=> Tribunale di Firenze, 14 settembre 2016
Disposto l’invio delle parti in mediazione ex art.5, comma 2, d.lgs. 28/2010, va affermato che l’avvio tardivo del
procedimento di mediazione (oltre il termine di quindici giorni assegnato dal
giudice) inficia l’intera procedura e non è idoneo a ritenere assolta la
condizione di procedibilità (I) (II).
Con riferimento all’art.5, comma 2, d.lgs. 28/2010 – laddove, in tema di mediazione demandata,
afferma che il giudice assegna “alle parti il termine di quindici giorni per la
presentazione della domanda di mediazione” – va fatto riferimento, in caso di
utilizzo della posta raccomandata, non alla data di deposito della domanda
di mediazione presso l’Organismo, bensì a quella di invio della raccomandata (I)
(II).
Fonte: Osservatorio
Mediazione Civile n. 75/2016
Tribunale di Firenze
Sezione terza
Sentenza
14 settembre 2016
Omissis
1. Sulla
improcedibilità per mancato tempestivo deposito della domanda di mediazione.
Trattasi questione
da trattare per prima, in quanto avente natura pregiudiziale di rito e
potenzialmente idonea a definire il giudizio.
E’ documentale che
la mediazione è stata disposta il 25.11.2014, con assegnazione di termine ex
lege di 15 giorni per la proposizione del relativo procedimento, e che la
domanda di mediazione, inviata per posta raccomandata il 5.12.2014, risulta
pervenuta e depositata dall’Organismo di mediazione in data 17.12.2014, e
quindi dopo la scadenza del suddetto termine.
Ciò posto, va
preliminarmente rammentato il più volte affermato orientamento di questo
giudice in materia di termini per l’avvio del procedimento di mediazione c.d.
delegata.
Ai sensi del d.lgs.
28/2010 l’invio delle parti in mediazione costituisce potere discrezionale
dell’ufficio che può essere esercitato “valutata la natura della causa, lo
stato dell’istruzione ed il comportamento delle parti”, sempreché non sia stata
tenuta l’udienza di precisazione delle conclusioni. Ove la mediazione venga
disposta, il suo esperimento “è condizione di procedibilità della domanda
giudiziale” (art. 5, II co. d.lgs. citato). Ne segue che il mancato esperimento
della mediazione vizia irrimediabilmente il processo, impedendo l’emanazione di
sentenza di merito.
Lo stesso art. 5,
II co. prevede espressamente che il Giudice assegna termine di giorni 15 “per
la presentazione della domanda di mediazione”.
L’avvio tardivo del
procedimento di mediazione inficia l’intera procedura e non è idoneo a ritenere
assolta la condizione di procedibilità. Questo giudice ha infatti sempre
ritenuto che tale termine abbia natura perentoria, ovvero che, comunque, il
mancato rispetto di esso, anche ove considerato ordinatorio, comporti la
decadenza dalla relativa facoltà (si veda per tutte la sentenza del 4.06.2015,
pubblicata su numerosi siti on line).
Nel caso di specie,
occorre stabilire se ai fini della tempestività della “presentazione” della
domanda di mediazione si debba avere in ogni caso riguardo alla data di
deposito della domanda di mediazione presso l’Organismo adito, ovvero a quella,
in caso di utilizzo della posta raccomandata, di invio della medesima.
Ritiene il
giudicante che la risposta corretta sia quest’ultima.
Invero, anche se la
mediazione è adempimento che si svolge in via incidentale ed al di fuori del
procedimento giudiziario, non può certo dubitarsi, anche per l’innegabile collegamento
ed interdipendenza tra le due procedure sotto il profilo della procedibilità
della domanda, che ad esso sia applicabile, eventualmente in via analogica, la
disciplina del processo.
Ciò posto, il
disposto dell’art. 5 d.lgs. 28/2010, nella misura in cui prevede un termine per
l’avvio della mediazione, va quindi interpretato nel senso che ai fini della
tempestività dell’incombente debba aversi riguardo alla data di invio della
relativa domanda e non dalla sua ricezione e deposito da parte dell’ente
destinatario.
Tale soluzione è
coerente con il principio più volte espresso dalla Corte di legittimità,
secondo cui, ove debba procedersi a pena di decadenza a notifica di un atto nel
rispetto di un termine processuale, è sufficiente che l’atto sia posto in
notifica prima della scadenza, non rilevando invece che la stessa si perfezioni
successivamente per il destinatario (di recente, si veda Cass., n. 3755/14;
22995/14 nonché Corte cost. sent. n. 447/2002).
Altrimenti
argomentando, si avrebbe un onere eccessivamente gravoso a carico della parte
interessata ad attivare il procedimento, e ciò anche in considerazione della
non eccessiva durata del termine previsto dalla legge per tale incombente (15
gg) e della non imputabilità dei ritardi inerenti la trasmissione a mezzo posta
e della stessa formalità di deposito.
D’altra parte il
termine di 15 gg non è finalizzato a consentire il deposito della domanda di
mediazione, bensì, esclusivamente la sua “presentazione” all’organismo di
mediazione.
L’utilizzo di
termine atecnico, quale quello di “presentazione”, lascia chiaramente intendere
che la stessa può attuarsi con modalità tra loro equipollenti, purché comunque
idonee a dare certezza legale circa il rispetto del termine concesso.
Né d’altra parte
appare decisivo sul punto il disposto di cui all’art. 4, I co., del D. Lgs.
citato, secondo cui “la domanda di mediazione … è presentata mediante deposito
di un istanza presso un organismo …In caso di più domande relative alla stessa
controversia la mediazione si svolge avanti all’organismo territorialmente
competente presso il quale è stata presentata la prima domanda. Per determinare
il tempo della domanda si ha riguardo alla data di deposito dell’istanza”.
La circostanza che
tale disposizione faccia espresso riferimento al “deposito” come modalità di
presentazione dell’atto ed ai fini di determinare la priorità tra più domande
ai fini della competenza, non esclude che l’istanza possa essere utilmente
proposta, sia pure al limitato fine di non incorrere nella violazione del termine
di legge e quindi di escludere i citati effetti decadenziali, con la modalità
qui contestata.
La data di deposito
dell’istanza è quindi solo elemento rilevante ai fini di determinare la
priorità di essa in caso di presentazione di più domande aventi ad oggetto la
medesima controversia di fronte ad organismi distinti.
Ciò non esclude che
ai fini del tempestivo avvio della procedura si debba avere riguardo alla data
di invio della domanda con mezzi equipollenti.
Non si vede
pertanto per quale ragione debba ritenersi irrituale l’invio in posta
raccomandata della relativa domanda, ovvero i motivi per cui, ove la parte si
avvalga di tale facoltà, la stessa dovrebbe accollarsi il rischio di eventuali
ritardi imputabili all’agente postale.
Si aggiunga che
dallo stesso modello di domanda di mediazione redatto dall’organismo di
conciliazione bancaria, adito nella fattispecie, si evince la possibilità di
inoltro a mezzo posta della relativa istanza, cosicchè eccessivamente
formalistica sul punto appare la diversa soluzione, peraltro adottata, per
quanto consta, solo da isolato precedente di merito (Trib. Busto Arstizio
15.6.2012).
Poiché nella
fattispecie è documentale che la domanda è stata inviata per posta raccomandata
il 5.12.2014, e quindi addirittura 6 giorni prima della scadenza del termine
assegnato, appare evidente la tempestività dell’adempimento.
L’eccezione va
quindi respinta.
2. Sulla azione
revocatoria proposta ex art. 2901 c.c.
L’attore ha
proposto, in tesi, domanda revocatoria ex art. 2901 c.c., chiedendo che venga
dichiarata l’inefficacia della compravendita avvenuta il 13.01.2010.
In via preliminare
i convenuti hanno eccepito la carenza di interesse ad agire rappresentando che
sull’immobile oggetto della compravendita è stata iscritta ipoteca non solo da
parte di B., ma anche, in precedenza, da parte della omissis di Cambiano che aveva concesso altri due mutui per
complessivi € 364.000,00. Secondo parte convenuta, “il residuo debito esistente
per i predetti tre mutui ipotecari è altamente superiore al valore economico
dell’immobile in parola”. Ne seguirebbe la materiale impossibilità per la banca
di vedere soddisfatte le pretese azionate sull’immobile in questione e, quindi,
la mancanza di interesse ad agire.
Occorre
innanzitutto distinguere tra il credito della B. garantito da ipoteca e il
credito chirografario della stessa.
In relazione al
credito garantito non si può dubitare che manchi un effettivo interesse ad
agire di B., visto che il creditore ipotecario rimane immune, in virtù del
diritto di sequela, dai pregiudizi derivanti dall’atto di compravendita.
A diversa soluzione
si giunge per quanto riguarda il credito chirografario (€ 448.984,44). In primo
luogo, infatti non vi è in atti alcuna prova dell’entità del credito residuo
garantito dalle ipoteche di grado precedente. Non può quindi escludersi che
per, causa il parziale pagamento dei debiti cui si riferiscono le iscrizioni
precedenti, l’atto dispositivo possa essere in concreto pregiudizievole per la
parte attrice.
In secondo luogo va
richiamata la condivisibile giurisprudenza della S.C. ai sensi della quale “la
circostanza che i beni, oggetto dell'atto dispositivo in questione, [siano]
stati in precedenza ipotecati a favore di un terzo […] non vale ad escludere
l'eventus damni. È bensì vero che l'art. 2741 c.c.nell'attribuire a tutti i
creditori eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore, fa salve
le legittime cause di prelazione, ma non per questo l'atto dispositivo del bene
ipotecato, compiuto dal debitore, può ritenersi indifferente nei riguardi di
ogni altro creditore, altro essendo che costoro, per soddisfare il loro
credito, possano fare affidamento su beni del debitore ancorché ipotecati,
altro che si trovino invece, a seguito dell'atto dispositivo, di fronte ad un
patrimonio immobiliare, dello stesso debitore, divenuto inesistente: invero,
l'azione revocatoria ordinaria ha la funzione di ricostituire la garanzia
generica assicurata al creditore dal patrimonio del suo debitore (Cass. n.
19131 del 2004), e non già, […] la garanzia specifica” (Cass. civ. 27718/2005).
Sul punto va anche
richiamata la consolidata e univoca giurisprudenza della Cassazione secondo
cui, ai fini dell’art. 2901 c.c., non è necessario che l’atto dispositivo
costituisca di per sé un danno in capo al creditore, ma è sufficiente che esso
renda più incerto o difficile il soddisfacimento del credito (ex multis: Cass.
civ. sent. 1896/2012 e 7767/2007).
Tale principio è
stato anche di recente specificato dalla S.C. nel senso che “la presenza di
ipoteche sull'immobile trasferito con l'atto oggetto di revoca non esclude di
per sé il requisito del pregiudizio del trasferimento stesso per il creditore
chirografario procedente ex art. 2901 c.c., (eventus damni) nè, di conseguenza,
l'interesse di questi a proporre tale azione” (Cass. civ. 16793/2015).
D’altra parte non
può escludersi a priori l’eventualità che siano pagati spontaneamente i crediti
garantiti dalle ipoteche iscritte, circostanza che renderebbe sicuramente
pregiudizievole l’atto oggetto di causa.
Tali considerazioni
inducono a ritenere a fortiori infondata anche l’eccezione dei convenuti per la
quale mancherebbe un eventus damni, atteso che l’immobile è stato ceduto a
titolo oneroso e che non vi sarebbe di conseguenza pregiudizio delle ragioni
creditorie. La Cassazione ha ripetutamente affermato che la sostituzione di
beni immobili con il denaro ricavato dalla compravendita costituisce un
pregiudizio alle ragioni del creditore, dal momento che comporta una variazione
qualitativa del patrimonio del debitore idonea a provocarne con maggiore
facilità la dispersione (ex multis Cass. civ. 1896/2012).
Né rileva la
circostanza che i compratori si siano accollati le residue rate dei mutui
ipotecari relativi all’immobile, valendo sul punto le considerazioni di cui
sopra circa la persistenza dell’interesse alla revoca.
Inconsistente è poi
la circostanza, asserita dai convenuti, per cui la compravendita sarebbe
avvenuta “in trasparenza” e “senza alcuna opposizione della Banca”. Anche ad
ammettere, in ipotesi, la veridicità dell’allegazione, tale circostanza non
poterebbe comunque valere quale tacita rinuncia alle pretese creditorie, attesa
l’inesistenza di un comportamento univoco.
Appurato che il
rapporto fideiussorio tra B. e i coniugi omissis
è sorto precedentemente rispetto all’atto di compravendita ( si vedano i
numerosi documenti prodotti da omissis
e datati a partire dal gennaio 2007), va altresì rilevato che il sorgere del
credito e il relativo acquisto della qualità del debitore da parte del
fideiussore (cfr. Cass. civ. 22465/2006) è anch’esso avvenuto precedentemente
all’atto di disposizione pregiudizievole: a tal proposito, omissis ha provato documentalmente esposizioni sui conti correnti
della srl per circa € 250.000,00 al 12.01.2010 (cfr. doc. 4 fascicolo omissis).
Ciò posto, resta da
vagliare la sussistenza degli altri requisiti previsti dall’art. 2901 c.c.
Quanto alla
sussistenza del credito, va premesso che il giudizio relativo all’azione revocatoria
non costituisce giudizio di accertamento del credito. In questa sede infatti è
sufficiente limitarsi ad accertare la non manifesta infondatezza delle pretese
creditorie, potendo bene essere proposta azione ex art. 2901 c.c. anche in
presenza di crediti litigiosi ed eventuali. Come è stato autorevolmente
affermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, l'accertamento del
credito non costituisce l'indispensabile antecedente logico-giuridico della
pronuncia sulla domanda revocatoria (cfr. SU Cass. civ. n. 9440/2004) .
La B. ha ad ogni
modo sufficientemente provato il proprio credito, contestato dai convenuti,
producendo copie dei numerosi contratti fideiussori, degli estratti conto e
degli scoperti, documenti non disconosciuti da parte dei convenuti.
Per quanto attiene
alla decadenza eccepita ex art. 1957 c.c., va rilevato che i contratti
stipulati in data omissis derogano
espressamente al detto art. 1957 c.c..
E’ pertanto da
escludere che la banca sia decaduta dalla facoltà di escutere le fideiussioni
ai sensi della suddetta disposizione.
Occorre ora
vagliare la sussistenza della c.d. scientia fraudis e della c.d. participatio
fraudis.
La natura onerosa
del negozio di compravendita di cui viene chiesta la revoca comporta per la
parte attrice l’onere di provare non solo che il debitore fosse consapevole
della natura pregiudizievole che l’atto arrecava alle ragioni della banca, ma
anche della c.d. participatio fraudis, ovvero della conoscenza da parte del
terzo acquirente della medesima circostanza (ex multis Cass. 5359/2009).
Tale prova è stata
raggiunta.
Per quanto attiene
allo stato soggettivo dei venditori, non è possibile in alcun modo dubitare che
omissis, legale rappresentante e
socio al 95% della SRL, fosse a conoscenza della situazione di crisi in cui
versava l’impresa, tanto più che l’atto di compravendita si è formato lo stesso
giorno in cui la società è stata messa in liquidazione (nominando omissis liquidatore).
Analoghe
considerazioni valgono per la sig.ra B, in considerazione del rapporto di
coniugio con omissis.
Neppure possono
sussistere dubbi circa la presenza della participatio fraudis. Infatti, la
stretta relazione di parentela/affinità tra compratori e venditori fa ritenere
con certezza che i primi fossero a conoscenza della situazione economica dei
secondi, sarebbe a dire sia della qualità di fideiussori dei coniugi B e C, sia
della sostanziale insolvenza della Srl.
Una simile
circostanza è di per sé sufficiente al fine di configurare la sussistenza della
participatio fraudis, che, come ha autorevolmente affermato la S.C. (cfr. sentt.
18315/2015 e 5359/2009), può essere accertata anche solo tramite il ricorso a
presunzioni. La S.C. ha inoltre specificamente chiarito che lo stretto legame
parentale tra il debitore disponente ed i terzi rende estremamente plausibile
la presunzione che quest’ultimi siano a conoscenza del pregiudizio arrecato
alle ragioni del creditore (cfr. sent. 5359/2009).
La domanda ex art.
2901 c.c. va pertanto accolta.
Rimane assorbita la
domanda di simulazione e ogni altra questione.
3. Sulle spese di
lite
Attesa la totale
soccombenza dei convenuti, gli stessi vanno condannati al pagamento delle spese
di lite che vanno stimate ai sensi del d.m. 55/2014.
Il valore della
causa va stimato nel prezzo dichiarato di compravendita dell’immobile, €
178.800,00, e non nel maggiore ammontare del credito chirografario.
Infatti, il d.m.
55/2014, sebbene preveda all’art. 5 I co. che “nei giudizi per azioni
surrogatorie e revocatorie, si ha riguardo all'entità economica della ragione
di credito alla cui tutela l'azione è diretta”, dispone all’art. 5 II co. che
“in ogni caso si ha riguardo al valore effettivo della controversia, anche in
relazione agli interessi perseguiti dalle parti, quando risulta manifestamente
diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile o alla
legislazione speciale”.
Da tali
disposizioni, che erano già contenute nel d.m. 127/2004, la Cassazione ha
tratto il condivisibile principio per cui “ai fini della liquidazione degli
onorari a carico del cliente ed a favore dell'avvocato che abbia prestato la
sua opera in un giudizio relativo ad azione revocatoria, qualora il valore
della controversia sia manifestamente diverso da quello presunto a norma del
codice civile, esso si determina non già sulla base del credito a tutela del
quale si è agito in revocatoria, ma sulla base del valore effettivo della
controversia” (sent. 19520/2015).
Nel caso di specie,
il valore effettivo della controversia coincide con il valore del bene immobile
oggetto della compravendita, come dichiarato nell’atto.
Lo scaglione di
riferimento è pertanto quello € 52.000,00 – 260.000,00.
La liquidazione
delle spese va effettuata in misura inferiore a quella media in considerazione
della natura documentale della lite e delle modalità semplificate della
decisione (art. 281 sexies c.p.c.).
PQM
Visto l’art. 281
sexies c.p.c. il Tribunale di Firenze, sezione III civile in composizione
monocratica, definitivamente decidendo, ogni altra e contraria istanza
disattesa: respinge l’eccezione di improcedibilità della domanda attorea; revoca
e dichiara inefficace nei confronti della banca (B) la compravendita avvenuta
in data 13.01.2010 ai Rogiti del notaio omissis;
ordina al Direttore dell’Agenzia del Territorio competente l’annotazione della
presente sentenza a margine dell’atto impugnato, con esonero di responsabilità;
condanna i convenuti omissis a
rimborsare in favore di BANCA le spese di lite, che si liquidano in € 11.000,00
per compensi di avvocato ed € 1.150,00 per esborsi oltre rimborso forfettario
15% IVA e CPA come per legge.
Il Giudice
dott. Alessandro
Ghelardini
AVVISO. Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità.