è di competenza dei singoli Consigli, nell'esercizio dei compiti loro demandati
dall'ordinamento, tutelare, tra l'altro, l'immagine dei professionisti che
rappresentano.
Né va trascurato che
l'art. 60, comma 3, lett. r), l. n. 69 del 2009 chiedeva espressamente che,
nell'esercizio della delega, si prevedesse "nel rispetto del Codice
Deontologico, un regime di incompatibilità tale da garantire la neutralità,
l'indipendenza e l'imparzialità del conciliatore nello svolgimento delle due
funzioni", così significando che le disposizioni della normativa primaria
si integrano con quelle specifiche dettate, in relazione alla singola
professione, dal relativo Codice Deontologico.
5. Il canone terzo - che
inibisce all'avvocato, che ha svolto l'incarico di mediatore, di intrattenere
rapporti professionali con una delle parti se non sono decorsi almeno due anni
dalla definizione del procedimento - è censurato per irragionevolezza non
essendovi, ad avviso di parte ricorrente, ragione alcuna per una tale
inibizione.
Anche questa censura è
priva di pregio.
Le inibizioni previste
dal canone terzo, così come del resto quella dettata dal precedente canone
secondo, fondano la propria ratio sulla necessità di prevenire qualsiasi
comportamento che faccia venire meno il connotato dell'indipendenza propria del
mediatore. Così, quindi, è legittima l'inibizione all'avvocato di svolgere
attività di mediatore se ha in corso o abbia avuto negli ultimi due anni
rapporti professionali con una delle parti (canone secondo, lett. a), e ciò per
l'evidente necessità di evitare che in un secondo momento, e cioé in sede di
mediazione, trovandosi di fronte ad un soggetto che è stato proprio cliente,
non riesca a garantire del tutto l'imparzialità; parimenti, è legittima
l'inibizione all'avvocato, che ha espletato funzioni di mediatore, di
intrattenere rapporti professionali con una delle parti se non siano decorsi
almeno due anni dalla definizione del procedimento di mediazione o se l'oggetto
dell'attività non sia diverso da quello del procedimento stesso (canone terzo,
lett. a e b), e ciò per evitare che l'attività di mediatore esercitata sia
stata condizionata (e dunque non sia stata del tutto imparziale) dalla volontà
di procurarsi futuri clienti o ancora, che il mediatore non abbia profuso tutte
le proprie capacità per far concludere positivamente la mediazione al fine di
procacciarsi un cliente da difendere poi nelle aule giudiziarie.
L'obiettivo lodevolmente
svolto dal Consiglio nazionale forense è evitare che la mediazione diventi
strumento scorretto di procacciamento di clienti da parte dell'avvocato ed è
ingiustamente riduttivo il ruolo che parte ricorrente tenta di affidare al
mediatore (pur non negando, in effetti, l'importanza della sua prestazione) al
fine di evidenziarne la connaturata neutralità.
Da rilevare ancora che
l'inibizione è solo temporale, con la conseguenza che non è precluso per
sempre, a chi ha saputo apprezzare le capacità dell'avvocato nella sua veste di
mediatore, di rivolgersi, cessato il periodo di c.d. raffreddamento, allo
stesso professionista perché presti in suo favore la prestazione di legale. Improcedibile
è invece la censura secondo cui le disposizioni impugnate sarebbero viziate
anche per contraddittorietà rispetto alle inibizioni individuate dall'art. 55
del Codice nei confronti dell'avvocato che svolge anche attività arbitrale.
L'art. 55 è stato, infatti, modificato con delibera del 16 dicembre 2011 nel
senso di introdurre previsioni analoghe a quelle del successivo art. 55 bis.
Nell'atto introduttivo
del giudizio la disparità di trattamento era stata denunciata solo con
riferimento all'attività dell'arbitro, con la conseguenza che inammissibile è
l'estensione, con memoria non notificata, di tale denuncia con riferimento ad
altre attività (quale quella di giudice tributario e di giudice di pace,
rispetto alle quali, peraltro, il regime di incompatibilità è molto più
rigoroso, anzi totale).
7. Il quinto motivo
censura le predette previsioni nella parte in cui si estendono anche ai
professionisti soci, associati ovvero che esercitino negli stessi locali.
Tale motivo è infondato
nella parte in cui deduce la disparità di trattamento con l'avvocato che svolge
anche attività di arbitro. Ed infatti i limiti posti, nell'assunzione di
rapporti professionali con una delle parti, dal canone quarto dell'art. 55
all'avvocato che ha svolto l'incarico di arbitro si estendono anche '"ai
professionisti soci, associati ovvero che esercitino negli stessi locali".
8. La seconda censura
dello stesso quinto motivo deduce l'illegittimità della previsione per
violazione dell'obbligo di riservatezza previsto dall'art. 9, d.lgs. n. 28 del
2010.
Il motivo è privo di
pregio atteso che il comma 1 del citato art. 9 pone in capo ai mediatori un
obbligo di riservatezza con riferimento "alle dichiarazioni rese e alle
informazioni acquisite durante il procedimento medesimo". Nessuna
violazione del dovere di riservatezza ricorre, dunque, nel comunicare i soli
dati anagrafici delle parti della mediazione, senza alcun cenno all'oggetto
della mediazione. Aggiungasi che tale previsione non è affatto nuova, essendo
stata prevista dallo stesso Codice già agli artt. 37, canone 2, e 55, senza che
si sia mai dubitato della sua conformità con i principi generali
dell'ordinamento.
9. Il sesto motivo
deduce l'illegittimità della stessa previsione perché ingiustamente
penalizzante nei confronti dei professionisti soci, associati ovvero che
esercitino negli stessi locali. La disposizione preclude infatti ai
professionisti soci, associati ovvero che esercitino negli stessi locali
dell'avvocato-mediatore di intrattenere rapporti professionali con una delle
parti nei casi previsti dal canone terzo, lett. a) e b).
Anche questo motivo non
è suscettibile di positiva valutazione.
Partendo dal presupposto
che la ratio sottesa a tale previsione è la stessa che ispira l'intero art. 55
bis (e sulla quale è stato argomentato sub 1), appare evidente che tra
l'avvocato - mediatore e i colleghi di studio può sussistere un collegamento,
con la conseguenza che i rischi che il connotato dell'imparzialità venga meno,
già evidenziati sub 5, possono verificarsi anche se l'attività di legale non è
svolta direttamente dall'avvocato mediatore, ma da un collega di studio (socio,
associato o semplicemente esercitante l'attività negli stessi locali).
Non può negarsi che la
previsione è penalizzante per il collega di studio dell'avvocato - mediatore,
ma la ragione della sua previsione, accompagnata dalla sua durata limitata nel
tempo (nel caso sub a del canone terzo), la rendono legittima.
10. Non è suscettibile
di positiva valutazione il settimo motivo di ricorso, alla luce delle
argomentazioni svolte sub 1 per dimostrare la ratio sottesa all'art. 55 bis del
codice deontologico, che non è affatto di penalizzare l'attività di mediazione
ove svolta dall'avvocato quanto, piuttosto, di evitare che il cumulo di
professioni così diverse in capo allo stesso soggetto-avvocato possa avere
riflessi sul piano deontologico, a discapito della categoria e, soprattutto,
degli utenti del servizio forense.
11. Non è infine
condivisibile l'assunto di parte ricorrente secondo cui le limitazioni imposte
dall'art. 55 bis all'avvocato che svolge anche funzioni di mediatore
violerebbero i principi comunitari in materia di libera concorrenza. Ed invero,
la preoccupazione principale del CNF è stata proprio quella di garantire la
libera concorrenza fra gli avvocati, imponendo ad essi obblighi preordinati ad
evitare che l'associazione "avvocato-mediatore" diventi facile
strumento per l'accaparramento della clientela, che è risultato agevolmente
realizzabile se non fronteggiato in via preventiva con adeguate misure. La
circostanza che solo il Consiglio forense sia intervenuto, imponendo regole di
condotta pre e post incarico, e non anche altri ordini professionali
interessati, non è affatto pregiudizievole per gli avvocati, ma al contrario
pone la maggioranza al riparo da possibili iniziative scorrette di un'eventuale
minoranza. Né, sempre sul piano concorrenziale, le prescrizioni in questione
danneggerebbero la categoria degli avvocati rispetto ad altre categorie
professionali, siccome sostiene la ricorrente, la quale trascura il dato
elementare che la scelta del mediatore è funzionale alla materia del contendere
che s'intende comporre e alla specifica competenza che si pretende in chi è
chiamato a svolgere questa funzione, sicchè è irragionevole il solo supporre
che per il soggetto, coinvolto in una vicenda che richiede una specifica
competenza giuridica, sia indifferente sostituire l'avvocato con il geometra o
con il commercialista.
Va da ultimo osservato
che fra le misure adottate dal CNF, che la ricorrente qualifica
"restrittive", non c'è ad avviso del Collegio una sola che comporti
un'irragionevole limitazione dell'attività dell'avvocato - mediatore, tutte al
contrario trovando piena giustificazione nell'esigenza avvertita dal Consiglio
di prevenire possibili abusi che, oltre a compromettere la libera concorrenza
all'interno della classe forense determinerebbero discredito a carico della
stessa. Ciò vale anche per l'inibizione fatta dall'art. 55 bis all'avvocato
mediatore di ospitare nel proprio studio professionale la sede dell'organismo
di mediazione ovvero di allocare nella sede di quest'ultima il proprio studio,
che la ricorrente contesta anche sotto il profilo dei costi che essa comporta
sia per il legale che per l'organismo, e che invece costituisce una misura
obbligata nella politica di prevenzione coltivata dal Consiglio.
12. Nella memoria
depositata il 26 maggio 2012 il CNF ha chiesto a questo giudice di sollevare
dinanzi alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell'art.
1 lett. b), d.lgs. n. 28 del 2010, per violazione dell'art. 76 Cost. per
eccesso di delega. Ad avviso del Consiglio Nazionale Forense detto articolo,
stabilendo che è mediatore "la persona o le persone fisiche che ...
svolgono la mediazione" nell'ambito di un "ente, pubblico o privato,
presso il quale può svolgersi il procedimento di mediazione" contrasta con
il criterio direttivo fissato dalla legge delega (art. 60, comma 3, lett. b, l.
18 giugno 2009, n. 69), che invece stabilisce che "la mediazione è svolta
da organismi professionali e indipendenti, stabilmente destinati all'erogazione
del servizio di mediazione".
La richiesta del CNF non
può essere accolta, non essendo la questione sottoposta rilevante al fine del
decidere il ricorso proposto contro l'art. 55 bis del Codice deontologico. Ed
invero, in relazione all'unico motivo accolto - rispetto al quale soltanto
sussisterebbe l'interesse a sollevare la questione di legittimità
costituzionale - il Collegio non ha fatto applicazione della norma tacciata di
illegittimità costituzionale quanto, piuttosto, dei principi generali
dell'ordinamento in tema di rapporto tra fonti (sulla manifesta inammissibilità
della questione di legittimità costituzionale di una norma nel caso in cui il
giudice a quo dichiari la risolvibilità della controversia indipendentemente
dalla suddetta questione si è espressa, da ultimo, Corte cost., ord., 12
gennaio 2012, n. 5).
Dei due presupposti
necessari perché il giudice a quo possa rimettere la questione di costituzionalità
al giudice delle leggi (rilevanza e non manifesta infondatezza) è dunque
carente la prima, con la conseguenza che a questo giudice è precluso anche
l'esame della non manifesta infondatezza.
13. Per le ragioni che
precedono il ricorso deve essere accolto nei limiti sopra indicati.
La soccombenza solo
parziale e la novità delle questioni sottoposte al vaglio del giudice
giustificano l'integrale compensazione fra le parti costituite delle spese e
degli onorari del giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo
Regionale per il Lazio (Sezione Terza Quater) definitivamente pronunciando sul
ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei limiti di cui in
motivazione e per l'effetto annulla il primo comma dell'art. 55 bis del Codice
deontologico forense.
Compensa integralmente
tra le parti in causa le spese e gli onorari del giudizio.
Ordina che la presente
sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma
nella camera di consiglio del giorno 24 ottobre 2012 con l'intervento dei
magistrati:
Italo Riggio, Presidente
Maria Luisa De Leoni,
Consigliere
Giulia Ferrari,
Consigliere, Estensore
Depositata in segreteria
il 29 ottobre 2012
AVVISO. Il
testo riportato non riveste carattere di ufficialità.