=> Tribunale di Savona, 19 ottobre 2018
Diversamente da
quanto affermato dalla giurisprudenza maggioritaria, deve ritenersi che l’unico adempimento richiesto dal d.lgs. 28/2010 ai
fini della procedibilità della domanda
è il deposito della domanda di
mediazione presso l’organismo deputato; non è invece necessario dar vita ad un tentativo di conciliazione
effettivo (I) (II).
Fonte: Osservatorio
Mediazione Civile n. 15/2019
Tribunale di Savona
Sentenza
19 ottobre 2018
Omissis
omissis sono comproprietari dell’appartamento int. 7 sito nel condominio omissis. Gli attori hanno impugnato
alcuni punti della delibera assembleare del 22 aprile 2017, chiedendone
l’annullamento. Gli attori hanno notificato la citazione, ma non hanno iscritto
a ruolo la causa, salvo poi riassumerla in un secondo momento. Il condominio si
è costituito in giudizio, contestando le argomentazioni di parte attrice e
chiedendo il rigetto dell’impugnazione. Con provvedimento del 4 maggio del
2018, il Giudice, su eccezione di parte convenuta, rilevato che la materia
oggetto di causa ricadeva tra quelle soggette alla mediazione obbligatoria, ha
fissato termine di 15 gg. per adire l’organismo di mediazione.
Per quanto nessuna delle parti abbia prodotto il relativo verbale, è
pacifico che parte attrice ha proposto la relativa istanza all’organismo di mediazione
nei termini di legge, ma non ha, poi, presenziato al primo incontro fissato dal
mediatore, cui, invece, era presente parte convenuta.
Quest’ultima ha eccepito l’improcedibilità della domanda.
L’improcedibilità del giudizio.
L’obbligatorietà della mediazione in materia condominiale è prevista
dall’art. 5 del Dlgs 28/10 e dall’art. 71 quater disp. att. c.c.
Al riguardo, l’art. 5, co. 1-bis prevede: “Chi intende esercitare in
giudizio un'azione relativa a una controversia in materia di condominio … è
tenuto, assistito dall'avvocato, preliminarmente a esperire il procedimento di
mediazione ai sensi del presente decreto… L'esperimento del procedimento di
mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale”.
Si pone il problema di identificare qual è l’adempimento richiesto
perché il procedimento di mediazione possa dirsi esperito.
Sul punto, il co. 2 bis del medesimo art. 5 precisa che “Quando
l'esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità
della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo
incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l'accordo”.
La giurisprudenza maggioritaria (si vedano, tra gli altri, Corte
d'Appello di Milano, sentenza 10 maggio 2017 in Leggi d’Italia; Corte d'Appello
di Ancona, sentenza 23 maggio 2018 in www.mondoadr.it; Tribunale di Pavia, sez.
III, sentenza 20 gennaio 2017 e Trib. di Roma, Ord., 26 ottobre 2015, n. 100801
in Leggi d’Italia; Trib. Vasto, 9 marzo 2015, in Giur. it., 2015, 1885; Trib.
Firenze, 26 novembre 2014, in Riv. dir. proc., 2015, 558; Trib. Firenze, 19
marzo 2014, in Plurisonline - Giurisprudenza di merito) ha sostenuto che,
perché la mediazione possa dirsi esperita, è necessario dar vita ad un
tentativo di conciliazione effettivo.
Ciò presuppone, in primis, la presenza fisica delle parti al primo
incontro fissato dal mediatore. Qualora ciò non avvenga, la domanda dovrà
essere dichiarata improcedibile.
Sul piano letterale, si dice, il co. 2 bis dell’art. 5 del Dlgs 28/10
richiede, perché la condizione di procedibilità possa dirsi avverata, che “il
primo incontro” si concluda “senza accordo”.
Tale incontro è disciplinato dall’art. 8 che prevede, tra l’altro, che
ad esso “le parti devono partecipare con l’assistenza dell’avvocato”.
La condizione di procedibilità, quindi, può dirsi realizzata solo
quando le parti (a ciò giuridicamente tenute) si sono materialmente incontrate
davanti ad un mediatore.
