=> Cassazione civile, 13 novembre 2018, n. 29017
In caso di mediazione
c.d. obbligatoria (art. 5, comma 1-bis, d.lgs.
28/2010),
qualora il giudizio di primo grado venga celebrato nelle forme del processo sommario di cognizione (art.
702-bis c.p.c., nel caso in cui lo stesso si sostanzi in un unica udienza, il rilievo della improcedibilità, “ope
exceptionis” ovvero “ex officio”, della domanda proposta deve avvenire in
occasione della sua celebrazione, pena la sua preclusione.
Fonte: Osservatorio
Mediazione Civile n. 28/2019
Corte Suprema di Cassazione
Sezione terza civile
Sentenza
13 novembre 2018 n. 29017
Omissis
Fatti di causa
La società X S.r.l. ricorre, sulla base di quattro motivi, per la
cassazione della sentenza n. 1953/16 del 23 marzo 2016, emessa dalla Corte di
Appello di Roma, che - rigettando il gravame esperito dall'odierna ricorrente
contro l'ordinanza del 17 giugno 2015, resa dal Tribunale di Roma all'esito di
giudizio ex art. 702 bis c.p.c. - ne ha confermato, previa declaratoria di
risoluzione di diritto del contratto di leasing intercorso con la Y Leasing S.p.a.,
la condanna al rilascio di un capannone industriale già oggetto del contratto.
Riferisce, in punto di fatto, la ricorrente di essere stata convenuta
in giudizio - con ricorso depositato il 16 dicembre 2014 dalla predetta Y
Leasing S.p.a. (già Omissis S.p.a.)
affinchè fosse accertato il suo inadempimento all'obbligo di pagamento dei
canoni relativi alla locazione finanziaria dell'immobile suddetto, con
conseguente risoluzione del contratto ex art. 1456 c,c, (ovvero,
alternativamente, ex art. 1453 c.c.) e condanna al rilascio del bene.
Costituitasi in giudizio, X eccepiva l'inesistenza del credito indicato quale
presupposto dell'azione di risoluzione, atteso che - a fronte di un
corrispettivo globale di Euro 1.697.471,05 - i canoni sarebbero stati "per
anni" regolarmente versati, presentandosi l'inadempimento invocato
dall'attrice come di "scarsa importanza", avendo la stessa comunicato
la risoluzione in forza dell'omesso versamento di di Euro 88.044,01 a titolo di
canoni scaduti, oltre che interessi. Siffatta quantificazione, tuttavia,
sarebbe stata - a dire dell'odierna ricorrente - frutto di un
"macroscopico errore", essendo stata "effettuata in violazione
della normativa di cui alla L. n. 108 del 1996, nonchè degli artt. 1283 e 1284
c.c.", giacchè gli interessi applicati, soprattutto quelli moratori,
"superavano di gran lunga il tasso soglia", presentando quindi natura
usuraria.
All'esito del giudizio di primo grado, il Tribunale capitolino,
accertava l'avvenuta risoluzione di diritto del contratto, condannando X alla
restituzione immediata del bene e ponendo a suo carico le spese di lite.
Proposto appello dall'odierna ricorrente, sul duplice presupposto che
la domanda attorea fosse improcedibile, per mancato esperimento del tentativo
di conciliazione obbligatoria D.Lgs. n. 28 del 2010, ex art. 5, ed inoltre che
la clausola risolutiva espressa apposta al contratto fosse da ritenersi
illegittima, la Corte di Appello rigettava il gravame, compensando le spese del
grado.
Avverso la sentenza della Corte capitolina ha proposto ricorso per
cassazione la X, svolgendo quattro motivi.
Con il primo motivo - proposto ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1,
n. 3), - si ipotizza violazione e falsa applicazione di legge, in relazione al
D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 5, comma 1.
Si censura la sentenza impugnata
per non aver dichiarato improcedibile la domanda attorea, in difetto di
esperimento della procedura di mediazione obbligatoria, decisione motivata sul
rilievo che la relativa eccezione avrebbe dovuto essere sollevata in primo
grado, alla prima udienza. Si tratta - a dire della ricorrente - di
affermazione che "viola apertamente" la lettera della norma sopra
richiamata, che impone il rilievo officioso dell'improcedibilità della domanda,
confermandone così il carattere obbligatorio e non discrezionale.
Il secondo motivo - proposto sempre ai sensi dell'art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 3), - deduce "violazione e falsa applicazione in relazione
all'art. 1455 c.c.". Assume la ricorrente che - diversamente da quanto
ritenuto dal giudice di appello, che avrebbe richiamato, sul punto,
"pronunce particolarmente risalenti nel tempo" - anche in caso di
risoluzione ex art. 1456 c.c., "l'inadempimento deve connotarsi del
carattere della gravità", non potendo la stessa "essere considerata
in re ipsa". Nella specie, poi, l'inadempimento di essa X non
presenterebbe il carattere della gravità, tale non potendo ritenersi "il
mancato pagamento da parte della stessa di un numero, a dir poco esiguo, di
canoni di locazione, a fronte dell'esborso di oltre due milioni di Euro".
Il terzo motivo - proposto nuovamente ai sensi dell'art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 3), - deduce "violazione e falsa applicazione in relazione
agli artt. 1525 e 1526 c.c.". Sul presupposto che nel nostro ordinamento
manchi una "regolamentazione organica del contratto di leasing", la
ricorrente assume che "nei più recenti arresti giurisprudenziali si è
ritenuto applicabile al leasing finanziario il disposto di cui all'art. 1526
c.c., con conseguente illegittimità delle clausole risolutive espresse per
contrasto con la predetta disposizione normativa avente natura
inderogabile". Quanto, invece, al cd. leasing "traslativo" (qual
è quello ravvisabile, secondo il ricorrente, nell'ipotesi che qui occupa), si è
ritenuto, sempre ai sensi del già citato art. 1526 c.c., che "nel caso in
cui la risoluzione avvenga per inadempimento del compratore (nel leasing,
utilizzatore), il venditore (nel leasing, concedente) sia tenuto a restituire
le rate riscosse, ma abbia diritto a vedersi riconoscere un equo compenso per
l'uso della cosa, oltre al risarcimento del danno"; lo scopo, in altri
termini, è di scongiurare "un ingiustificato arricchimento del
concedente", ciò che si verificherebbe se l'utilizzatore fosse
"tenuto a pagare tutte le somme dovute per i canoni scaduti e non
soddisfatti, a versare a titolo di penale i canoni non ancora scaduti e
l'eventuale prezzo del riscatto, nonchè a restituire il bene". Orbene,
nella specie, "l'esborso di oltre due milioni di Euro a fronte di un
numero esiguo di canoni non pagati e scaduti non può considerarsi grave inadempimento
idoneo a legittimare la risoluzione del contratto".
Infine, il quarto motivo - formulato ai sensi dell'art. 360 c.p.c.,
comma 1, nn. 3) e 5), - deduce, innanzitutto, "omesso esame circa un punto
decisivo della controversia", ovvero la "natura usuraria degli
interessi applicati nel contratto", nonchè "violazione e falsa
applicazione di legge in relazione agli artt. 1283,1284 e 1346 c.c., e art. 117
TUB". Si contesta l'affermazione contenuta nella sentenza impugnata,
secondo cui "la questione della natura usuraria degli interessi è stata
avanzata in termini del tutto generici, senza un collegamento evidente con
l'azione di risoluzione". Si assume che gli interessi di mora avrebbero
carattere usurario, atteso che "l'aumento di 9 punti percentuali previsti
per il tasso di interesse convenzionale di mora appare "ictu oculi"
esorbitante rispetto a quello indicato dal Decreto ministeriale in
materia", sicchè il pagamento delle somme versate a titolo di interessi
"si configura come indebito". In particolare, sul rilievo che il
contratto in questione è stato stipulato il 16 marzo 2004, si osserva che allo
stesso - per il trimestre dal 1 gennaio 2004 al 31 marzo 2004 - si applica il
D.M. del 18 dicembre 2003, "che individua un Tasso Effettivo Globale Medio
per le operazioni di leasing con importo superiore a Euro 50.000.000 pari a
5,77% ed un tasso soglia di usura per le medesime operazioni pari
all'8,655%". Orbene, nella specie, "emerge un interesse di mora
superiore al tasso soglia di usura", giacchè già il "solo spread
moratorio (9%) risulta maggiore al tasso soglia vigente al momento della
stipula (8,655%), di talchè, in applicazione, "del granitico orientamento
giurisprudenziale che estende agli interessi convenzionali la sanzione di
nullità degli interessi moratori eccedenti le soglie usurarie" si dovrebbe
concludere, secondo la ricorrente, "per la gratuità del contratto ex art.
1815 c.c., comma 2". Si assume, poi, che un "ulteriore profilo di
invalidità della pattuizione. de qua attiene alla violazione del principio di
determinatezza e/o determinabilità dei canoni ai sensi degli artt. 1284 e 1346
c.c., e art. 117 TUB", giacchè, in particolare, "il valore Euro della
rata (Euro 10.428,95) non corrisponde al tasso percentuale ivi recato (5,440%)
in quanto applicando tale percentuale la rata ammonterebbe ad Euro
10.482,30". Senza poi tacere del fatto che mancherebbe "una
qualsivoglia indicazione in ordine alle modalità di ammortamento della somma
mutuata e, in particolare, alla ripartizione tra quota capitale ed interessi di
ciascuna rata per il mutamento del parametro di indicizzazione". Conseguentemente,
"applicando le nullità di cui all'art. 644 c.p., e art. 1815 c.c., le
somme versate in eccedenza dalla X S.r.l." ammonterebbero "ad Euro
414.003,26", laddove applicando "le sanzioni di cui all'art. 117,
comma 7, TUB, risulta un'eccedenza pari ad Euro 285.134,22", mentre,
infine, alla stregua "delle sanzioni di cui all'art. 1284 c.c., comma 3,
le somme versate in eccedenza dalla X S.r.l, ammontano ad Euro
239.463,04".
Ha resistito con controricorso Y Leasing S.p.a., e per essa la sua
mandataria omissis S.p.a., chiedendo
la declaratoria di inammissibilità ovvero, subordinatamente, il rigetto
dell'avversaria impugnazione. Quanto, in particolare, ai singoli motivi di
ricorso, osserva - con specifico riferimento al primo - che l'improcedibilità
D.Lgs. n. 28 del 2010, ex art. 5, va eccepita o rilevata d'ufficio "non
oltre la prima udienza". In ordine alla supposta violazione dell'art. 1455
c.c. il controricorrente rileva come la funzione della clausola risolutiva
espressa sia proprio quella di esonerare la parte dalla prova della gravità
dell'inadempimento. In relazione alla terza censura, non senza previamente
osservare come l'azione da essa proposta abbia avuto esclusivamente ad oggetto
la richiesta di restituzione del bene (donde l'irrilevanza della questione
dell'equo compenso spettante all'utilizzatore ex art. 1526 c.c.), la
controricorrente evidenzia come, nella specie, neppure possa porsi un problema
di indebito arricchimento del concedente, atteso che in base a specifica
clausola negoziale, in caso di risoluzione del contratto, l'utilizzatore - a
fronte del diritto del concedente alla restituzione del bene e all'acquisizione
dei canoni già scaduti (oltre che a richiedere, unitamente al risarcimento di
eventuali maggiori danni, il pagamento dell'indennizzo pari alla somma di tutti
i canoni non ancora scaduti alla data di risoluzione e del prezzo di eventuale
acquisto finale) - ha diritto, una volta soddisfatte le ragioni del concedente,
di ottenere il pagamento di una somma pari al corrispettivo imponibile che
questi ricaverà dalla vendita del bene. Orbene, si tratta di clausole delle
quali questa Corte avrebbe riconosciuto la piena legittimità. Infine, con
riferimento al quarto motivo - e non senza previamente ribadire come l'oggetto
del presente giudizio sia la richiesta di restituzione dell'immobile - si
sottolinea come "il tasso di interesse applicato al rapporto è notevolmente
inferiore a quello determinato dal Ministero del tesoro ai fini
dell'applicazione della suddetta normativa antiusura". Fermo restando,
peraltro, che il D.L. 29 dicembre 2000, n. 294, art. 1, stabilisce che il
carattere usurario o meno del tasso applicato va valutato con riferimento al
momento in cui gli interessi siano convenuti (e non pagati), norma, questa, che
ha superato il vaglio di costituzionalità (è citata C. cost. n. 29 del 2002).
In ogni caso, poi, la normativa antiusura si riferirebbe agli interessi
corrispettivi e non a quelli moratori, rilevandosi, infine, che comunque, nella
specie, l'art. 11 delle condizioni generali di contratto reca una clausola di
salvaguardia "che riconduce il tasso di mora nei limiti del tasso soglia".
Ha presentato memoria la controricorrente, ex art. 378 c.p.c.,
insistendo nelle proprie argomentazioni.
Ragioni della decisione
Il ricorso non è fondato.
In particolare, il primo motivo è inammissibile.
Al riguardo, va premesso che - diversamente da quanto ipotizza la
ricorrente - la norma astrattamente applicabile al caso di specie non sarebbe
certo quella di cui al D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, art. 5, comma 1, dichiarata
costituzionalmente illegittima dalla Corte costituzionale con sent. n. 272 del
2012, bensì quella di cui al comma 1 bis, dello stesso articolo, introdotto dal
D.L. 21 giugno 2013, n. 69, art. 84, comma 1, lett. b), convertito, con
modificazioni, dalla L. 9 agosto 2013, n. 98, e poi modificato dal D.Lgs. 6
agosto 2015, n. 130, art. 1 bis, comma 2.
Ad ogni buon conto, a mente dell'una come dell'altra disposizione (come
non lascia adito a dubbi il loro tenore letterale), l'improcedibilità della
domanda per mancato preventivo esperimento della procedura di
media-conciliazione "deve essere eccepita dal convenuto, a pena di
decadenza, o rilevata d'ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza". In
questo senso, del resto, si è pronunciata - di recente - questa Corte, secondo
cui la norma suddetta prevede la "rilevabilità del difetto della
condizione di procedibilità, solo su eccezione di parte o su rilievo di ufficio
del giudice non oltre la prima udienza, a pena di decadenza" (cfr. Cass.
Sez. 3, sent. 13 aprile 2017, n. 9557, non massimata).
Orbene, nella specie, essendo stato il giudizio di primo grado
celebrato nelle forme del "processo sommario di cognizione", ex art.
702 bis c.p.c., ed essendosi lo stesso sostanziato - come attesta la sentenza
impugnata - in un "unica udienza", il rilievo della improcedibilità,
"ope exceptionis" ovvero "ex officio", della domanda
proposta sarebbe dovuto avvenire in occasione della sua celebrazione, donde la
sua intervenuta preclusione.
Per parte propria, i motivi secondo e terzo - che si prestano ad essere
trattati congiuntamente - non sono fondati.
Quanto al primo di essi, deve osservarsi come la censura formulata da
parte ricorrente non trovi riscontro nella giurisprudenza di questa Corte,
univoca nel ritenere che la "clausola risolutiva espressa attribuisce al
contraente il diritto potestativo di ottenere la risoluzione del contratto per
un determinato inadempimento della controparte, dispensandola dall'onere di
provarne l'importanza" (Cass. Sez. 1, sent. 11 novembre 2006, n. 13065,
Rv. 642408-01), sicchè in questo caso "la risoluzione opera di diritto ove
il contraente non inadempiente dichiari di volersene avvalere, senza necessità
di provare la gravità dell'inadempimento della controparte" (Cass. Sez. 2,
sent. 2 ottobre 2014, n. 20854, Rv. 632838-01).
In ordine, invece, all'altra censura, occorre osservare - sulla scorta
di quanto rilevato dalla stessa sentenza impugnata - che nel giudizio di merito
si è discusso "solo sulla risoluzione di diritto del contratto, con
conseguente condanna al rilascio" dell'immobile, e non sugli effetti
restitutori nascenti dallo scioglimento del vincolo contrattuale (e sulla loro
misura), assoggettati alla "disciplina di carattere inderogabile di cui
all'art. 1526 c.c., in tema di vendita con riserva della proprietà, la quale
comporta, in caso di risoluzione per inadempimento dell'utilizzatore, la
restituzione dei canoni già corrisposti e il riconoscimento di un equo
compenso" al concedente (cfr., ex multis, Cass. Sez. 3, sent. 27 settembre
2011, n. 19732, Rv. 619401-01).
Ne deriva, pertanto, l'infondatezza "ictu aculi" del motivo
che prospetta la violazione, appunto, dell'art. 1526 c.c..
Il quarto motivo di ricorso è, infine, inammissibile.
Sul punto vale, innanzitutto, il rilievo - prospettabile, in particolare,
per la censura proposta ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) - che
nessun "omesso esame" del (supposto) carattere usurario degli
interessi pattuiti risulta addebitabile alla Corte capitolina. Essa, invero, ha
affermato che siffatta questione, già oggetto di appello, "è stata
avanzata in termini del tutto generici, senza un collegamento evidente con
l'azione di risoluzione e senza l'indagine della portata della clausola di
salvaguardia prevista" dalle condizioni generali di contratto. Tale constatazione,
dunque, non solo esclude la ricorrenza del vizio di "omesso esame"
denunciato dalla ricorrente, ma evidenzia, altresì, un primo profilo di
inammissibilità dell'intero motivo (dunque anche nella parte in cui ipotizza la
violazione degli artt. 1284 e 1346 c.c., nonchè dell'art. 117 TUB), non
facendosi carico lo stesso di censurare nè l'affermazione della Corte
capitolina che prospetta un difetto di specificità, a norma dell'art. 342
c.p.c., del motivo di gravame allora proposto, nè l'ulteriore "ratio
decidendi" che ipotizza una "neutralizzazione" della (ipotetica)
violazione della normativa antiusura mercè apposita clausola prevista nelle
condizioni generali di contratto. Il tutto, infine, non senza tacere -
nuovamente nel senso dell'inammissibilità dell'intero motivo, ma questa volta a
norma dell'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) - che la (pretesa) usurarietà degli
interessi è argomentata attraverso un non meglio precisato richiamo alla
"analisi delle condizioni previste dal contratto di locazione finanziaria",
senza che il loro testo sia neppure riprodotto nel presente ricorso, come, del
resto, quello del decreto ministeriale con il quale esse si porrebbero in
contrasto (decreto, per vero, del quale non si indica neppure la sede
processuale di avvenuta produzione, onde consentirne il reperimento nella
documentazione in atti). Omissione, anche quest'ultima, rilevante ai sensi,
oltre che della norma processuale testè richiamata, pure dell'art. 369 c.p.c.,
comma 2, n. 4), posto che la "natura di atto amministrativo dei decreti
ministeriali osta all'applicabilità del principio "iura novit
curia"", con la conseguenza "che spetta alla parte interessata
l'onere della relativa produzione, la quale non è suscettibile di
equipollenti" (da ultimo, Cass. Sez. Lav., sent. 2 luglio 2014, n. 15065,
Rv. 631597-01; nello stesso senso già Cass. Sez. Un. 29 aprile 2009, n. 9941,
Rv. 607738-01).
Le spese del presente giudizio vanno poste a carico della parte
ricorrente e sono liquidate come da dispositivo.
A carico della ricorrente rimasta soccombente sussiste l'obbligo di
versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del
D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.
PQM
La Corte dichiara inammissibili il primo e il quarto motivo di ricorso,
rigettando il secondo e il terzo, per l'effetto condannando la società X S.r.l.
a rifondere alla società Y Leasing S.p.a., e per essa alla sua mandataria omissis S.p.a., le spese del presente
giudizio, che liquida omissis; ai
sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo
introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà
atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della
ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a
quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.