DIRITTO D'AUTORE


Tutti i testi e le massime giurisprudenziali sono coperti da diritto d’autore. Uso consentito citando la fonte con relativo link. Pregasi segnalare la citazione.

30 giugno 2019

32/19. Avvocato, oneri informativi su modalità alternative di soluzione della lite e opposizione a decreto ingiuntivo di sicuro esito sfavorevole per poi coltivare vie conciliatorie (Osservatorio Mediazione Civile n. 32/2019)

=> Cassazione civile, 22 novembre 2018, n. 30169

Nel testo di deontologia pubblicato di recente dal CNF, nel 2018, molta importanza è data agli oneri informativi relativi alla possibilità per il cliente di accedere a modalità alternative di soluzione della lite (procedimenti di mediazione di cui al d.lgs. 28/2010 o di negoziazione assistita di cui al d.l. 132/2014 conv. con mod. in l. 162/2014); ciò non presuppone solo un pronostico sul possibile esito della lite, essendo questa una valutazione inerente alla miglior difesa degli interessi del cliente sottesi alla controversia in atto, in relazione ai costi e alla prevedibile durata del processo, a prescindere dalla fondatezza o meno della pretesa del cliente. Del resto l’avvocato, nella strategia difensiva che discrezionalmente sceglie e assume nell'interesse del cliente, non è tenuto ad avviare controversie solo sulla base di un pronostico di esito favorevole, essendo bensì obbligato a valutare, prima di accettare il mandato alla lite, l'interesse del cliente a coltivare la lite nonostante la sussistenza di precedenti sfavorevoli e/o di strumenti conciliatori. Ciò posto, nel caso in cui si prospettasse per l'avvocato l'accettazione di un mandato alla lite per una causa rientrante nel novero delle "cause perse ab initio", la strategia processuale assunta dal legale nell'accettare l'incarico e nell'avviare un'opposizione a decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo di sicuro esito sfavorevole per poi coltivare vie conciliatorie, non può solo per questo dirsi pregiudizievole per gli interessi del cliente, e ciò anche in relazione alla mancata preventiva informativa sul probabile insuccesso della lite a un cliente dimostratosi comunque inizialmente interessato a resistere in prima battuta alla richiesta di pagamento e a intavolare vie conciliative, poi non più accettate (I).


Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 32/2019

Corte Suprema di Cassazione
Sezione terza civile
Ordinanza
22 novembre 2018 n. 30169

Omissis

Con ricorso omissis impugna la sentenza della Corte d'appello di Milano omissis con la quale è stato parzialmente respinta l'impugnazione avverso la sentenza omissis in una controversia promossa dal ricorrente avverso l'avvocato omissis per far valere la sua responsabilità professionale in un'azione di opposizione a decreto ingiuntivo, definita con dichiarazione di improcedibilità per tardività dell'iscrizione a ruolo della citazione. Il ricorso è affidato a quattro motivi. omissis
Quanto al giudizio di responsabilità del professionista per l'attività professionale che gli compete, vale il principio generale espresso da Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 11213 del 09/05/2017 secondo cui "la responsabilità del prestatore di opera intellettuale, nei confronti del proprio cliente, per negligente svolgimento dell'attività professionale presuppone la prova, da parte di costui, del danno e del nesso causale tra la condotta del professionista ed il pregiudizio del cliente, formando oggetto di un accertamento che non è sindacabile in sede di legittimità, se correttamente motivato".
La sentenza di merito, sotto questo aspetto, si pone in linea con quanto indicato dalla Corte di legittimità circa gli oneri di prova correlati a una responsabilità per inadempimento del mandato alle liti e alla prova del nesso causale della responsabilità professionale dell'avvocato nel gestire il mandato alle liti, quest'ultima gravante sulla parte che agisce. Ora, non vi è dubbio che sia stato provato che l'avvocato è incorso in un errore procedurale imperdonabile nel depositare in ritardo la citazione in opposizione, che ha condotto la Corte di merito a non riconoscergli alcun diritto al compenso.
Ma è anche vero che in tale caso la parte intende addurre alla professionista una responsabilità per non essere stato preventivamente informato che la lite sarebbe stata inutile e costosa.
Riguardo agli oneri inerenti al mandato alle liti valgono certamente le norme deontologiche che regolano specificamente l'attività professionale dell'avvocato. Secondo Cass. Sez. U., Sentenza n. 26810 del 20/12/2007 "le norme del codice disciplinare forense costituiscono fonti normative integrative del precetto legislativo che attribuisce al Consiglio Nazionale Forense il potere disciplinare, con funzione di giurisdizione speciale appartenente all'ordinamento generale dello Stato, e come tali sono interpretabili direttamente dalla Corte di legittimità". Pertanto, ragionando alla stregua delle norme "secondarie" allora vigenti, che costituiscono un parametro per valutare il grado di diligenza cui è tenuto il professionista allorchè riceve il mandato alle liti, rileva osservare che da esse non si evince un generale obbligo di preventiva informativa sul possibile esito della lite, bensì una informativa sulle caratteristiche e sulla importanza della lite per cui accetta il mandato, nonchè sulle possibili soluzioni della medesima e, se richiesto, sulle previsioni di massima inerenti alla durata e ai costi presumibili del processo.
Difatti il codice deontologico degli avvocati Europei allora vigente, all'art. 2.7 dispone: "- Interesse del cliente - Fatto salvo il rigoroso rispetto di tutte le norme di legge e deontologiche, l'avvocato deve sempre difendere nel miglior modo possibile gli interessi del suo cliente e deve anteporli ai propri o a quelli dei suoi colleghi". Il codice deontologico del Consiglio Nazionale Forense (CNF), vigente al 2007 (applicabile ratione temporis), all'art. 40 Obbligo di informazione - prevedeva che "l'avvocato è tenuto ad informare chiaramente il proprio assistito all'atto dell'incarico delle caratteristiche e dell'importanza della controversia o delle attività da espletare, precisando le iniziative e le ipotesi di soluzione possibili. L'avvocato è tenuto altresì ad informare il proprio assistito sullo svolgimento del mandato affidatogli, quando lo reputi opportuno e ogni qualvolta l'assistito ne faccia richiesta. I. Se richiesto, è obbligo dell'avvocato informare la parte assistita sulle previsioni di massima inerenti alla durata e ai costi presumibili del processo. II. E' obbligo dell'avvocato comunicare alla parte assistita la necessità del compimento di determinati atti al fine di evitare prescrizioni, decadenze o altri effetti pregiudizievoli relativamente agli incarichi in corso di trattazione. III. Il difensore ha l'obbligo di riferire al proprio assistito il contenuto di quanto appreso nell'esercizio del mandato se utile all'interesse di questi".
In tale senso, risulta essersi pronunciata anche Cass. Sez. 2, Sentenza n. 16023 del 14/11/2002 che ha ritenuto che, "di regola, le obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale costituiscono obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato, non per conseguirlo. Tuttavia, avuto riguardo all'attività professionale dell'avvocato, nel caso in cui questi accetti l'incarico di svolgere un'attività stragiudiziale consistente nella formulazione di un parere in ordine all'utile esperibilità di un'azione giudiziale, la prestazione oggetto del contratto non costituisce un'obbligazione di mezzi, in quanto egli si obbliga ad offrire tutti gli elementi di valutazione necessari ed i suggerimenti opportuni allo scopo di permettere al cliente di adottare una consapevole decisione, a seguito di un ponderato apprezzamento dei rischi e dei vantaggi insiti nella proposizione dell'azione. Pertanto, in applicazione del parametro della diligenza professionale (art. 1176, secondo comma, cod. civ.), sussiste la responsabilità dell'avvocato che, nell'adempiere siffatta obbligazione, abbia omesso di prospettare al cliente tutte le questioni di diritto e di fatto atte ad impedire l'utile esperimento dell'azione, rinvenendo fondamento detta responsabilità anche nella colpa lieve, qualora la mancata prospettazione di tali questioni sia stata frutto dell'ignoranza di istituti giuridici elementari e fondamentali, ovvero di incuria ed imperizia insuscettibili di giustificazione".
Pertanto, al di fuori dello specifico incarico (stragiudiziale) di esprimere un parere legale riguardo a una questione posta dal cliente, in riferimento al tema della strategia processuale scelta dal difensore, l'obbligazione dell'avvocato riacquista il normale carattere di obbligazione di mezzi, ove il comportamento diligente si misura in relazione alle caratteristiche della lite e all'interesse del cliente a coltivarla, e non solo in base al prevedibile esito della lite. Per questo aspetto, rileva il precedente reso da Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11906 del 10/06/2016, ove esprime che "in tema di responsabilità dell'avvocato verso il cliente, è configurabile imperizia del professionista allorchè questi ignori o violi precise disposizioni di legge, ovvero erri nel risolvere questioni giuridiche prive di margine di opinabilità, mentre la scelta di una determinata strategia processuale può essere foriera di responsabilità purchè la sua inadeguatezza al raggiungimento del risultato perseguito dal cliente sia valutata (e motivata) dal giudice di merito ex ante e non ex post, sulla base dell'esito del giudizio, restando comunque esclusa in caso di questioni rispetto alle quali le soluzioni dottrinali e/o giurisprudenziali presentino margini di opinabilità - in astratto o con riferimento al caso concreto - tali da rendere giuridicamente plausibili le scelte difensive compiute dal legale ancorchè il giudizio si sia concluso con la soccombenza del cliente" (v. anche Sez. 3, Sentenza n. 10289 del 20/05/2015 che ha sancito che "costituisce compito esclusivo del legale la scelta della linea tecnica da seguire nella prestazione dell'attività professionale").
Per commisurare la diligenza dovuta dal professionista nell'assumere il mandato alle liti, pertanto, il suo margine di discrezionalità nella scelta della strategia difensiva è dunque segnato dalla natura e dalle caratteristiche della controversia e dall'interesse del cliente ad affrontarla con relativi oneri. In tal caso, la Corte di merito ha ritenuto che, pur trattandosi di una lite dal sicuro esito sfavorevole, la professionista ha tenuto maggiormente in conto l'interesse del cliente a non pagare nell'immediato l'importo (di Euro 10.881,00) portato nel decreto ingiuntivo emesso con formula di provvisoria esecutività (per una fornitura di caffè e relativa penale calcolata nella misura del 50% del mancato acquisto di caffè). La Corte di merito, pertanto, in mancanza di allegazione di prove idonee dedotte dall'attore, ha dato credito alla versione della professionista che, nel difendersi ha dichiarato di avere accettato il mandato alle liti, pur avendo sconsigliato di svolgere l'opposizione, solo in quanto l'attore non aveva le disponibilità economiche per far fronte al debito. La Corte, in ogni caso, ha tenuto conto del comportamento successivo e "proattivo" tenuto dalla professionista nel corso della lite nel tentare una conciliazione che il cliente, tuttavia, non ha accettato.
Si osserva che in casi simili si è sancito che il difensore può non accettare una causa per la quale prevede già dall'inizio la soccombenza del suo assistito, ma ove l'accetti, non può, poi, disinteressarsene del tutto, con il pretesto che si tratta di una "causa persa", senza nemmeno attivarsi per trovare una soluzione transattiva, essendo tale comportamento comunque doveroso ove si accetti di difendere una causa rischiosa per il proprio cliente (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 15717 del 02/07/2010; Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 17506 del 26/07/2010). Viene, in tali casi, conseguentemente a configurarsi una responsabilità professionale dell'avvocato per violazione degli obblighi inerenti al mandato alla lite solo in caso di assoluta inerzia del difensore, a prescindere dal pronostico sull'esito della lite, per avere comunque esposto il cliente all'incremento del pregiudizio iniziale, se non altro a causa delle spese processuali cui lo stesso va incontro per la propria difesa e per quella della parte avversa.
Nè dal testo di deontologia pubblicato di recente dal CNF, nel 2018, è ravvisabile un'evoluzione nella direzione di imporre al professionista oneri d'informazione più stringenti, là ove, all'art. 27 del Codice di deontologia forense, la norma deontologica si limita ancora a indicare che "l'avvocato deve informare chiaramente la parte assistita, all'atto dell'assunzione dell'incarico, delle caratteristiche e dell'importanza di quest'ultimo e delle attività da espletare, precisando le iniziative e le ipotesi di soluzione che prevede". Dunque, anche oggi, la norma deontologica non si spinge a enunciare un obbligo dell'avvocato che accetta il mandato alle liti di formulare un pronostico sull'esito della lite, se non richiesto, bensì un onere di valutare l'interesse del cliente in rapporto alle caratteristiche della lite e di prospettare la prevedibile durata del processo e gli oneri di spesa ipotizzabili, informando il cliente dello svolgimento del mandato a lui affidato. Molta importanza, poi, nel nuovo testo, è data agli oneri informativi relativi alla possibilità per il cliente di accedere a modalità alternative di soluzione della lite (procedimenti di mediazione o di negoziazione assistita), il che ovviamente non presuppone solo un pronostico sul possibile esito della lite, essendo questa una valutazione inerente alla miglior difesa degli interessi del cliente sottesi alla controversia in atto, in relazione ai costi e alla prevedibile durata del processo, a prescindere dalla fondatezza o meno della pretesa del cliente.
Del resto, in un ordinamento ove non vige la regola dello stare decisis, tipica degli ordinamenti appartenenti alla common law, ed è garantito un doppio grado di merito e un giudizio di legittimità, il fatto che i precedenti giurisprudenziali, oramai reperibili su siti Internet comunemente accessibili, siano tesi a garantire un'uniforme applicazione e interpretazione del diritto, e dunque una prevedibilità delle decisioni, non significa che l'avvocato, nella strategia difensiva che discrezionalmente sceglie e assume nell'interesse del cliente, sia tenuto ad avviare controversie solo sulla base di un pronostico di esito favorevole, ma sia bensì obbligato a valutare, prima di accettare il mandato alla lite, l'interesse del cliente a coltivare la lite nonostante la sussistenza di precedenti sfavorevoli e/o di strumenti conciliatori, tenendo una condotta processuale di continua attenzione all'interesse del cliente, al fine di comprimere rischi di attesa, costi inutili e condanne al risarcimento della controparte per lite temeraria, ex art. 96 cod. proc. civ.
Nel caso in questione, pertanto, non essendo in discussione che si prospettasse per l'avvocato l'accettazione di un mandato alla lite per una causa rientrante nel novero delle "cause perse ab initio", la strategia processuale assunta dal legale nell'accettare l'incarico e nell'avviare un'opposizione a decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo di sicuro esito sfavorevole per poi coltivare vie conciliatorie, non può solo per questo dirsi pregiudizievole per gli interessi del cliente, e ciò anche in relazione alla mancata preventiva informativa sul probabile insuccesso della lite a un cliente dimostratosi comunque inizialmente interessato a resistere in prima battuta alla richiesta di pagamento e a intavolare vie conciliative, poi non più accettate.
In definitiva, la Corte di merito, in tale ambito, ha esaurientemente valutato il complessivo comportamento nell'accettare e nell'espletare il mandato alla lite tenuto dall'avvocato, che ha dimostrato di avere valutato prima il concreto interesse del cliente in rapporto alle caratteristiche della lite, e ha coltivato poi possibilità transattive, non più accettate dal cliente, ed è quindi pervenuta alla corretta conclusione che, sotto il profilo della diligenza cui era tenuta la professionista, il comportamento assunto fosse conforme ai parametri di correttezza professionale. Difatti, l'accettazione del mandato a svolgere un'opposizione a decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo riposta su basi giuridiche pressochè inconsistenti, e la successiva iniziativa processuale di tentare una composizione bonaria della controversia in corso, sono tutte scelte professionali di tipo discrezionale che, valutate ex ante - a prescindere dall'errore processuale commesso nell'avviare l'opposizione nelle forme rituali previste e dal contenuto delle difese-, rientrano nello schema di un comportamento professionale rientrante canone di correttezza professionale richiesta e pretendibile, certamente non iscrivibile nell'ambito di un atteggiamento spericolato o di inerzia, contrastante con l'interesse del cliente. omissis

PQM

Rigetta il ricorso; nulla per le spese. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

AVVISO. Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità. 

25 giugno 2019

31/19. Più liti tra stesse parti, mancata partecipazione alla mediazione, sanzioni: attenzione alla domanda di mediazione e al verbale (Osservatorio Mediazione Civile n. 31/2019)

=> Corte di appello di Genova, 29 novembre 2018

In caso di pluralità di procedure che vedevano contrapposte le medesime parti, deve sussistere anche la prova dell'esatto contenuto della domanda di mediazione e del suo specifico riferimento alla procedura in questione. Qualora invece si sia solo in presenza di un verbale del procedimento piuttosto generico, senza peraltro copia della domanda introduttiva della procedura, non è dato comprendere a quale delle diverse cause si riferisca; in tale situazione, non deve essere applicata la sanzione di cui all’art. 8 c. 4-bis, d.lgs. n. 28 del 2010 (I).


Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 31/2019

Corte di appello di Genova
Sentenza
29 novembre 2018

Omissis

Con atto di licenza per finita locazione e citazione per la convalida, nel luglio 2016, i sig.ri omissis, premesso: che omissis, alla cui morte erano succeduti omissis, erano comproprietarie di un immobile ad uso commerciale locato dal 1987 alla società omissis s.a.s. di omissis; che al socio accomandatario omissis, nel 1993, era succeduta la omissis; che in data 28.7.2015 era stata inoltrata disdetta dal contratto; convenivano in giudizio parte conduttrice, perché fosse convalidata la licenza per finita locazione per il 31.12.2016.
Si costituiva in giudizio la società omissis s.a.s. in persona omissis, socia accomandataria, eccependo che non vi era stata alcuna valida disdetta, sia perché la raccomandata 28.7.2015 proveniva dal difensore di parte locatrice, e non dalla stessa personalmente, sia perché essa era stata indirizzata a omissis s.a.s. di omissis, e proprio il omissis l'aveva ritirata, quando egli non era più accomandatario e non aveva alcun potere di ritirare gli atti per la società, mentre nessuna valida disdetta era giunta alla legale rappresentante omissis, per cui il contratto si era rinnovato per ulteriori sei anni.
Il primo Giudice ordinava il rilascio con esecuzione al 28.2.2017; quindi, disponeva il mutamento di rito e concedeva termine per il deposito di memorie. Omissis Parte conduttrice ribadiva le propri difese.
Con la sentenza qui appellata, il primo Giudice ritenuto che la disdetta era stata inoltrata alla società, seppure con un errore materiale; che la lettera di disdetta era stata ritirata dal omissis; che era irrilevante che egli non fosse il legale rappresentante; che l'atto era giunto alla sede della società; che il difensore aveva speso il nome dei clienti e solo loro potevano far valere il difetto di procura, procura che poteva essere rilasciata anche verbalmente; convalidava lo sfratto, condannando la società al rilascio alla data del 28.2.2017, ed al pagamento delle spese di lite.
Ha proposto appello la società omissis s.a.s. lamentando:
1) l'erronea valutazione dei fatti e documenti, e il difetto di preventiva comunicazione di disdetta omissis.
2) la mancata partecipazione al procedimento di mediazione.
Censura poi l'appellante che il primo Giudice abbia ritenuta ingiustificata la sua mancata partecipazione al giudizio di mediazione, mentre, invece, non vi era prova del luogo ove era avvenuta la comunicazione delle raccomandate di convocazione, nè da esse poteva evincersi a quali procedimento si riferisse l'invito, precisazione necessaria per la pluralità di giudizi che contrapponevano le odierne parti (compreso un procedimento di sfratto per morosità ancora pendente). Comunque, era errato anche il valore della controversia preso a base della determinazione del contributo unificato, che avrebbe dovuto determinarsi in Euro 49,00 e non in Euro.118,50 come fatto da controparte.
3) L'appellante ha poi censurato altri vari errori che omissis imputa alla frettolosità e superficialità della sentenza omissis.
Si sono costituiti in giudizio i locatori che hanno preliminarmente eccepito: a) come la mancata partecipazione al procedimento di mediazione, ovvero la mancata iniziativa da parte della conduttrice circa detto procedimento rendesse improcedibile ogni sua domanda; b) come l'appello fosse, comunque, redatto in violazione dell'art. 342 c.p.c. , trattandosi di ripetizione delle difese già svolte in primo grado, sicché esso era inammissibile e improcedibile; nel merito, hanno riferito che, dopo l'inoltro della disdetta del luglio 2015, omissis, spendendo il nome di omissis sas aveva scritto ai locatori diverse lettere dal valore confessorio circa il suo ruolo nella società; ha ribadito come la notifica presso la sede della società sia pienamente valida se ritirata da chi risulta addetto alla sede, essendo elemento irrilevante la convivenza o meno tra i due soci, che essi appellati, comunque, avevano provato con il certificato anagrafico versato in atti. Né era importante l'errata indicazione di omissis s.a.s. di omissis, perché la disdetta aveva raggiunto lo scopo, essendo stata inoltrata e ricevuta alla sede sociale. Circa la legittimazione del difensore, hanno affermato che la disdetta può essere data dal difensore e ratificata validamente dai locatori a termine scaduto.
All'udienza di discussione del 31.10.2018 le parti si sono richiamate alle loro difese insistendo come in esse, e la causa è stata decisa dandosi lettura dell'allegato dispositivo.
Innanzitutto si rileva che l'eccezione preliminare svolte dagli appellati in merito all'improcedibilità delle domande avverse per mancata proposizione del procedimento di mediazione ex art. 5 c.2 D.Lgs. n. 28 del 2010, non può essere accolta, siccome tale eccezione è stata sollevata solo in questo grado, quindi, tardivamente.
Nè può ritenersi sussista la violazione dell'art. 342 c.p.c., poiché, se è ben vero che l'atto di appello motivato deve essere redatto in modo più organico e strutturato rispetto al passato, nel caso in esame, l'appellante contesta con sufficiente puntualità la sentenza impugnata nelle parti in ordine alle quali chiede che venga riformata, soddisfacendo, quindi, il requisito della specificità dei motivi di cui all'art. 342 c.p.c..
Circa i motivi di appello si osserva:
1) il difetto di preventiva comunicazione di disdetta omissis.
2) sulla mancata partecipazione al procedimento di mediazione.
Deve, invece, ritenersi fondata la doglianza in merito all'intervenuta applicazione dell'art. 8 c.4 bis D.Lgs. n. 28 del 2010 , avendo la sentenza ritenuta ingiustificata la mancata partecipazione di omissis al giudizio di mediazione, e così avendola condannata al versamento del contributo unificato dovuto per il giudizio.
Ritiene, infatti, il Collegio che, essendo pacifica la pluralità di procedure che vedevano contrapporsi le odierne parti, anche ritenuto che le raccomandate di convocazione per il procedimento di mediazione siano giunte presso la società, per esprimere un giudizio sulla ingiustificata assenza al procedimento, avrebbe dovuto sussistere anche la prova dell'esatto contenuto della domanda di mediazione e del suo specifico riferimento a questa procedura.
Invece, in atti risulta soltanto il verbale del procedimento (cfr. verbale omissis) piuttosto generico , sicchè non è dato comprendere a quale delle diverse cause si riferisca; nè risulta una copia della domanda introduttiva della procedura.
In tale situazione, il motivo di appello deve essere accolto, dichiarandosi che non deve essere applicata la suddetta sanzione.
3) Non meritano seguito, invece, le generiche doglianze su errori vari che affliggerebbero la sentenza.
Relativamente all'errore della data del contratto, si tratta di un mero errore materiale che non inficia la validità della pronuncia, poichè da esso non è derivato alcun errore circa la data di cessazione del contratto.
Quanto al fatto, poi, che nel dispositivo della sentenza sia stato convalidato lo sfratto per finita locazione, mentre tale pronuncia avrebbe dovuto assumersi con ordinanza ed inoltre, essendo la locazione ancora in corso, non avrebbe dovuto essere emessa una convalida di sfratto, si osserva che essendovi stato il mutamento di rito per l'opposizione di parte conduttrice, il giudizio ordinario così instaurato doveva concludersi con una sentenza, che è intervenuta, comunque, dopo che, come affermato nella parte motiva, il contratto era già cessato in data 31.12.2016. Avendo ritenuta infondata l'opposizione, quindi, non avrebbe che potuto confermarsi il provvedimento di rilascio già disposto con l'ordinanza ex art. 665 c.p.c., essendo, comunque, evidente che la convalida dell'intimazione equivale ad una pronuncia di risoluzione del contratto.
In ordine, poi, alle prove dedotte, come già detto, si tratta di capitoli inammissibili omissis.
Nella prevalente soccombenza dell'appellante, le spese di lite gravano sulla stessa e si liquidano secondo il D.M. n. 55 del 2014 come segue: quanto al primo grado in complessivi Euro 3.400,00 per compensi (fase di studio Euro 620,00; fase introduttiva Euro.620,00; fase istruttoria Euro 1080,00; fase decisoria Euro 1080,00); quanto al secondo grado in complessivi Euro 3777,00 per compensi (fase di studio Euro 1080,00; fase introduttiva Euro. 877,00; fase decisoria Euro. 1820,00), oltre spese generali ed accessori di legge per i due gradi.

PQM

La Corte d'appello di Genova, definitivamente pronunciando; in parziale accoglimento dell'appello dichiara non applicabile la sanzione di cui all’art. 8 D.Lgs. n. 28 del 2010; conferma le restanti statuizioni di merito; dichiara tenuta e condanna l'appellante al pagamento delle spese di lite che liquida a favore di parte appellata quanto al primo grado, in complessivi Euro 3.400,00 per compensi e quanto al presente grado in complessivi Euro 3.777,00, per compensi, oltre oneri accessori per i due gradi.

AVVISO. Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità. 

30/19. CNF su compatibilità tra avvocato o studio associato e qualità di socio di un organismo di mediazione (Osservatorio Mediazione Civile n. 30/2019)

=> Consiglio Nazionale Forense, 23 novembre 2016

La qualità di socio di un organismo di mediazione ex D.Lvo n. 28/2010 non è incompatibile con la professione di avvocato e gli studi associati possono essere soci dell’organismo di mediazione. Quanto però all’assunzione degli incarichi defensionali, l’avvocato deve pur sempre osservare i doveri previsti dal vigente codice deontologico nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine della professione forense (I) (II).


(II) Tutti i documenti del Consiglio Nazionale Forense  in tema di mediazione sono reperibili nella pagina dell’Osservatorio dedicata al CNF.

Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 30/2019

Consiglio Nazionale Forense
(rel. Merli), n. 144
23 novembre 2016

Quesito n. 181, Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma

Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma pone due quesiti: con il primo chiede di sapere se, alla luce di quanto previsto dall’art. 18 della legge n. 247/2012 e dell’art. 14 bis del D.M. n. 180/2014, l’esercizio della professione forense sia compatibile con la qualità di socio di un organismo di mediazione ex D.Lvo n. 28/2010 e se gli studi legali associati possano essere, a loro volta, soci dei suddetti organismi. Chiede infine di sapere se, in caso di positivo riscontro al quesito che precede, gli avvocati soci dell’organismo e gli avvocati soci dello studio legale associato, che sia anche socio dell’organismo, non annoverati fra i mediatori del medesimo organismo, possano, davanti a quest’ultimo, assumere incarichi defensionali.

Consiglio nazionale forense (rel. Merli), 23 novembre 2016, n. 114

Alla luce dell’art. 18 della L. n. 247/2012 la qualità di socio di un organismo di mediazione non è incompatibile con la professione di avvocato. Gli studi associati possono essere soci dell’organismo di mediazione.
Per quanto riguarda il secondo quesito è sufficiente precisare che nello svolgimento dell’incarico professionale l’avvocato deve sempre osservare i doveri previsti dal vigente codice deontologico nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine della professione forense.

AVVISO. Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità. I collegamenti ipertestuali nel corpo della pronuncia sono a cura della Redazione dell’Osservatorio. 

19 giugno 2019

29/19. MONTEDONICO, Sindrome da alienazione parentale (PAS) e mediazione familiare (Osservatorio Mediazione Civile n. 29/2019)


Ci sono rimedi preventivi contro l’alienazione genitoriale?

Estratto da
Paola MONTEDONICO
Approcci e rimedi legali ed extra-legali
Diritto Avanzato, Milano, 2019


Al precedente paragrafo ho trattato dei rimedi che intervengono in seguito al riscontro di una P.A.S., ma la domanda da porsi è se si possa operare anche durante la fase embrionale di questi disturbi disfunzionali, se così fosse infatti, si potrebbero avere soluzioni davvero efficaci.
La risposta a questo interrogativo è positiva ed è rappresentata dalla mediazione familiare, che, peraltro, dovrebbe svolgersi tra i genitori fin dall’avvio dell’iter separativo, associata ad una specie di formazione sulle buone regole da seguire nell’interesse dei figli.
Quanto dedotto è stato suggerito nella Risoluzione del Consiglio d’Europa n. 2079 del 2015, (passata, fino ad oggi, sotto silenzio) che precisa al punto 5.9 fra gli inviti agli stati membri di: “5.
In the light of these considerations, the Assembly calls on the member States to: (..)5.9. encourage and, where appropriate, develop mediation within the framework of judicial proceedings in family cases involving children, in particular by instituting a court-ordered mandatory information session, in order to make the parents aware that shared residence may be an appropriate option in the best interest of the child, and to work towards such a solution, by ensuring that mediators receive appropriate training and by encouraging multidisciplinary co-operation based on the “Cochem model”;.
Ossia, traducendo la Risoluzione invita ad: “incoraggiare e, se del caso, sviluppare la mediazione nell'ambito giudiziario, in cause familiari che coinvolgono minori, in particolare istituendo un organo giudiziario obbligatorio,  al fine di sensibilizzare i genitori sul fatto che la residenza condivisa può essere un’opzione  appropriata nel migliore interesse del bambino, e di lavorare verso tale soluzione, garantendo che i mediatori ricevano una formazione adeguata e incoraggiando la cooperazione multidisciplinare basata sul “modello Cochem”) ((1)).
Questa risoluzione torna sotto i riflettori sotto l’input dato da una recente decisione della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, sent. 10 febbraio 2011, Tsikasis c. Germania, ric. 1521/06, la quale ha condannato lo Stato tedesco per avere sospeso per ben tre anni i rapporti tra un minore e il padre.
Si legge infatti nella pronuncia della CEDU: “nella crisi di relazione tra genitori, anche in quella più conflittuale, non deve venire mai meno il diritto di visita del genitore non affidatario nei confronti del figlio minore. Determina quindi una violazione dell’articolo 8 della Convenzione, il comportamento del genitore che, attuando dinamiche alienanti nei confronti dell’altro, impedisca a quest’ultimo ed al proprio figlio di incontrarsi, limitando di fatto l’esercizio del diritto di visita a venti ore totali nell’arco di 10 anni di separazione”.
Tornando alla Risoluzione, questa raccomanda agli Stati membri di introdurre la pratica Cochemer, sulla quale a mio avviso potrebbe essere utile spendere qualche parola.
La Cochemer Praxis non è una pratica innovativa, sebbene pressochè sconosciuta, dato che venne elaborata ed applicata negli anni novanta nell’omonima città tedesca da un ex giudice di famiglia Jürgen Rudolph, soggetto particolarmente attento e orientato a trovare soluzioni contro il fenomeno dell’alienazione genitoriale.
In che cosa consisteva questa pratica?
Come spiegava proprio Rudolph, si trattava di una pratica giuridica incardinata su una piena cooperazione di tutti gli attori coinvolti nella disgregazione del nucleo, la quale, grazie alla collaborazione interprofessionale, stimolava la prosecuzione di un rapporto "civile" tra i genitori separati o divorziati, i quali sarebbero dovuti riuscire a mantenere un forte e diretto rapporto con i figli ((2)).
Lo scopo della pratica era prevenire o porre rimedio all'alienazione dei figli da parte dei loro genitori nei casi di separazione o divorzio. In sostanza la pratica consisteva nel dirigere i genitori che si separavano ad una sorta di mediazione obbligatoria. Tutti gli operatori del mondo giuridico, giudici, avvocati, servizi sociali, erano e sono parte integrante attiva della Cochemer Praxis.
In particolare i legali, dovevano impegnarsi a redigere atti difensivi a basso impatto, essere inclini al dialogo e preferire una soluzione transattiva ad una conflittuale, mentre si cercava di giungere una soluzione concordata.
Sempre su questa falsariga, se veniva raggiunto un accordo, se uno dei genitori ostacolava la relazione del figlio con l’altro, automaticamente l’affidamento era trasferito al genitore vittima.
A mio parere questa pratica, che in se stessa contiene alcune delle critiche che ha mosso Gadner a tutti gli operatori che trattano le famiglie alienate, sarebbe un valido ausilio per combattere efficacemente la P.A.S., principalmente perché, l’ausilio dei legali, soprattutto nella fase precontenziosa, permetterebbe di plasmare soluzioni ad hoc per quella famiglia, peraltro concretamente attuabili.
Specialmente noi avvocati dovremmo riflettere su quanto teorizzato dal Giudice Rudolph perché, anche la redazione di atti più blandi, che tendano a conciliare anziché dividere, ci permetterebbe di individuare soluzioni davvero efficaci tanto per i nostri clienti quanto per i loro figli, il cui interesse deve sempre essere prioritario nella scelta della linea difensiva da tenere.

((1)) Risoluzione del Consiglio Europeo n. 2079 in data 02.10.2015.
((2)) JÜRGEN RUDOLPH, Du bist mein Kind. Die "Cochemer Praxis" Wege zu einem menschlicheren Familienrecht, Berlin, 2007.

Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 29/2019

11 giugno 2019

28/19. Processo sommario di cognizione e mediazione c.d. obbligatoria: rilievo tempestivo dell’improcedibilità (Osservatorio Mediazione Civile n. 28/2019)

=> Cassazione civile, 13 novembre 2018, n. 29017

In caso di mediazione c.d. obbligatoria (art. 5, comma 1-bis, d.lgs. 28/2010), qualora il giudizio di primo grado venga celebrato nelle forme del processo sommario di cognizione (art. 702-bis c.p.c., nel caso in cui lo stesso si sostanzi in un unica udienza, il rilievo della improcedibilità, “ope exceptionis” ovvero “ex officio”, della domanda proposta deve avvenire in occasione della sua celebrazione, pena la sua preclusione.


Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 28/2019

Corte Suprema di Cassazione
Sezione terza civile
Sentenza
13 novembre 2018 n. 29017

Omissis

Fatti di causa

La società X S.r.l. ricorre, sulla base di quattro motivi, per la cassazione della sentenza n. 1953/16 del 23 marzo 2016, emessa dalla Corte di Appello di Roma, che - rigettando il gravame esperito dall'odierna ricorrente contro l'ordinanza del 17 giugno 2015, resa dal Tribunale di Roma all'esito di giudizio ex art. 702 bis c.p.c. - ne ha confermato, previa declaratoria di risoluzione di diritto del contratto di leasing intercorso con la Y Leasing S.p.a., la condanna al rilascio di un capannone industriale già oggetto del contratto.
Riferisce, in punto di fatto, la ricorrente di essere stata convenuta in giudizio - con ricorso depositato il 16 dicembre 2014 dalla predetta Y Leasing S.p.a. (già Omissis S.p.a.) affinchè fosse accertato il suo inadempimento all'obbligo di pagamento dei canoni relativi alla locazione finanziaria dell'immobile suddetto, con conseguente risoluzione del contratto ex art. 1456 c,c, (ovvero, alternativamente, ex art. 1453 c.c.) e condanna al rilascio del bene. Costituitasi in giudizio, X eccepiva l'inesistenza del credito indicato quale presupposto dell'azione di risoluzione, atteso che - a fronte di un corrispettivo globale di Euro 1.697.471,05 - i canoni sarebbero stati "per anni" regolarmente versati, presentandosi l'inadempimento invocato dall'attrice come di "scarsa importanza", avendo la stessa comunicato la risoluzione in forza dell'omesso versamento di di Euro 88.044,01 a titolo di canoni scaduti, oltre che interessi. Siffatta quantificazione, tuttavia, sarebbe stata - a dire dell'odierna ricorrente - frutto di un "macroscopico errore", essendo stata "effettuata in violazione della normativa di cui alla L. n. 108 del 1996, nonchè degli artt. 1283 e 1284 c.c.", giacchè gli interessi applicati, soprattutto quelli moratori, "superavano di gran lunga il tasso soglia", presentando quindi natura usuraria.
All'esito del giudizio di primo grado, il Tribunale capitolino, accertava l'avvenuta risoluzione di diritto del contratto, condannando X alla restituzione immediata del bene e ponendo a suo carico le spese di lite.
Proposto appello dall'odierna ricorrente, sul duplice presupposto che la domanda attorea fosse improcedibile, per mancato esperimento del tentativo di conciliazione obbligatoria D.Lgs. n. 28 del 2010, ex art. 5, ed inoltre che la clausola risolutiva espressa apposta al contratto fosse da ritenersi illegittima, la Corte di Appello rigettava il gravame, compensando le spese del grado.
Avverso la sentenza della Corte capitolina ha proposto ricorso per cassazione la X, svolgendo quattro motivi.
Con il primo motivo - proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), - si ipotizza violazione e falsa applicazione di legge, in relazione al D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 5, comma 1.
 Si censura la sentenza impugnata per non aver dichiarato improcedibile la domanda attorea, in difetto di esperimento della procedura di mediazione obbligatoria, decisione motivata sul rilievo che la relativa eccezione avrebbe dovuto essere sollevata in primo grado, alla prima udienza. Si tratta - a dire della ricorrente - di affermazione che "viola apertamente" la lettera della norma sopra richiamata, che impone il rilievo officioso dell'improcedibilità della domanda, confermandone così il carattere obbligatorio e non discrezionale.
Il secondo motivo - proposto sempre ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), - deduce "violazione e falsa applicazione in relazione all'art. 1455 c.c.". Assume la ricorrente che - diversamente da quanto ritenuto dal giudice di appello, che avrebbe richiamato, sul punto, "pronunce particolarmente risalenti nel tempo" - anche in caso di risoluzione ex art. 1456 c.c., "l'inadempimento deve connotarsi del carattere della gravità", non potendo la stessa "essere considerata in re ipsa". Nella specie, poi, l'inadempimento di essa X non presenterebbe il carattere della gravità, tale non potendo ritenersi "il mancato pagamento da parte della stessa di un numero, a dir poco esiguo, di canoni di locazione, a fronte dell'esborso di oltre due milioni di Euro".
Il terzo motivo - proposto nuovamente ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), - deduce "violazione e falsa applicazione in relazione agli artt. 1525 e 1526 c.c.". Sul presupposto che nel nostro ordinamento manchi una "regolamentazione organica del contratto di leasing", la ricorrente assume che "nei più recenti arresti giurisprudenziali si è ritenuto applicabile al leasing finanziario il disposto di cui all'art. 1526 c.c., con conseguente illegittimità delle clausole risolutive espresse per contrasto con la predetta disposizione normativa avente natura inderogabile". Quanto, invece, al cd. leasing "traslativo" (qual è quello ravvisabile, secondo il ricorrente, nell'ipotesi che qui occupa), si è ritenuto, sempre ai sensi del già citato art. 1526 c.c., che "nel caso in cui la risoluzione avvenga per inadempimento del compratore (nel leasing, utilizzatore), il venditore (nel leasing, concedente) sia tenuto a restituire le rate riscosse, ma abbia diritto a vedersi riconoscere un equo compenso per l'uso della cosa, oltre al risarcimento del danno"; lo scopo, in altri termini, è di scongiurare "un ingiustificato arricchimento del concedente", ciò che si verificherebbe se l'utilizzatore fosse "tenuto a pagare tutte le somme dovute per i canoni scaduti e non soddisfatti, a versare a titolo di penale i canoni non ancora scaduti e l'eventuale prezzo del riscatto, nonchè a restituire il bene". Orbene, nella specie, "l'esborso di oltre due milioni di Euro a fronte di un numero esiguo di canoni non pagati e scaduti non può considerarsi grave inadempimento idoneo a legittimare la risoluzione del contratto".
Infine, il quarto motivo - formulato ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), - deduce, innanzitutto, "omesso esame circa un punto decisivo della controversia", ovvero la "natura usuraria degli interessi applicati nel contratto", nonchè "violazione e falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 1283,1284 e 1346 c.c., e art. 117 TUB". Si contesta l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui "la questione della natura usuraria degli interessi è stata avanzata in termini del tutto generici, senza un collegamento evidente con l'azione di risoluzione". Si assume che gli interessi di mora avrebbero carattere usurario, atteso che "l'aumento di 9 punti percentuali previsti per il tasso di interesse convenzionale di mora appare "ictu oculi" esorbitante rispetto a quello indicato dal Decreto ministeriale in materia", sicchè il pagamento delle somme versate a titolo di interessi "si configura come indebito". In particolare, sul rilievo che il contratto in questione è stato stipulato il 16 marzo 2004, si osserva che allo stesso - per il trimestre dal 1 gennaio 2004 al 31 marzo 2004 - si applica il D.M. del 18 dicembre 2003, "che individua un Tasso Effettivo Globale Medio per le operazioni di leasing con importo superiore a Euro 50.000.000 pari a 5,77% ed un tasso soglia di usura per le medesime operazioni pari all'8,655%". Orbene, nella specie, "emerge un interesse di mora superiore al tasso soglia di usura", giacchè già il "solo spread moratorio (9%) risulta maggiore al tasso soglia vigente al momento della stipula (8,655%), di talchè, in applicazione, "del granitico orientamento giurisprudenziale che estende agli interessi convenzionali la sanzione di nullità degli interessi moratori eccedenti le soglie usurarie" si dovrebbe concludere, secondo la ricorrente, "per la gratuità del contratto ex art. 1815 c.c., comma 2". Si assume, poi, che un "ulteriore profilo di invalidità della pattuizione. de qua attiene alla violazione del principio di determinatezza e/o determinabilità dei canoni ai sensi degli artt. 1284 e 1346 c.c., e art. 117 TUB", giacchè, in particolare, "il valore Euro della rata (Euro 10.428,95) non corrisponde al tasso percentuale ivi recato (5,440%) in quanto applicando tale percentuale la rata ammonterebbe ad Euro 10.482,30". Senza poi tacere del fatto che mancherebbe "una qualsivoglia indicazione in ordine alle modalità di ammortamento della somma mutuata e, in particolare, alla ripartizione tra quota capitale ed interessi di ciascuna rata per il mutamento del parametro di indicizzazione". Conseguentemente, "applicando le nullità di cui all'art. 644 c.p., e art. 1815 c.c., le somme versate in eccedenza dalla X S.r.l." ammonterebbero "ad Euro 414.003,26", laddove applicando "le sanzioni di cui all'art. 117, comma 7, TUB, risulta un'eccedenza pari ad Euro 285.134,22", mentre, infine, alla stregua "delle sanzioni di cui all'art. 1284 c.c., comma 3, le somme versate in eccedenza dalla X S.r.l, ammontano ad Euro 239.463,04".
Ha resistito con controricorso Y Leasing S.p.a., e per essa la sua mandataria omissis S.p.a., chiedendo la declaratoria di inammissibilità ovvero, subordinatamente, il rigetto dell'avversaria impugnazione. Quanto, in particolare, ai singoli motivi di ricorso, osserva - con specifico riferimento al primo - che l'improcedibilità D.Lgs. n. 28 del 2010, ex art. 5, va eccepita o rilevata d'ufficio "non oltre la prima udienza". In ordine alla supposta violazione dell'art. 1455 c.c. il controricorrente rileva come la funzione della clausola risolutiva espressa sia proprio quella di esonerare la parte dalla prova della gravità dell'inadempimento. In relazione alla terza censura, non senza previamente osservare come l'azione da essa proposta abbia avuto esclusivamente ad oggetto la richiesta di restituzione del bene (donde l'irrilevanza della questione dell'equo compenso spettante all'utilizzatore ex art. 1526 c.c.), la controricorrente evidenzia come, nella specie, neppure possa porsi un problema di indebito arricchimento del concedente, atteso che in base a specifica clausola negoziale, in caso di risoluzione del contratto, l'utilizzatore - a fronte del diritto del concedente alla restituzione del bene e all'acquisizione dei canoni già scaduti (oltre che a richiedere, unitamente al risarcimento di eventuali maggiori danni, il pagamento dell'indennizzo pari alla somma di tutti i canoni non ancora scaduti alla data di risoluzione e del prezzo di eventuale acquisto finale) - ha diritto, una volta soddisfatte le ragioni del concedente, di ottenere il pagamento di una somma pari al corrispettivo imponibile che questi ricaverà dalla vendita del bene. Orbene, si tratta di clausole delle quali questa Corte avrebbe riconosciuto la piena legittimità. Infine, con riferimento al quarto motivo - e non senza previamente ribadire come l'oggetto del presente giudizio sia la richiesta di restituzione dell'immobile - si sottolinea come "il tasso di interesse applicato al rapporto è notevolmente inferiore a quello determinato dal Ministero del tesoro ai fini dell'applicazione della suddetta normativa antiusura". Fermo restando, peraltro, che il D.L. 29 dicembre 2000, n. 294, art. 1, stabilisce che il carattere usurario o meno del tasso applicato va valutato con riferimento al momento in cui gli interessi siano convenuti (e non pagati), norma, questa, che ha superato il vaglio di costituzionalità (è citata C. cost. n. 29 del 2002). In ogni caso, poi, la normativa antiusura si riferirebbe agli interessi corrispettivi e non a quelli moratori, rilevandosi, infine, che comunque, nella specie, l'art. 11 delle condizioni generali di contratto reca una clausola di salvaguardia "che riconduce il tasso di mora nei limiti del tasso soglia".
Ha presentato memoria la controricorrente, ex art. 378 c.p.c., insistendo nelle proprie argomentazioni.

Ragioni della decisione

Il ricorso non è fondato.
In particolare, il primo motivo è inammissibile.
Al riguardo, va premesso che - diversamente da quanto ipotizza la ricorrente - la norma astrattamente applicabile al caso di specie non sarebbe certo quella di cui al D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, art. 5, comma 1, dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte costituzionale con sent. n. 272 del 2012, bensì quella di cui al comma 1 bis, dello stesso articolo, introdotto dal D.L. 21 giugno 2013, n. 69, art. 84, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, dalla L. 9 agosto 2013, n. 98, e poi modificato dal D.Lgs. 6 agosto 2015, n. 130, art. 1 bis, comma 2.
Ad ogni buon conto, a mente dell'una come dell'altra disposizione (come non lascia adito a dubbi il loro tenore letterale), l'improcedibilità della domanda per mancato preventivo esperimento della procedura di media-conciliazione "deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d'ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza". In questo senso, del resto, si è pronunciata - di recente - questa Corte, secondo cui la norma suddetta prevede la "rilevabilità del difetto della condizione di procedibilità, solo su eccezione di parte o su rilievo di ufficio del giudice non oltre la prima udienza, a pena di decadenza" (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 13 aprile 2017, n. 9557, non massimata).

Orbene, nella specie, essendo stato il giudizio di primo grado celebrato nelle forme del "processo sommario di cognizione", ex art. 702 bis c.p.c., ed essendosi lo stesso sostanziato - come attesta la sentenza impugnata - in un "unica udienza", il rilievo della improcedibilità, "ope exceptionis" ovvero "ex officio", della domanda proposta sarebbe dovuto avvenire in occasione della sua celebrazione, donde la sua intervenuta preclusione.
Per parte propria, i motivi secondo e terzo - che si prestano ad essere trattati congiuntamente - non sono fondati.
Quanto al primo di essi, deve osservarsi come la censura formulata da parte ricorrente non trovi riscontro nella giurisprudenza di questa Corte, univoca nel ritenere che la "clausola risolutiva espressa attribuisce al contraente il diritto potestativo di ottenere la risoluzione del contratto per un determinato inadempimento della controparte, dispensandola dall'onere di provarne l'importanza" (Cass. Sez. 1, sent. 11 novembre 2006, n. 13065, Rv. 642408-01), sicchè in questo caso "la risoluzione opera di diritto ove il contraente non inadempiente dichiari di volersene avvalere, senza necessità di provare la gravità dell'inadempimento della controparte" (Cass. Sez. 2, sent. 2 ottobre 2014, n. 20854, Rv. 632838-01).
In ordine, invece, all'altra censura, occorre osservare - sulla scorta di quanto rilevato dalla stessa sentenza impugnata - che nel giudizio di merito si è discusso "solo sulla risoluzione di diritto del contratto, con conseguente condanna al rilascio" dell'immobile, e non sugli effetti restitutori nascenti dallo scioglimento del vincolo contrattuale (e sulla loro misura), assoggettati alla "disciplina di carattere inderogabile di cui all'art. 1526 c.c., in tema di vendita con riserva della proprietà, la quale comporta, in caso di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, la restituzione dei canoni già corrisposti e il riconoscimento di un equo compenso" al concedente (cfr., ex multis, Cass. Sez. 3, sent. 27 settembre 2011, n. 19732, Rv. 619401-01).
Ne deriva, pertanto, l'infondatezza "ictu aculi" del motivo che prospetta la violazione, appunto, dell'art. 1526 c.c..
Il quarto motivo di ricorso è, infine, inammissibile.
Sul punto vale, innanzitutto, il rilievo - prospettabile, in particolare, per la censura proposta ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) - che nessun "omesso esame" del (supposto) carattere usurario degli interessi pattuiti risulta addebitabile alla Corte capitolina. Essa, invero, ha affermato che siffatta questione, già oggetto di appello, "è stata avanzata in termini del tutto generici, senza un collegamento evidente con l'azione di risoluzione e senza l'indagine della portata della clausola di salvaguardia prevista" dalle condizioni generali di contratto. Tale constatazione, dunque, non solo esclude la ricorrenza del vizio di "omesso esame" denunciato dalla ricorrente, ma evidenzia, altresì, un primo profilo di inammissibilità dell'intero motivo (dunque anche nella parte in cui ipotizza la violazione degli artt. 1284 e 1346 c.c., nonchè dell'art. 117 TUB), non facendosi carico lo stesso di censurare nè l'affermazione della Corte capitolina che prospetta un difetto di specificità, a norma dell'art. 342 c.p.c., del motivo di gravame allora proposto, nè l'ulteriore "ratio decidendi" che ipotizza una "neutralizzazione" della (ipotetica) violazione della normativa antiusura mercè apposita clausola prevista nelle condizioni generali di contratto. Il tutto, infine, non senza tacere - nuovamente nel senso dell'inammissibilità dell'intero motivo, ma questa volta a norma dell'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) - che la (pretesa) usurarietà degli interessi è argomentata attraverso un non meglio precisato richiamo alla "analisi delle condizioni previste dal contratto di locazione finanziaria", senza che il loro testo sia neppure riprodotto nel presente ricorso, come, del resto, quello del decreto ministeriale con il quale esse si porrebbero in contrasto (decreto, per vero, del quale non si indica neppure la sede processuale di avvenuta produzione, onde consentirne il reperimento nella documentazione in atti). Omissione, anche quest'ultima, rilevante ai sensi, oltre che della norma processuale testè richiamata, pure dell'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), posto che la "natura di atto amministrativo dei decreti ministeriali osta all'applicabilità del principio "iura novit curia"", con la conseguenza "che spetta alla parte interessata l'onere della relativa produzione, la quale non è suscettibile di equipollenti" (da ultimo, Cass. Sez. Lav., sent. 2 luglio 2014, n. 15065, Rv. 631597-01; nello stesso senso già Cass. Sez. Un. 29 aprile 2009, n. 9941, Rv. 607738-01).
Le spese del presente giudizio vanno poste a carico della parte ricorrente e sono liquidate come da dispositivo.
A carico della ricorrente rimasta soccombente sussiste l'obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte dichiara inammissibili il primo e il quarto motivo di ricorso, rigettando il secondo e il terzo, per l'effetto condannando la società X S.r.l. a rifondere alla società Y Leasing S.p.a., e per essa alla sua mandataria omissis S.p.a., le spese del presente giudizio, che liquida omissis; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

AVVISO. Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità. 

5 giugno 2019

27/19. MEDIA Magazine n. 6 del 2019 (Osservatorio Mediazione Civile n. 27/2019)


MEDIA Magazine
Mensile dell’Osservatorio Nazionale sulla Mediazione Civile
ISSN 2281 - 5139
--------------------------------

N. 6/19  Giugno 2019


Numero dedicato alle recenti questioni affrontate dalla giurisprudenza (merito e legittimità).


GIURISPRUDENZA

=> Tribunale di Firenze, 8 maggio 2019

=> Tribunale di Verona, 14 febbraio 2019

=> Tribunale di Pordenone, 18 febbraio 2019

=> Cassazione civile, 12 giugno 2018, n. 15200


SEGNALAZIONI editoriali

A breve disponibili:
- A. CAROZZI, A. GRASSI, L'AVVOCATO IN RETE (2019, in corso di stampa; link al sito dell’Editore)
- P. MONTEDONICO, SINDROME DA ALIENAZIONE GENITORIALE. Approcci e rimedi legali ed extra-legali (marzo-giugno 2019; link al sito dell’Editore)

Si segnala anche lo SPECIALE RIFORME PROCESSUALI 2019 (processo esecutivo e crisi d'impresa; link al sito dell’Editore)


REDAZIONE APERTA

Per proposte, collaborazioni, suggerimenti, segnalazioni, citazionipubblicità (eventi, corsi, prodotti editoriali, etc.) scrivere a: 

Guarda la presentazione di MEDIA Magazine (iscrizione gratuita)

Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 27/2019
(http://osservatoriomediazionecivile.blogspot.it)

NEWSLETTER MENSILE SULLA MEDIAZIONE