Sul piano teleologico, invece, si richiama la ratio dell’istituto: se
bastasse, la sola presentazione della domanda all’organismo di mediazione e non
fosse necessaria la presenza delle parti medesime, la mediazione non potrebbe
mai realizzare il suo fine, che consiste nel creare le condizioni perché si
riattivi la comunicazione tra i litiganti, al fine di renderli in grado di
verificare la possibilità di una soluzione concordata del conflitto. In
sostanza, basterebbe adempiere solo formalmente all’obbligo della mediazione,
presentando la domanda ma senza usufruire in concreto delle potenzialità
dell’istituto, per svuotarlo completamente di ogni significato.
Ecco allora che il legislatore, per evitare che ciò si verifichi, ha
fatto ricorso ad un incentivo forte: l’improcedibilità della domanda.
Tuttavia, tale conclusione non convince, in quanto sembra fondarsi più
su argomenti de jure condendo che non su argomenti de jure condito.
La tesi criticata non considera che ogni ostacolo frapposto alla piena
esplicazione del diritto all’azione tutelato dalla Costituzione deve
considerarsi eccezionale.
Con riferimento ad ipotesi di giurisdizione condizionata, qual è quella
in esame, la giurisprudenza ha affermato il “principio, espresso anche dalla
giurisprudenza di legittimità, secondo il quale le disposizioni che prevedono
condizioni di procedibilità, costituendo deroga alla disciplina generale,
devono essere interpretate in senso non estensivo” (Corte Cost. 403/07; Cass.
967/04) e, anzi, “devono essere interpretate in senso restrittivo” (Cass.
26560/2014), “dovendo limitarsene l'operatività ai soli casi nei quali il rigore
estremo è davvero giustificato” (Cass. 6130/2011).
La Cassazione ha, poi, precisato che “l’improcedibilità, quale
conseguenza sanzionatoria di un comportamento procedurale omissivo, derivante
dal mancato compimento di un atto espressamente configurato come necessario
nella sequenza procedimentale “dev'essere espressamente prevista, non potendo
procedersi ad applicazione analogica in materia sanzionatoria, attese le gravi
conseguenze del rilievo dell'improcedibilità”, ragion per cui
l’improcedibilità non può operare in difetto di espressa previsione
legislativa (Cass. 20975/17) che, nel caso di specie, manca.
Infatti, l’ipotesi di mancata partecipazione delle parti al
procedimento di mediazione è disciplinata da una norma specifica: l’art. 8, co.
4 bis, Dlgs 28/10 che prevede, come conseguenza dell’assenza delle parti,
l’applicazione di una sanzione pecuniaria e la rilevanza di tale comportamento
ex art. 116 c.p.c.
Nulla viene detto, invece, in ordine all’improcedibilità dell’azione. O
meglio: qualcosa, sul punto, implicitamente la norma dice. Si prevede, infatti,
che la mancata partecipazione al procedimento di mediazione è valutabile ex
art. 116 c.p.c. Questo significa che, se la parte non partecipa alla
mediazione, il processo andrà avanti e dovrà concludersi con una pronuncia di
merito, nell’ambito del quale l’assenza dell’attore o del convenuto sarà
valutabile come argomento di prova contro l’assente.
Non è neppure sostenibile che le sanzioni di cui all’art. 8 si cumulino
con quella dell’improcedibilità.
Infatti, la
norma non distingue a seconda che sia assente l’attore o il convenuto.
Questo significa che la sola assenza del convenuto (e, quindi, il
mancato incontro di cui agli artt. 5, co. 2 bis ed 8) dovrebbe comportare il
mancato realizzarsi della condizione di procedibilità.
Ma è impensabile che il convenuto possa, con la propria colpevole o
volontaria inerzia, addirittura beneficiare delle conseguenze favorevoli di una
declaratoria di improcedibilità della domanda, che paralizzerebbe la disamina nel
merito delle pretese avanzate contro di sé o possa, comunque, rallentare
l’andamento del processo per almeno 3 mesi.
Né può ritenersi che solo l’attore dovrebbe presenziare all’incontro di
mediazione.
Tale soluzione non è sostenibile, in primo luogo, in quanto nessuna
norma distingue la posizione dell’attore da quella del convenuto ai fini della
mediazione, per cui sarebbe arbitrario ritenere sussistere un obbligo solo per
tale parte. L’art. 8, co. 1, è chiaro nell’affermare che entrambe le parti “devono
partecipare” al primo incontro, per cui non c’è alcuna ragione per sanzionare
l’inosservanza dell’una o dell’altra in modo diverso. Una soluzione diversa
determinerebbe, infatti, una disparità di trattamento tra la parte che ha
interesse alla realizzazione della condizione di procedibilità e le sue
controparti, perché sola la prima è esposta alla grave sanzione processuale
ipotizzata (sul punto, Trib. Verona Ord. 11 maggio 2017, n. 1626 in
www.altalex.com).
In secondo luogo, non solo non c’è alcun dato normativo a differenziare
la disciplina dell’assenza dell’attore da quella del convenuto, ma non c’è
neppure alcuna valida ragione perché ciò avvenga. L’attore ed il convenuto, di
fronte al mediatore, perdono il loro ruolo processuale: non c’è più un soggetto
che si afferma titolare di un diritto ed un convenuto indicato come gravato,
invece, da un corrispondente dovere, come nel processo. Con la mediazione
“scompaiono” i diritti e fanno ingresso gli interessi, originariamente
confliggenti e che, per effetto della mediazione, sono destinati a divenire
convergenti: entrambi i contendenti devono impegnarsi a porre fine ad una
controversia tra loro esistente, collaborando, a tal fine, in modo
soddisfacente e sfruttando le opportunità offerte dalla mediazione, evitando i
costi economici ed umani del giudizio.
Neppure può sostenersi che l’improcedibilità è prevista dall’art. 5 del
Dlgs 28/10 laddove precisa che la condizione di procedibilità è avverata quando
il primo incontro si conclude senza accordo.
Infatti, il legislatore ha semplicemente descritto quello che il
legislatore ha pensato poter essere lo sviluppo della procedura. Ciò che
interessa al legislatore, perché si realizzi la condizione di procedibilità è
che, nel primo incontro, le parti si esprimano sulla possibilità di iniziare la
procedura di mediazione, come si evince dall’art. 8 che prevede che, nel corso
di tale incontro, “il mediatore invita poi le parti ed i loro avvocati ad
esprimersi sulla possibilità di iniziare la procedura di mediazione”. Accertata
tale impossibilità, il processo deve andare avanti. Con l’assenza, la parte ed
il suo avvocato danno una risposta chiara alla possibile prosecuzione del
procedimento: la mancata partecipazione è espressione inconfutabile di mancanza
di volontà di iniziare la mediazione.
Del resto, se l'ordinamento riconosce il diritto a non partecipare al
processo restando contumace, senza che ciò abbia alcuna diretta conseguenza sul
piano processuale, in modo analogo deve essere riconosciuto il diritto a non
aderire al procedimento di mediazione, in un sistema, quale il nostro, retto
dal principio dispositivo e dal diritto costituzionale all'azione in giudizio.
Ciò è tanto più vero ove si consideri la contraddittorietà intrinseca nel voler
costringere le parti alla mediazione ed alla conciliazione.
Non è, poi, vero quanto sostenuto dall’orientamento qui criticato,
secondo cui, se l’assenza della parte non comportasse la sanzione
dell’improcedibilità e fosse sufficiente solo la presentazione della domanda
alla mediazione, l’istituto sarebbe svuotato di ogni sua utilità. A parte il
fatto che, comunque, la presenza fisica della parte non garantisce un impegno
effettivo a conciliare la lite, comunque, si osserva che il Dlgs 28/10
istituisce una gerarchia fra le varie fattispecie sanzionatorie, al cui vertice
si pone l'improcedibilità dell'azione, da dichiararsi unicamente nei casi più
gravi; in posizione mediana, si pongono la condanna pecuniaria ed il potere
giudiziale di desumere argomenti di prova di cui all’art. 8; infine, nel caso
in cui le parti abbiano partecipato alla mediazione, senza, però, sfruttare
immotivatamente l’occasione offerta di una conciliazione, la conseguenza
sanzionatoria è la condanna alle spese legali ex art. 13. Da tale quadro emerge
che la pacifica affermazione secondo cui le parti hanno l’obbligo di
presenziare all’incontro di mediazione non comporta automaticamente che
l’inosservanza sia punita con l’improcedibilità.
Infatti, il legislatore ha, comunque, previsto uno stimolo per le parti
a presenziare all’incontro di mediazione: l’assenza viene punita con una pena
pecuniaria (il pagamento di un importo pari al contributo unificato) e con una
pena processuale (applicazione dell’art. 116 c.p.c.), secondo quanto previsto
dall’art. 8.
Qualora tali rimedi si rivelino non adeguati, sarà compito del
legislatore porvi rimedio.
A questo, deve aggiungersi che l’art. 6 prevede che il procedimento di
mediazione non possa avere una durata superiore a 3 mesi. Trascorso tale lasso
di tempo, quindi, il processo può proseguire verso la definizione nel merito;
in questo caso, quindi, la condizione di procedibilità può dirsi realizzata,
pur in assenza dell’incontro di cui all’art. 8 del Dlgs 28/10 che, in ipotesi,
potrebbe non intervenire prima della sentenza conclusiva.
Ciò che, invece, non manca mai, perché il processo possa proseguire, è
la proposizione della domanda ex art. 4.
A ciò va aggiunto che tale conclusione trova supporto anche da un
confronto tra l’istituto in esame e l’altro istituto “fratello”: la convenzione
assistita. L'art. 3 del Dlgs 132/14, disciplinando l'invito obbligatorio alla
stipula di una "convenzione di negoziazione assistita" dagli
avvocati, fra le parti di una controversia rientrante nel novero di quelle
assoggettate a tale (nuova) ipotesi di improcedibilità della domanda
giudiziale, stabilisce, al comma 2°, che "Quando l'esperimento del
procedimento di negoziazione assistita è condizione di procedibilità della
domanda giudiziale la condizione si considera avverata se l'invito non è seguito
da adesione, è seguito da rifiuto entro trenta giorni dalla sua ricezione,
ovvero quando è decorso il periodo di tempo di cui all'articolo 2, comma 2,
lettera a)": eventi, tutti, innegabilmente riconducibili – espressamente o
implicitamente (nel caso di mancata adesione o di infruttuoso decorso del
termine) - alla mera volontà negativa delle parti in lite alla negoziazione.
L’assenza della parte, quand’anche sia attrice, all’incontro di
mediazione disposto ex art. 5 Dlgs 28/10, è, quindi, sì punita dal Dlgs 28/10,
ma non con l’improcedibilità, bensì con le sanzioni di cui all’art. 8.
In conclusione, deve ritenersi che l’unico adempimento richiesto ai
fini della procedibilità della domanda è il deposito della domanda di
mediazione presso l’organismo deputato.
Si deve, quindi, decidere nel merito delle argomentazioni di parte
attrice.
La tempestività dell’azione
Parte convenuta ha eccepito la tardività dell’impugnazione proposta. Infatti,
secondo parte attrice nel termine di 60 gg. gli attori avrebbero dovuto attivare
la procedura di mediazione o, comunque, depositare in cancelleria la citazione.
Non avendolo fatto, gli attori erano, quindi, decaduti dall’impugnazione. Tuttavia,
dal momento che l’impugnazione della delibera deve avvenire con citazione e non
ricorso (Cass. Sez. Un. 8491/11), basta che la notifica di tale atto sia
intervenuta nel termine di 30 gg. (Cass. 8839/17). Nel caso in cui, notificata
la citazione, la causa non sia iscritta a ruolo e sia, invece, riassunta ben
dopo il decorso di 30 gg. dalla delibera, la giurisprudenza (Cass. 14661/13),
in una fattispecie analoga alla presente, ha affermato che “La notificazione
della citazione, ancorché non seguita dall'iscrizione della causa a ruolo, né
dalla costituzione delle parti nei termini loro rispettivamente assegnati, è
sufficiente a determinare la pendenza della lite, poiché la mancata
costituzione non comporta senz'altro l'estinzione del processo, il quale,
benché in stato di quiescenza, può essere riassunto ai sensi dell'art. 307
c.p.c. Pertanto, la riassunzione della causa non iscritta a ruolo non determina
l'instaurazione di un nuovo giudizio, ma la prosecuzione di quello già
pendente, con la conseguenza che gli effetti sostanziali e processuali della
domanda permangono inalterati e riferiti, quanto alla loro produzione, alla
data della notifica della prima citazione”.
Ne discende che l’eccezione è infondata.
Mancato rispetto del termine di convocazione dell’assemblea.
Parte attrice ha lamentato che l’assemblea era stata convocata in prima
convocazione a dicembre, mentre in seconda convocazione era stata convocata ad
aprile e, quindi, ben oltre il termine di 10 gg. dalla prima. Tuttavia, parte
convenuta ha specificato che la prima assemblea si era tenuta non a dicembre,
come indicato nel relativo verbale che conteneva, quindi, un evidente errore
materiale, bensì ad aprile, con la conseguenza che l’intervallo temporale tra
la prima e la seconda convocazione previsto dall’art. 1136 c.c. era stato
rispettato.
La sussistenza di un errore materiale nella datazione del verbale della
prima assemblea è circostanza non specificamente contestata ex art. 115 c.p.c. Solo
in sede di comparsa conclusionale, parte attrice ha insistito sul punto, ma
quando i termini per le allegazioni in fatto (e, quindi, per le contestazioni)
erano già spirati.
Ne discende che anche tale eccezione è infondata.
Genericità dell’ordine del giorno.
Parte attrice ha, poi, lamentato che l’ordine del giorno dell’assemblea
del 22 aprile 2017 non conteneva una specifica indicazione degli argomenti
oggetto dell’assemblea quanto ai punti 3, 4 e 5. Il punto 3 dell’odg era così
rubricato “Esame preventivi lavori di rifacimento e impermeabilizzazione
solettone box completo e scelta ditta appaltatrice”; il punto 4 era riportato
come “approvazione lavori di rifacimento e impermeabilizzazione solettone box
completo e scelta ditta appaltatrice e suo riparto col criterio di riparto
deliberato nell’assemblea del 7/8/14”. Infine, il punto 5 prevedeva
“approvazione lavori di adeguamento antincendio autorimessa e suo riparto”.
L’assemblea ha, poi, approvato i lavori in questione.
La giurisprudenza, sul punto, ha evidenziato: “In tema di condominio
negli edifici, affinché la delibera assembleare sia valida, non occorre che
l'avviso di convocazione prefiguri lo sviluppo della discussione e il risultato
dell'esame dei singoli punti all'ordine del giorno” (Cass. 13047/14); “In tema
di deliberazioni dell'assemblea condominiale, ai fini della validità
dell'ordine del giorno occorre che esso elenchi specificamente, sia pure in
modo non analitico e minuzioso, tutti gli argomenti da trattare, sì da
consentire a ciascun condomino di comprenderne esattamente il tenore e
l'importanza, e di poter ponderatamente valutare l'atteggiamento da tenere, in
relazione sia alla opportunità o meno di partecipare, sia alle eventuali
obiezioni o suggerimenti da sottoporre ai partecipanti. (Nella specie, la S.C.
ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto che l'autorizzazione
all'amministratore ad aprire un nuovo conto corrente, una volta saldato quello
precedente in passivo, e di procedere ad uno sconfinamento - in quanto connessa
e logicamente conseguenziale ai punti dell'ordine del giorno relativi alla
nomina del nuovo amministratore ed all'avvio della nuova gestione condominiale,
con l'approvazione del rendiconto relativo alle annualità pregresse - non
richiedesse una indicazione analitica e separata della questione) (Cass.
21449/10).
Tali requisiti sono stati chiaramente rispettati anche nel caso di
specie.
A questo deve aggiungersi che la giurisprudenza afferma che “L'obbligo
di preventiva informazione dei condomini in ordine al contenuto degli argomenti
posti all'ordine del giorno dell'assemblea risponde alla finalità di far
conoscere ai convocati, sia pure in termini non analitici e minuziosi,
l'oggetto essenziale dei temi da esaminare, in modo da consentirgli di
partecipare consapevolmente alla relativa deliberazione; pertanto, in
considerazione della "ratio" di detto avviso, la sua eventuale
genericità non comporta l'invalidità della delibera condominiale, qualora
risulti che il condomino, sia pure "aliunde", era sufficientemente
informato sull'argomento che avrebbe costituito oggetto dell'assemblea” (Cass.
63/06). I lavori oggetto della delibera impugnata avevano costituito l’oggetto
di altra delibera, anch’essa impugnata dagli attori e, poi, revocata dal
condominio. Ne discende che questi erano già a conoscenza di ciò su cui
l’assemblea sarebbe stata chiamata a pronunciarsi.
Omessa allegazione di documentazione all’avviso di convocazione.
La delibera, nei punti 3 e 4, era viziata, in quanto non era stato
allegato alcun documento all’avviso di convocazione, nonostante fossero
sopravvenuti 3 preventivi, come specificamente indicato in verbale.
Come riconosciuto dall’attore, nessuna norma impone all’amministratore
di allegare all’ordine di convocazione la documentazione oggetto della
discussione in sede di delibera assembleare. Nulla viene detto, in particolare,
dall’art. 66 disp. att. c.c. Peraltro, il condomino è tutelato in quanto può
prendere visione di tale documentazione ove ne faccia richiesta, nei giorni e
nelle ore indicate dall’amministratore stesso ex art. 1129, co. 2 c.c.
La giurisprudenza afferma che “al fine di soddisfare adeguatamente il
diritto d’informazione dei condomini circa l’oggetto della delibera non è
necessario allegare all’avviso anche i singoli importi dei preventivi in
questione, posto che per assolvere agli oneri di specificità e chiarezza
dell’ordine del giorno e soddisfare il diritto d’informazione dei condomini è
sufficiente l’indicazione della materia su cui deve vertere la discussione e la
votazione, mentre è onere del condomino, ove intendesse avere a disposizione i
dati specifici e la documentazione relativa alla materia su cui decidere,
attivarsi per visionarla presso l’amministratore stesso ed eventualmente
farsene rilasciare copie a proprie spese (Tribunale Roma, sez. V, 12/01/2010,
n. 316 Guida al diritto 2010, 13, 74 e Trib. Nocera Inf. 10 maggio 2012 n. 394
in www.dejure.it).
La circostanza che siano sopravvenuti alcuni preventivi non giustifica
alcuna deroga ai principi di cui sopra.
Indeterminatezza dei votanti alla delibera di cui al punto 5.
L’assemblea approvò anche i lavori di cui al punto 5. Nel verbale si
legge che tale punto “viene deliberato all’unanimità degli aventi diritto,
nessun voto contrario e nessun astenuto”. Secondo parte attrice, non si
comprende chi votò la delibera.
In realtà, in assenza di indicazioni di segno contrario, si deve ritenere
che gli aventi diritto altri non sono che coloro che parteciparono
all’assemblea e che sono titolari di diritti sui beni oggetto dei lavori. E’,
quindi, chiaro che si tratta di una delibera approvata dall’unanimità dei
condomini presenti.
Illegittimità dei criteri di riparto delle spese e della rateizzazione.
In relazione ai lavori di cui ai punti 4 e 5, l’assemblea deliberò di
ripartire le spese secondo i criteri di riparto delle spese di cui alla
delibera del 7 agosto 2014. Gli attori hanno lamentato che l’assemblea avrebbe
determinato non il riparto, ma solo i criteri di riparto di tali spese e,
comunque, il riparto sarebbe avvenuto in violazione della legge e di quanto
stabilito dall’assemblea. Tuttavia, parte attrice ha omesso di specificare in
che modo si sarebbero manifestate tali illegittimità, e non ha neppure prodotto
il relativo riparto. E’, quindi, impossibile pronunciarsi sulla legittimità o
meno dei criteri di riparto adottati.
Nessuna norma, poi, vieta all’assemblea di definire in astratto i
criteri di riparto rimettendo all’amministratore l’operazione meccanica volta a
determinare i contributi dovuti in concreto da ciascun condomino.
Ne discende che anche tale motivo di impugnazione è infondato.
Spese di lite.
Le spese di lite seguono la soccombenza e vengono liquidate avendo
riguardo ai valori medi valore indeterminato.
Quanto all’istanza ex art. 96 c.p.c. non è stato specificato in cosa
consisterebbe il danno patito dal condominio. La giurisprudenza afferma: “è
onere della parte che richiede il risarcimento dedurre e dimostrare la concreta
ed effettiva esistenza di un danno che sia conseguenze del comportamento
processuale della controparte, sicché il giudice non può liquidare il danno,
neppure equitativamente, se dagli atti non risultino elementi atti ad
identificarne concretamente l’esistenza, desumibili anche da nozioni di comune
esperienza e dal pregiudizio che la parte resistente abbia subito per essere
stata costretta a contrastare una iniziativa del tutto ingiustificata dell’avversario’’;
ed ancora ‘’la liquidazione del danno da responsabilità aggravata postula che
la parte istante abbia quanto meno assolto l’onere di allegare gli elementi di
fatto necessari ad identificarne concretamente l’esistenza ed idonei a
consentire al giudice la relativa liquidazione, anche se equitativa’’ (Cass.
16606/10).
La stessa deve pertanto essere respinta.
PQM
definitivamente pronunciando: respinge la domanda attorea; condanna omissis in solido fra loro a rifondere a
condominio omissis le spese di lite,
spese che liquida in euro 7.254,00 per compensi, oltre accessori di legge e
spese generali al 15%; condanna omissis
al pagamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma pari al
contributo unificato dovuto per il presente giudizio.
Savona 19 ottobre 2018
AVVISO. Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità.