DIRITTO D'AUTORE


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17 novembre 2023

42/23. VITONE-ZACCARO, Il nuovo procedimento davanti al Giudice di pace. Il rapporto tra conciliazione giudiziale e mediazione demandata (Osservatorio Mediazione Civile n. 42/2023)

Il rapporto tra conciliazione giudiziale e mediazione demandata

di Elisabetta VITONE e Stefano ZACCARO

(estratto da E. VITONE – S. ZACCARO, Il nuovo procedimento davanti al Giudice di pace, Centro Studi Diritto Avanzato – DuePuntoZero, 2023)

Per approfondimenti è possibile consultare

Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 42/2023
(www.osservatoriomediazionecivile.blogspot.com)

È opportuno fare un cenno, infine, ai rapporti tra la conciliazione giudiziale e la mediazione demandata, che, come evidenziato in dottrina", rappresentano i due modelli fondamentali a disposizione del giudice per orientare la controversia verso una risoluzione amichevole. Al riguardo si è osservato che l'aspetto più interessante «è probabilmente quello riguardante la posizione del giudice che, in possesso di ogni elemento utile a ritenere ormai matura la controversia (non per essere decisa, bensì) per essere avviata su un percorso conciliativo o comunque, collaborativo, si trovi di fronte alla alternativa se intraprendere tale percorso facendo ricorso a uno strumento (la mediazione delegata) oppure ad un altro (la conciliazione giudiziale)». Il problema della scelta si pone perché - come pure rilevato - si tratta di figure coincidenti non soltanto sul piano del risultato perseguito, ma anche in relazione ai presupposti applicativi che, pur essendo solo in parte comuni, non ne impediscono la sovrapposizione. Sicché, il legislatore della riforma avrebbe potuto cogliere l'occasione per individuare con maggiore chiarezza i rispettivi parametri di riferimento, avvalendosi anche dell'esperienza maturata nell'ambito dei progetti sperimentali realizzati, negli ultimi anni, in materia di mediazione e conciliazione. Per delineare i confini tra i due modelli, inoltre, si sarebbero potute valorizzare le specifiche caratteristiche di ciascuna figura. In particolare, nella conciliazione giudiziale il giudice può cercare di stimolare un atteggiamento collaborativo dei litiganti attraverso una prospettazione realistica e ragionata dei fattori di aleatorietà del giudizio. In base all'esperienza maturata in relazione a controversie analoghe e alle risposte fornite in sede di interrogatorio libero, poi, può valutare gli interessi delle parti e provare ad utilizzare questi elementi per dirigere la controversia verso una soluzione alternativa alla decisione che, in alcuni casi, potrebbe individuare lui stesso attraverso la formulazione di una proposta. L'attività conciliativa del giudice, però, incontra i limiti imposti dalla sede processuale in cui è svolta. Il più importante, probabilmente, è rappresentato dall'impossibilità di applicare il principio di riservatezza, che consente invece al mediatore di sondare in profondità i reali interessi e bisogni delle parti, anche attraverso il meccanismo delle sessioni separate.

Prescindendo dai presupposti applicativi e dalle peculiarità di ciascun modello il legislatore della riforma, invece, attraverso la reintroduzione del tentativo obbligatorio di conciliazione sembrerebbe aver espresso una generale preferenza, quantomeno in prima battuta, per questa figura che, a differenza della mediazione demandata, attribuisce al giudice un ruolo attivo durante tutto il percorso conciliativo, fino alla eventuale formulazione della proposta di cui all'art. 185 bis. Il magistrato, però, dopo aver tentato la conciliazione e anche quando si sia fatto lui stesso promotore di una soluzione consensuale, potrebbe ritenere che le caratteristiche della lite siano tali da giustificare l'intervento del mediatore il quale, non essendo imbrigliato dalle regole del processo, è dotato di strumenti che potrebbero consentirgli di svolgere un'attività conciliativa più proficua in relazione allo specifico caso considerato. A tal proposito non si può non considerare, inoltre, che l'accesso al procedimento di mediazione non soltanto consentirebbe alle parti di avvalersi dell'ausilio di questa figura professionale per addivenire ad una composizione il più possibile soddisfacente per entrambe, ma condurrebbe anche, in caso di esito positivo, alla conclusione di un accordo che, a ben vedere, presenta una serie di vantaggi sia rispetto all'accordo stragiudiziale stipulato dalle parti autonomamente, sia rispetto alla conciliazione giudiziale. L'accordo conclusivo della mediazione, infatti, a differenza di quello negoziale, in presenza delle condizioni previste dall'art. 12 d.leg. 28/10 costituisce titolo esecutivo. Riguardo al verbale di conciliazione giudiziale, invece, questo, pur avendo efficacia esecutiva, rappresenta un esito piuttosto raro del giudizio, in ragione soprattutto delle conseguenze di ordine fiscale che potrebbero derivarne. In particolare, mentre il verbale di conciliazione giudiziale è soggetto all'imposta di registro, l'accordo raggiunto al termine della mediazione ne è esente, e consente altresì alle parti di usufruire delle agevolazioni fiscali previste dall'art. 20 d.leg. 28/10. Mette conto rammentare però che il successo della mediazione e, in generale, degli strumenti autonomi di risoluzione delle controversie riposa, com'è noto, sulla libertà di autodeterminazione delle parti; tant'è che, in presenza di velleità conciliative, anche stimolate dall'attività svolta dal giudice in sede contenziosa, le parti ben potrebbero iniziare di propria iniziativa il procedimento di mediazione, senza la necessità di un provvedimento che le costringa ad intraprendere questo percorso. Per questo motivo, è essenziale che il giudice, dopo aver esperito il tentativo (obbligatorio) di conciliazione, valuti con ponderazione la sussistenza dei presupposti per attivare la condizione di procedibilità prevista dall'art. 5 quater d. leg. 28/10. in caso contrario, il ricorso a questo modello denoterebbe solo un accanimento conciliativo destinato ad allungare inutilmente la durata del processo, producendo cosi un effetto esattamente contrario rispetto all'obiettivo di accelerazione dei tempi della giustizia perseguito dal legislatore della riforma.

Ciò che, invece, lascia non poco perplessi, è la possibilità di promuovere forme conciliative «ibride», legittimando alcuni modelli che pure sono stati utilizzati nella prassi.

Queste soluzioni, infatti, incontrano un ostacolo nella diversità strutturale della conciliazione giudiziale rispetto alla mediazione, per cui la commistione di attività e funzioni tra giudice e mediatore suscita forti dubbi.

In particolare, non convince l'idea che al giudice possa attribuirsi una funzione di indirizzo dell'attività da svolgere in mediazione attraverso, ad esempio, l'indicazione dei punti «sui quali è opportuno che la discussione sia diretta e concentrata, evidenziando aspetti a favore e contro e dei quali le parti non potranno non tener conto». Questa opera di direzione, infatti, limiterebbe arbitrariamente i poteri del mediatore, il quale, invece, attraverso un dialogo aperto e sincero con le parti, potrebbe andare ben al di là delle questioni emerse in giudizio, esplorando aspetti del contenzioso nuovi, in grado di condurre anche a soluzioni del tutto inaspettate. Si è detto pure che, attraverso l'utilizzo di questo modello misto «si assiste ad un fatto nuovo: il giudice parla al mediatore.

Sempre più spesso, come attestano i provvedimenti dell'ultimo biennio, sono i giudici a scrivere le regole che consentono alla mediazione di funzionare meglio, con un effetto di generale armonizzazione delle condotte degli organismi e dei mediatori che in mancanza risulterebbero troppo cacofoniche». Prescindendo dalle considerazioni in merito all'effetto, prodotto da quest'attività di direzione, di rendere «meno cacofoniche» le condotte di organismi e mediatori, è importante sottolineare, invece, che il presupposto essenziale e imprescindibile perché la mediazione si riveli un efficace strumento di composizione delle liti è l'instaurazione di un dialogo (non tra il mediatore e il giudice, bensì) tra il mediatore e le parti. E rispetto a questo aspetto fondamentale dell'istituto, le interferenze del giudice rischiano di rivelarsi addirittura dannose in quanto le parti, chiamate (rectius: obbligate) a confrontarsi su questioni prestabilite, potrebbero percepire il mediatore non come un terzo imparziale cui affidarsi per essere coadiuvate nel tentativo di costruire insieme il percorso verso una possibile soluzione consensuale, bensì come una sorta di ausiliario del giudice, con la funzione di persuaderle ad addivenire all'accordo seguendo la strada già tracciata dall'organo giurisdizionale. 

22 giugno 2012

96/12. La disciplina della mediazione si applicata anche al giudice di pace? (Osservatorio Mediazione Civile n. 96/2012)


Recenti pronunce di merito hanno sollevato dubbi in ordine all’applicabilità della nuova disciplina di cui al d.lgs. n. 28 del 2010 alle controversie di competenza del giudice di pace (I).
La disciplina della mediazione si applica anche al giudice di pace?
di Giulio Spina

La tesi secondo cui nei procedimenti innanzi al giudice di pace non troverebbe applicazione il nuovo istituto della mediazione civile poggia essenzialmente, in coerenza con la ricostruzione dell’istituto in parola che ne evidenzia gli stretti collegamenti col diritto processuale (II), sul presupposto che una nuova norma va applicata ed interpretata all'interno dell'ordinamento giuridico nel quale si inserisce, con la conseguenza che una norma sul rito, quale sarebbe qualificabile la disciplina dettata dal d.lgs. n. 28 del 2010 (e, in particolare, quella di cui all’art. 5, c. 1 del medesimo decreto legislativo relativa alla mediazione obbligatoria ed alla conseguente improcedibilità della domanda giudiziale in assenza del previo esperimento del procedimento di mediaizone) può essere applicata al giudice di pace solo se essa lo disponga espressamente (III).

Nell’interpretazione di tale nuova normativa, inoltre, dovrebbe farsi riferimento anche al criterio di specialità, con riferimento al quale va considerato il brocardo “lex posterior generalis non derogat priori speciali”, criterio che limita l'applicazione di quello cronologico poiché nel caso della norma speciale il rapporto contenutistico prevale sulla dimensione temporale (IV).

Ciò considerato, l’inapplicabilità della mediazione civile ai procedimenti di innanzi al giudice di pace poggia sui seguenti rilievi:
-         secondo l’art. 311 c.p.c. (V) una norma sul rito può essere applicata al giudice di pace solo se essa lo disponga espressamente, altrimenti continuano ad applicarsi le disposizioni di cui al titolo II;
-         il d.lgs. n. 28/10 non contiene alcun richiamo al processo dinanzi al giudice di pace né dispone espressamente l’abrogazione degli articoli 320 e 322 del codice di procedura civile (VII).

Nei procedimenti dinanzi al giudice di Pace vanno dunque applicate le disposizioni di cui al libro II, titolo II, dall'art. 311 al 322 c.p.c. e non il d.lgs. n. 28/10 in quanto:
-         il tentativo obbligatorio di conciliazione per le controversie affidate al Giudice di Pace è già stato previsto dal legislatore all’art. 30 l. n. 374/91, la cui ratio ispiratrice è quella di tendere a deflazionare il contenzioso;
-         l’art. 320 c.p.c. (relativo alla conciliazione innanzi al Giudice di Pace in sede contenziosa) non è stato abrogato dal d.lgs. n. 28/10: ne consegue che applicare la mediazione per le materie del Giudice di Pace comporterebbe una inutile duplicazione di quanto già assegnato alla competenza del giudice di pace ed un ostacolo alla celerità del processo;
-         il procedimento dinanzi al Giudice di Pace già prevede la conciliazione anche in sede non contenziosa (art. 322 c.p.c.). 

Pertanto, si è affermato che la disciplina della mediazione non si applica alle controversie di competenza del giudice di pace in quanto una diversa interpretazione finirebbe per vanificare lo scopo del legislatore diretto proprio a favorire la conciliazione delle controversie di competenza del giudice di pace, che già svolge ex lege la funzione affidata con il D.Lgs. n. 28/10 al mediatore (VIII): l'intento deflattivo che si è proposto il legislatore sarebbe infatti assecondato proprio dall'istituto del giudice di pace.

Tuttavia, come spunto di riflessione, può osservarsi quanto segue:

-         l’intento deflativo dei contenziosi civili perseguito dal legislatore già con la delega di cui all’art. 60 l. n. 69 del 2009 (e poi col conseguente d.lgs. n. 28 del 2010) ben potrebbe in realtà riguardare non solo i procedimenti civili pendenti innanzi al tribunale ordinario, ma anche quelli pendenti innanzi agli uffici del giudice di pace;

-         con particolare riferimento alla conciliazione demandata, anche nei procedimenti di competenza del tribunale è prevista l’ipotesi di una conciliazione giudiziale (art. 185 c.p.c) (IX);

-         prevedendo l’applicabilità della disciplina della mediazione (specie di quella obbligatoria) alle sole controversie di competenza del tribunale si creerebbe una ingiustificata disuguaglianza di trattamento: sol tali controversie, infatti, resterebbero assoggettate al previo esperimento della mediazione quale condizione di procedibilità della domanda; limitazione temporanea al diritto di accesso alla giustizia che, invece (pur ammettendone, in attesa della pronuncia della Corte Costituzionale, la piena  legittimità costituzionale), non sarebbe prevista per le controversie di competenza del giudice di pace;

-         con particolare riferimento, ancora, alla conciliazione (specie quella giudiziale) svolta dal giudice di pace, occorre inoltre ricordare come le logiche sottese all’istituto della mediazione sono sicuramente differenti rispetto a quelle operanti – anche latu senso – all’interno di un processo(di competenza del tribunale o del giudice di pace);

-         riducendo l’ambito applicativo del d.lgs. n. 28 del 2010 alle sole cause di competenza del tribunale, la diffusione del nuovo istituto resterebbe fortemente limitata, contrastando con la ratio legis contribuire alla diffusione della cultura della risoluzione alternativa delle controversie (art. 5, c. 1 relazione illustrative);

-         riducendo l’ambito applicativo del d.lgs. n. 28 del 2010 alle sole cause di competenza del tribunale l’istituto della mediazione civile (in particolare quella demandata e quella facoltativa) verrebbe ridotto a mero strumento processuale, e non a possibilità fornita, sempre e comunque, a tutte le parti in lite con riferimento ad una controversia civile o commerciale; possibilità di ricercare, fuori dal processo e dalle logiche proprie del processo, un accordo conciliativo sulla base dei reali interessi delle parti medesime e non delle contrapposte posizioni giuridiche;

-         il giudice di pace, ad ogni modo, non è un mediatore professionista (non ne ha, ad esempio, la formazione): nuova professione congeniata dal legislatore come distinta da quella del giudice e, in genere, dal professionista del diritto.   


(II) Per la consapevolezza di tale stretto rapporto si veda già il focus contenutistico di questo Osservatorio, in Osservatorio Mediazione Civile n. 0/2011 (www.osservatoriomediazionecivile.blogspot.com)

(III) In questo senso si veda G.d.P. Napoli, 23.3.12; fonte massima redazionale: Osservatorio Mediazione Civile n. 79/2012.  

(IV) Si veda ancora G.d.P. Napoli, 23.3.12; fonte massima redazionale: Osservatorio Mediazione Civile n. 79/2012.  

(V) Si vedano gli artt. 311 c.p.c. e ss. in Codice di procedura civile (fonte: IlProcessoCivile.com). 

(VI) In questi termini si veda G.d.P. Cava dei Tirreni, 21.4.12 in Osservatorio Mediazione Civile n. 91/2012; nel medesimo senso si veda G.d.P. Napoli, 23.3.12 in Osservatorio Mediazione Civile n. 79/2012, che pone in luce come l’art. 311 c.p.c. disponga che il procedimento dinanzi al giudice di pace è regolato dalle norme del titolo secondo del libro secondo e, per ciò che esse non regolano, da quelle sul procedimento dinanzi al tribunale in composizione monocratica ed esige che un diverso regolamento risulti da altre espresse disposizioni.  

(VII) Si vedano ancora veda G.d.P. Cava dei Tirreni, 21.4.12 in Osservatorio Mediazione Civile n. 91/2012 e G.d.P. Napoli, 23.3.12 in Osservatorio Mediazione Civile n. 79/2012.

(VIII) Si veda G.d.P. Cava dei Tirreni, 21.4.12; fonte massima redazionale: Osservatorio Mediazione Civile n. 91/2012.

(IX) Si veda l’art. 185 c.p.c. in Codice di procedura civile (fonte: IlProcessoCivile.com). 

Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 96/2012

8 giugno 2012

91/12. Giudice di Pace, mediazione civile di cui al d.lgs. n. 28/2010, inapplicabilità (Osservatorio Mediazione Civile n. 91/2012)

=> G.d.P. Cava dei Tirreni, 21 aprile 2012

La disciplina della mediazione non si applica alle controversie di competenza del Giudice di Pace: ciò – dato che nel procedimento innanzi al giudice di pace vanno applicate le disposizioni di cui al libro II, titolo II, dall’art. 311 all’art. 322 c.p.c. – in quanto una diversa interpretazione finirebbe per vanificare lo scopo del legislatore diretto proprio a favorire la conciliazione delle controversie di competenza del giudice di pace, che già svolge ex lege la funzione affidata con il D.Lgs. n. 28/10 al mediatore (I) (II).

In particolare:
-         il tentativo obbligatorio di conciliazione per le controversie affidate al Giudice di Pace è già stato previsto dal legislatore all’art. 30 l. n. 374/91, la cui ratio ispiratrice è quella di tendere a deflazionare il contenzioso;
-         secondo l’art. 311 c.p.c.  una norma sul rito può essere applicata al Giudice di Pace solo se essa lo disponga espressamente, altrimenti continuano ad applicarsi le disposizioni di cui al titolo II ed il d.lgs. n. 28/10 non contiene alcun richiamo al processo dinanzi al Giudice di Pace (III);
-         l’art. 320 c.p.c. (relativo alla conciliazione innanzi al Giudice di Pace in sede contenziosa) non è stato abrogato dal d.lgs. n. 28/10: ne consegue che applicare la mediazione per le materie del Giudice di Pace comporterebbe una inutile duplicazione di quanto già assegnato alla competenza del giudice di pace ed un ostacolo alla celerità del processo (IV);
-         il procedimento dinanzi al Giudice di Pace già prevede la conciliazione anche in sede non contenziosa (art. 322 c.p.c.) (V). 



(III) Si veda l’art. 311 c.p.c. in Codice di procedura civile (fonte: IlProcessoCivile.com). 

(IV) Si veda l’art. 320 c.p.c. in Codice di procedura civile (fonte: IlProcessoCivile.com). 

(V) Si veda l’art. 322 c.p.c. in Codice di procedura civile (fonte: IlProcessoCivile.com). 

Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 91/2012

Giudice di Pace
Cava dei Tirreni
21 aprile 2012
Ordinanza

Il Giudice di Pace,

a scioglimento della riserva formulata all’udienza del 14.12.11, relativa all’eccezione, sollevata dalla terza chiamata in causa  in causa  (…) Assicurazioni SpA di improcedibilità della domanda attrice per violazione dell’art. 5 c.1 del D.L. n. 28/22010, che prevede l’obbligatorio preventivo esperimento del procedimento di mediazione, ritiene che l’eccezione della essere respinta.

Secondo il parere di questo giudicante il tentativo obbligatorio di conciliazione per le controversie affidate al Giudice di Pace è già stato previsto dal legislatore all’art. 30 L.n. 374 del 21.11.1991, la cui ratio ispiratrice è quella di tendere a deflazionare il contenzioso. Invero, la norma di cui all’art. 5 del D.Lgs. n. 28/10 non può essere considerata avulsa dal contesto preesistente, ma deve essere applicata all’interno dell’ordinamento giuridico, nel quale si inserisce. Occorre quindi affrontare il rapporto tra il suddetto D.Lgs, il giudizio dinanzi al giudice di pace e l’art. 322 c.p.c. e stabilire quale sia la norma da eliminare o da applicare.

Ebbene, l’art. 311 c.p.c. prevede espressamente che  “il procedimento dinanzi al giudice di pace per tutto ciò che non è regolato nel presente titolo o in altre espresse disposizioni, è retto dalle norme relative al procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica in quanto applicabili”. Tale norma non soltanto si pone in rapporto di specialità rispetto al procedimento dinanzi al Tribunale ma dispone in via diretta che il procedimento dinanzi al giudice di pace è regolato dalle norme del titolo secondo del libro secondo e, per ciò che esso è regolano, da quelle innanzi al Tribunale in composizione monocratica (di cui al capo terzo del titolo primo di detto libro), ed esige che un diverso regolamento risulti da altre espresse   disposizioni. Ne discende che una norma sul rito può essere applicata al Giudice di Pace solo se essa lo disponga espressamente, altrimenti continuano ad applicarsi le disposizioni di cui al predetto titolo II. Ebbene, il D.Lgs. n. 28/10 non contiene alcun richiamo al processo dinanzi al Giudice di Pace.

L’art. 320 c.p.c. stabilisce che  “ nella prima udienza il Giudice di Pace  interroga liberamente le parti e tenta la conciliazione. Se la conciliazione riesce se ne redige processo verbale a norma dell’art. 185 ultimo comma. Se la conciliazione non riesce, il Giudice di Pace invita le parti a precisare definitivamente i fatti che ciascuna pone a fondamento delle domande, difese ed eccezioni, a produrre i documenti e a richiedere i mezzi di prova da assumere”.

L’art.320 c.p.c. non è stato abrogato dal D.Lgs. n. 28/10. Ne consegue che applicare la mediazione per le materie del Giudice di Pace comporterebbe una inutile duplicazione di quanto già assegnato alla competenza del giudice di pace ed un ostacolo alla celerità del processo.

L’art. 322 c.p.c. (conciliazione in sede non contenziosa) stabilisce che “l’istanza per la conciliazione in sede non contenziosa è proposta anche verbalmente al giudice di pace competente per territorio secondo le disposizioni della sezione III, capo I, del libro primo. Il processo verbale di conciliazione in sede non contenziosa costituisce titolo esecutivo  a norma dell’art. 185 ultimo comma, se la controversia rientra nella competenza del giudice di pace . Negli altri casi il processo verbale ha valore di scrittura privata riconosciuta in giudizio”. Quindi,  il procedimento dinanzi al Giudice di Pace già prevede sia la conciliazione in sede non contenziosa in virtù dell’art. 320 c. 1. c.p.c. che in sede non contenziosa (non prevista dinanzi al Tribunale).
Ai sensi dell’art. 322 c.p.c., e tale istituto preesiste al D.Lgs. n. 28/10. Invero, il D.Lgs. n. 28/10 non contiene alcun richiamo al giudice di pace né dispone espressamente l’abrogazione degli art. 320 e 322 c.p.c. Ne deriva che nel procedimento innanzi al giudice di pace vanno applicate le disposizioni di cui al libro II, titolo II, dall’art. 311 all’art. 322 c.p.c.  Una diversa interpretazione  oltre ad essere paradossale sarebbe in evidente contrasto con il delineato quadro sistemico e finirebbe per vanificare lo scopo del legislatore diretto proprio a favorire la conciliazione delle controversie di competenza del giudice di pace, che già svolge ex lege la funzione affidata con il D.Lgs. n. 28/10 al Mediatore.

P.Q.M.

Rimette le parti dinanzi a se per il tentativo di conciliazione ai sensi dell’art. 320 c.p.c., invitando le parti medesime a conciliare le rispettive pretese, rinviando per la formalizzazione dell’accordo conciliativo all’udienza del --.06.2012.

Cava dei Tirreni

Marcella Pellegrino

AVVISO. Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità.

8 maggio 2012

81/12. Incompatibilità assoluta tra giudice di pace e mediatore (Osservatorio Mediazione Civile n. 81/2012)

=> CSM, 18 gennaio 2012

L’attività di mediatore professionista di cui al D.Lgs. 28/2010 non è compatibile con le funzioni di giudice di pace anche se svolte in ambiti territoriali di circondari di tribunali diversi da quelli nel quale sono esercitate le funzioni onorarie. (1) (2) (3)

Il giudice di pace, già istituzionalmente deputato ad espletare l’attività conciliativa stragiudiziale, non può rendere il medesimo servizio partecipando ad uno degli organismi di conciliazione previsti dall’art. 16 D.Lgs. 28/2010. Se ciò avvenisse, infatti, si avrebbe una sovrapposizione di ruoli per l’espletamento della medesima funzione di conciliatore, così non solo vanificando la stessa disposizione normativa di cui all’art. 322 c.p.c., ma anche appannando la stessa immagine di imparzialità ed indipendenza di cui all’art. 5, III comma, L. 374/1991. Al giudice di pace sarebbe consentito di svolgere la medesima attività in ambito “pubblico” e, al contempo, in ambito “privato, peraltro percependo specifici compensi, corrisposti dalle parti secondo le tariffe stabilite per la conciliazione stragiudiziale. (4)

Una eventuale limitazione territoriale della incompatibilità non avrebbe senso, tenendo a mente l’assenza di un criterio di collegamento territoriale tra sede dell’organismo di conciliazione e l’autorità giudiziaria. L’incompatibilità assoluta appare essere del tutto coerente in relazione alla funzione svolta dalla conciliazione stragiudiziale nonché al rispetto dell’art. 5, comma 3, della legge 374/1991.


(2) Circa l’incompatibilità tra l’incarico di conciliatore, previa iscrizione negli elenchi predisposti presso la C.C.I.A.A., e le funzioni di giudice di pace si veda Consiglio Superiore della Magistratura, parere n. 655 del 22 dicembre 2009 (conclusione confrontata, con la delibera in analisi del 18 gennaio 2012, con riferimento alla mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali di cui al d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28.

(3) È questo, in estrema sintesi, quanto riportato dalla delibera del 18 gennaio 2012 del Consiglio Superiore della Magistratura. La delibera – riportata anche in CSM, ufficio Studi e Documentazione, La riforma dell’ordinamento giudiziario. Prime delibere di attuazione (Raccolta aggiornata al 29 febbraio 2012) – è stata fornita in risposta ad un quesito posto da un Giudice di Pace al CSM con nota in data 13 giugno 2011.

(4) Alla luce infatti della previsione dell’art. 322 c.p.c. – che disciplina l’attività conciliativa che il giudice di pace è chiamato a svolgere in via autonoma, al di fuori del giudizio ed indipendentemente da esso, con l’evidente proponimento di evitarlo – la conciliazione in sede non contenziosa del giudice di pace si pone tra le forme alternative di risoluzione delle controversie, intese come metodi di soluzione della lite. Si veda l’artt. 322 c.p.c. in Codice di procedura civile (fonte: IlProcessoCivile.com). 

Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 81/2012

Consiglio Superiore della Magistratura
18 gennaio 2012
Delibera

Incompatibilità tra l'esercizio delle funzioni di giudice di pace e l'attività di mediatore.
(Risposta a quesito del 18 gennaio 2012)

Il Consiglio superiore della magistratura, nella seduta del 18 gennaio 2012, ha adottato la
seguente delibera:

"Il Consiglio,
- letta la nota in data 13 giugno 2011 con la quale la dott.ssa …, giudice di pace nella sede di … (circondario di …), chiede di conoscere se l’attività in via esclusiva di mediatore presso l’Organismo forense dell’Ordine degli Avvocati di … possa essere compatibile con l’attività di giudice di pace presso la sede di …, ricadente nel circondario di …;
- considerato che, stante la particolarità della materia, si è ritenuto opportuno chiedere un parere all’Ufficio Studi di questo Consiglio, che vi ha provveduto in data 3 agosto 2011;
- ritenuto di condividere il contenuto e le conclusioni del suddetto parere, nel senso che l’attività di mediatore professionista di cui al D.Lgs. 28/2010 non sia compatibile con le funzioni di giudice di pace;
- osserva quanto segue.

1. L’Ufficio studi di questo Consiglio ha già reso un articolato parere (n. 655 del 22 dicembre 2009) circa la compatibilità delle funzioni di giudice di pace con l’attività di conciliatore previa iscrizione negli elenchi predisposti presso la C.C.I.A.A.; in quella sede, dopo aver operato una ricognizione delle norme di riferimento, si è pervenuti alla conclusione che l’incarico di conciliatore, previa iscrizione negli elenchi predisposti presso la C.C.I.A.A., non fosse compatibile con le funzioni di giudice di pace.
La conclusione va oggi confrontata con la disciplina di attuazione dell’art. 60 della legge n. 69 del 18 giugno 2009, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, approvata con il D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28.

… omissis…

2. - Occorre verificare se l’attività di mediatore, come descritta dal D.Lgs. n. 28/2010 (e dal D.M. 18 ottobre 2010 n. 180), sia o meno potenzialmente incompatibile con l’ufficio di giudice di pace.
In generale deve ricordarsi che le incompatibilità dei giudici di pace sono disciplinate dall'art. 8 della legge 21 novembre 1991 n. 374 (come modificata dalle leggi successive) e dalle circolari consiliari (quella attualmente in vigore è la n. P-15880/2002 del 1° agosto 2002, Nuove modalità di nomina e conferma dei giudici di pace a seguito delle modifiche alla legge istitutiva
introdotte dalla legge 24 novembre 1999, n. 468).
Il primo comma della disposizione di legge prevede le ipotesi di incompatibilità assoluta, che sono poste a presidio dell'indipendenza del magistrato onorario ed il cui scopo è quello di evitare ogni potenziale conflitto di interessi nell’attività del giudice di pace: la presenza di una di queste cause di incompatibilità impedisce la nomina dell’aspirante ed il sopravvenire di una di esse comporta la decadenza dall'incarico onorario.
Vengono in rilievo, in primo luogo, alcune cariche pubbliche, anche elettive (i membri del Parlamento, i consiglieri regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali, i componenti dei comitati di controllo sugli atti degli enti locali e delle loro sezioni) o confessionali (gli ecclesiastici e i ministri di qualunque confessione religiosa); il ricoprire o aver ricoperto nei tre anni precedenti alla nomina incarichi direttivi o esecutivi nei partiti politici; lo svolgimento di attività professionale per imprese di assicurazione o banche.
Ai commi 1 bis ed 1 ter, l’art. 8 della legge 371/1994 disciplina le incompatibilità con l'esercizio della professione di avvocato del giudice di pace.
In dottrina si è posto il problema se il sistema di incompatibilità di funzioni previsto dalla legge 371/1994 per il giudice di pace debba essere considerato esaustivo, e quindi chiuso e compiuto, oppure se esso possa essere integrato dalle norme previste per i magistrati professionali, comunque più complete.
In proposito il Consiglio superiore, fin dalla circolare del 20 settembre 1995, ha ritenuto che “pur essendo i giudici di pace appartenenti all’ordine giudiziario” le ulteriori forme di incompatibilità previste dalle norme di ordinamento giudiziario non siano loro estensibili, giacché per i magistrati onorari in oggetto “le specifiche cause di incompatibilità sono tipizzate dalla legge n. 374 del 1991”.
Il sistema delle incompatibilità disciplinato dalla legge del 1991 è stato considerato, quindi, un sistema chiuso, che non permette di applicare per analogia le norme di ordinamento giudiziario e della legge delle guarentigie: il ricorso all’analogia è impedito dalla natura eccezionale delle norme in questione, in quanto limitative di un generale diritto di accesso agli uffici pubblici, garantito nella Costituzione dall’art. 51. Pertanto l’ampliamento delle cause di incompatibilità, mediante l’applicazione analogica di quelle previste per i magistrati professionali, realizzerebbe un’illegittima introduzione di limiti all’accesso all’ufficio pubblico (o alla permanenza in esso) non voluti dalla legge, che nella sostanza comporterebbero la riduzione del diritto costituzionalmente garantito.
Pur tuttavia, la normativa primaria è stata integrata dalla circolare n. P 15880/2002 del 1° agosto 2002 e successive modifiche, approvata con delibera del 30 luglio 2002, recante Nuove
modalità di nomina e conferma dei giudici di pace a seguito delle modifiche alla legge istitutiva
introdotte dalla legge 24 novembre 1999, n. 468.
Tale circolare ha specificato, praeter legem, che l'assunzione dell'incarico di giudice di pace è incompatibile, oltre che con le attività enucleate dalla legge, con l'esercizio di qualsiasi altro ufficio giudiziario onorario e con le funzioni di difensore civico; ciò consente di ritenere che, oltre alle cause di incompatibilità espressamente previste dalla legge, ve ne sono altre la cui ratio è da individuare nella assoluta inconciliabilità con l’attività svolta dal magistrato onorario.
Con riferimento in generale alle attività extragiudiziarie, la circolare P 15880/2002 ha ribadito l’inapplicabilità ai giudici di pace dell’art. 16 O.G., giacché la norma presuppone un rapporto professionale che nella specie manca, salvo il rispetto dell’art. 5, comma 3, della legge 21 novembre 1991, n. 374.
In particolare al capo IV, par. 1, primi tre commi, si legge: “1. – Il regime delle incompatibilità del giudice di pace contenuto nella legge istitutiva – legge 21 novembre 1991, n. 374 – è stato profondamente innovato dalle previsioni della legge 24 novembre 1999, n. 468, con l’aggiunta di nuove situazioni di incompatibilità, alcune riguardanti soltanto i giudici di pace che siano iscritti nell’albo degli avvocati. 2. – Preliminarmente si osserva che ai giudici di pace non è applicabile, quanto alle autorizzazioni, la disciplina prevista dall’art. 16 dell’Ordinamento giudiziario, per assenza di una espressa previsione in tal senso, sicché costoro possono espletare incarichi extragiudiziari senza necessità di previa autorizzazione da parte del Consiglio superiore della magistratura. Spetta, comunque, ad esso verificare la permanenza in concreto, in capo al giudice di pace, dei requisiti di indipendenza e terzietà, previsti dall’art. 5, comma 3, della legge 21 novembre 1991, n. 374, per l’ipotesi in cui il giudice di pace assuma incarichi extragiudiziari che, per la loro natura o le relative modalità di espletamento, possano porre in pericolo i menzionati caratteri della giurisdizione. I giudici di pace sono, pertanto, tenuti a dare comunicazione degli incarichi extragiudiziari svolti, al fine di consentire al Consiglio, nell’ambito dei suoi poteri di sorveglianza, una diretta cognizione delle attività espletate. 3. – L’art. 5, lett. h), della legge 21 novembre 1991, n. 374, prevede come requisito per la nomina, aver cessato, o impegnarsi a cessare, prima dell’assunzione delle funzioni di giudice di pace, l’esercizio di qualsiasi attività lavorativa dipendente pubblica o privata: tale previsione normativa comprende tutte le forme di lavoro subordinato e va riferito, quindi, anche ai rapporti di lavoro a tempo determinato ed a tempo parziale. Il sistema di incompatibilità non si estende, viceversa, all’attività lavorativa autonoma (quale ad esempio l’attività commerciale o quella esercitata in campo professionale diverso da quello forense). Tuttavia l’espletamento di singole attività a carattere autonomo deve essere valutato dal Consiglio superiore della magistratura ai fini dell’accertamento dell’esistenza del requisito generale della capacità di assolvere degnamente le funzioni di giudice di pace.”.
In base alla normativa primaria e secondaria, il giudice di pace può svolgere incarichi ed attività extragiudiziarie senza necessità di autorizzazione da parte del C.S.M., salva la verifica della loro compatibilità, per natura e modalità di espletamento, con i requisiti di indipendenza e terzietà; il magistrato onorario, pertanto, è tenuto a comunicare al C.S.M. gli incarichi e le attività extragiudiziarie eventualmente svolte, allo scopo di permettere e di accertare se esse possano pregiudicare il requisito dell’art. 5, comma III, L. 374/1991, vale a dire la capacità di assolvere degnamente, per indipendenza, equilibrio e prestigio acquisito e per esperienza giuridica e culturale, le funzioni di magistrato onorario.

3. - Applicando i principi esposti al caso in esame, si deve confermare l’opzione interpretativa adottata dall’Ufficio Studi di questo Consiglio con il parere n. 493 del 17 novembre 2008, con riferimento all’attività di conciliatore previa iscrizione negli elenchi predisposti presso la C.C.I.A.A., e ritenere che l’esercizio delle funzioni di mediatore professionista previsto dal D.Lgs. n. 28/10 non sia compatibile con le funzioni di giudice di pace.
Pur non essendo stata riproposta la disposizione dell’art. 7 del decreto ministeriale 23 luglio 2004 n. 222 contenente il “Regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione nonché di tenuta del registro degli organismi di conciliazione di cui all’art. 38 del D.Lgs. 17 gennaio 2003, n.5”, che espressamente vietava ai giudici di pace di svolgere la conciliazione in forme e modi diversi da quelli stabiliti dall’art. 322 del codice di procedura civile (12), la disciplina positiva sopra descritta induce a ritenere inconciliabile l’attività di mediatore professionista con le funzioni e la posizione ordinamentale del giudice di pace.
In primo luogo va considerata la previsione dell’art. 322 cod. proc. civ., che disciplina l’attività conciliativa che il giudice di pace è chiamato a svolgere in via autonoma, al di fuori del
giudizio ed indipendentemente da esso, con l’evidente proponimento di evitarlo.
La conciliazione in sede non contenziosa del giudice di pace si pone tra le forme alternative di risoluzione delle controversie, intese come metodi di soluzione della lite, basati sul libero ed autonomo accordo delle parti con esclusione, pertanto, dei diritti indisponibili; laddove abbia esito positivo, essa porta alla redazione di un processo verbale di accordo, che costituisce titolo esecutivo suscettibile di esecuzione forzata, sempre che la vertenza rientri nella competenza del giudice di pace; ove tale competenza non sussista, il verbale di conciliazione degrada a mera scrittura privata riconosciuta. La distinzione appare, peraltro, oggi superata, atteso che il nuovo testo dell’art. 474, II comma n.3, cod. proc. civ. contempla fra i titoli esecutivi gli atti ricevuti da un pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli, relativamente alle obbligazioni di denaro in essi contenute.
Appare dunque evidente che il giudice di pace, già istituzionalmente deputato ad espletare l’attività conciliativa stragiudiziale, non può rendere il medesimo servizio partecipando ad uno degli organismi di conciliazione previsti dall’art. 16 D.Lgs. 28/2010. Se ciò avvenisse, infatti, si avrebbe una sovrapposizione di ruoli per l’espletamento della medesima funzione di conciliatore, così non solo vanificando la stessa disposizione normativa di cui all’art. 322 cod. proc. civ., ma anche appannando la stessa immagine di imparzialità ed indipendenza di cui all’art. 5, III comma, L. 374/1991. Al giudice di pace sarebbe consentito di svolgere la medesima attività in ambito “pubblico” e, al contempo, in ambito “privato”, peraltro percependo specifici compensi, corrisposti dalle parti secondo le tariffe stabilite per la conciliazione stragiudiziale.
A ciò si aggiunga che tutto ciò potrebbe avvenire anche nel medesimo contesto territoriale in cui il giudice di pace esercita le funzioni giurisdizionali e con riferimento alla stragrande maggioranza dei procedimenti di sua competenza, considerato l’inserimento, tra le ipotesi di conciliazione obbligatoria, delle controversie giudiziarie in materia di condominio, diritti reali e di risarcimento dei danni derivanti dalla circolazione dei veicoli e dei natanti. Inoltre una eventuale limitazione territoriale della incompatibilità non avrebbe senso, tenendo a mente l’assenza di un criterio di collegamento territoriale tra sede dell’organismo di conciliazione e l’autorità giudiziaria.
L’incompatibilità assoluta appare essere del tutto coerente in relazione alla funzione svolta dalla conciliazione stragiudiziale - di cui si è detto in apertura – nonché al rispetto dell’art. 5, comma 3, della legge 374/1991. Invero la capacità di assolvere degnamente, per indipendenza, equilibrio e prestigio acquisito, le funzioni di magistrato onorario potrebbe essere, quanto meno sotto forma di immagine, pregiudicata dal contestuale esercizio nel medesimo contesto territoriale dell’incarico di conciliatore presso gli organismi a tanto deputati.

…omissis…

Per tutto quanto sopra esposto, il Consiglio delibera di rispondere che l’attività di mediatore professionista di cui al D.Lgs. 28/2010 non è compatibile con le funzioni di giudice di pace anche se svolte in ambiti territoriali di circondari di tribunale diversi da quelli nel quale sono esercitate le funzioni onorarie”.

AVVISO. Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità.

2 maggio 2012

79/12. La mediazione obbligatoria non si applica ai procedimenti innanzi al Giudice di Pace (Osservatorio Mediazione Civile n. 79/2012)

=> Giudice di Pace di Napoli 23 marzo 2012

Il d.lgs. 28/10 (1) non contiene alcun richiamo al giudice di Pace né dispone espressamente l'abrogazione degli art. 320 e art. 322 c.p.c. Dato che una norma sul rito può essere applicata al Giudice di Pace solo se essa lo disponga espressamente, nel procedimento dinanzi al giudice di Pace vanno applicate le disposizioni di cui al libro II, titolo II, dall'art. 311 al 322 c.p.c. e non il d.lgs. n. 28/10 (2). Infatti:

-         una nuova norma va applicata ed interpretata all'interno dell'ordinamento giuridico nel quale si inserisce e secondo il criterio di specialità va considerato il brocardo “lex posterior generalis non derogat priori speciali, criterio che limita l'applicazione di quello cronologico poiché nel caso della norma speciale il rapporto contenutistico prevale sulla dimensione temporale;

-         l’art. 311 c.p.c. dispone che il procedimento dinanzi al giudice di pace è regolato dalle norme del titolo secondo del libro secondo e, per ciò che esse non regolano, da quelle sul procedimento dinanzi al tribunale in composizione monocratica ed esige che un diverso regolamento risulti da altre espresse disposizioni (3);

-         l'intento deflattivo che si è proposto il legislatore è stato assecondato proprio dall'istituto del giudice di pace (4).


(2) Si vedano gli artt. 311 c.p.c. e ss. in Codice di procedura civile (fonte: IlProcessoCivile.com). 

(3) Come già puntualmente evidenziato dalla Suprema Corte, l’art. 311 c.p.c. non soltanto si pone in rapporto di specialità rispetto al procedimento dinanzi al Tribunale, ma si configura come "metanorma" in quanto indica il modo di legiferare in ordine al rito processuale applicabile dinanzi al giudice cui si riferisce. Si veda al riguardo Cass. n. 21416 del 2008 (L’art. 311 c.p.c. il quale prevede espressamente che “il procedimento dinanzi al giudice di pace per tutto ciò che non è regolato nel presente titolo o in altre espresse disposizioni, è retto dalle norme relative al procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica in quanto applicabili”).

(4) Il procedimento dinanzi al Giudice di Pace già prevede sia la conciliazione in sede contenziosa (art. 320 comma 1) e in sede non contenziosa (art. 322 c.p.c.), istituto preesiste al d.lgs. 28/2010.

Rientra in quelle previste dall'art 5 comma 1 del d.lgs. 28/10 la domanda con la quale, in seguito alla stipula di polizza assicurativa relativa alla copertura rca del veicolo, si lamenti l’ingiustificato passaggio si classe disposto dalla compagnia assicuratrice in virtù di un sinistro e si richieda il ripristino della classe di merito e la ripetizione delle somme ingiustificatamente versate nonché al risarcimento danni.

Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 79/2012

Giudice di Pace di Napoli
Sezione II
23 marzo 2012
Sentenza


…omissis…

Con atto di citazione, ritualmente notificato, l'istante, il quale aveva stipulato con la convenuta polizza n.....relativa alla copertura rea del veicolo ----, lamentava l’ingiustificato passaggio dalla 3° alla 4° classe disposto dalla convenuta in virtù di un sinistro che sarebbe avvenuto nel 2010. Tanto essenzialmente premesso chiedeva la condanna della ---- al ripristino della classe di merito ed alla ripetizione delle somme ingiustificatamente versate nonché al risarcimento danni.

Radicatosi il contraddittorio, si costituiva la convenuta che impugnava la domanda chiedendone il rigetto preliminarmente eccependo improcedibilità della domanda per mancato esperimento della media-conciliazione nonché incompetenza per valore, indi disposto decidersi le eccezioni preliminari unitamente al merito della controversia ex art. 187 c.p.c. - 321 c.p.c., precisate le conclusioni di cui in epigrafe, all'udienza del 12/03/12, la causa veniva riservata a sentenza.

Motivi della decisione.

Va preliminarmente esaminata la questione della applicabilità al presene giudizio della media-conciliazione.

Invero, non vi è dubbio che la materia trattata rientri in quelle previste dall'art 5 comma 1 del d.lgs. 28/10 tuttavia, va osservato che una nuova norma non può essere considerata avulsa dal contesto preesistente ma va applicata ed interpretata all'interno dell'ordinamento giuridico nel quale si inserisce. Nel caso specifico va affrontato il rapporto tra il predetto d.lgs. il giudizio dinanzi al giudice di pace e l'art. 322 c.p.c.. Ebbene per risolvere eventuali antinomie l'ordinamento giuridico deve avere una propria coerenza sistemica con la conseguenza che il giudice, secondo criteri logici o positivamente presenti, deve stabilire quale sia la norma da eliminare o da applicare al caso concreto. Come è noto i criteri di risoluzione delle antinomie, sono quattro quello cronologico (lex posterior derogat priori), quello della specialità (lex specialis derogat generali), quello gerarchico (lex superior derogat inferiori), ed, infine, quello della competenza. In particolare secondo il criterio di specialità va considerato il brocardo “lex posterior generalis non derogat priori speciali”. Detto criterio, anche questo avente natura logico teoretica, limita l'applicazione di quello cronologico, poiché nel caso della norma speciale il rapporto contenutistico prevale sulla dimensione temporale.

In questo quadro va contestualizzato l’art. 311 c.p.c. il quale prevede espressamente che “il procedimento dinanzi al giudice di pace per tutto ciò che non è regolato nel presente titolo o in altre espresse disposizioni, è retto dalle norme relative al procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica in quanto applicabili”.

Ebbene, la predetta disposizione, come già puntualmente evidenziato dalla Suprema Corte con ord. n. 21416/08, non soltanto si pone in rapporto di specialità rispetto al procedimento dinanzi al Tribunale, ma si configura. come "metanorma" in quanto indica il modo di legiferare in ordine al rito processuale applicabile dinanzi al giudice cui si riferisce. In particolare, la norma dispone in via diretta che il procedimento dinanzi al giudice di pace è regolato dalle norme del titolo secondo del libro secondo e, per ciò che esse non regolano, da quelle sul procedimento dinanzi al tribunale in composizione monocratica (di cui al capo terzo del titolo primo di detto libro), ed esige che un diverso regolamento risulti da altre espresse disposizioni. Ne discende che una norma sul rito può essere applicata al Giudice di Pace solo se essa lo disponga espressamente, altrimenti continuano ad applicarsi le disposizioni di cui al predetto titolo II. Va, altresì, osservato che il procedimento dinanzi al Giudice di Pace già prevede sia la conciliazione in sede contenziosa in virtù dell'art. 320 comma 1 che e in sede non contenziosa (non prevista invece dinanzi al Tribunale) ai sensi dell'art. 322 c.p.c. e tale istituto preesiste al d.lgs. 28/2010, de quo vertitur, essendo stato introdotto sin dall'istituzione del giudice di Pace (L. 374/91). Il predetto art. 322 c.p.c. detta al primo comma le modalità di presentazione della istanza, la quale può essere proposta anche verbalmente al giudice di Pace competente per territorio secondo le disposizioni della sezione III, capo I, titolo I, libro I mentre al comma 2 precisa che il processo verbale di conciliazione non contenziosa costituisce titolo esecutivo, a norma dell'art. 185, ultimo comma, se la controversia rientra nella competenza del giudice di Pace. Dunque il d.lgs. 28/10 non contiene alcun richiamo al giudice di Pace né dispone espressamente l'abrogazione degli art. 320 e art. 322 c.p.c. Ne deriva che in conformità a quanto affermato dalla Suprema Corte, nel procedimento dinanzi al giudice di Pace vanno applicate le disposizioni di cui al libro II, titolo II, dall'art. 311 al 322 c.p.c. Una diversa interpretazione non solo sarebbe in contrasto con il delineato quadro sistemico ma si rivelerebbe manifestamente illogica. Ed invero l'intento deflattivo che si è proposto il legislatore è stato assecondato proprio dall'istituto del giudice di pace, che è nato (nomen omen) con lo scopo di favorire la conciliazione delle controversie che può avvenire nella fase giudiziale ex art. 320 c.p.c. ovvero in quella stragiudiziale azionabile ex art. 322 c.p.c. e pertanto sarebbe paradossale escludere dal processo conciliativo un istituto che e nato precipuamente per lo svolgimento di tale finalità. Sotto altro profilo va, in ogni caso, rilevato che il mancato esperimento o conclusione della mediazione , laddove applicabile, non comporta l'improcedibilità della domanda ma ai sensi dell'art. 5 d.lgs. 28/10 l'assegnazione da parte del Giudice di 15 giorni per la proposizione della istanza con la fissazione di una successiva udienza dopo la scadenza del termine e previsto dall'art. 6 del citato d.lgs.

Va, altresì, rigettata l'eccezione di incompetenza per valore tenuto conto che, anche senza la formulazione della clausola di contenimento, il cumulo delle domande non supera la somma prevista dall'art. 7 comma 1 c.p.c. La legittimazione delle parti, intesa come titolarità del rapporto controverso, a differenza della legitimatio ad causam, si configura come una questione che attiene al merito della lite e rientra nel potere dispositivo e nell'onere deduttivo e probatorio della parte interessata (ex multis Cass. n. 21192/06, Cass. n. 4796/06, trib. Napoli XI del 28/02/06). Nel caso di specie, non solo non è stata contestata e quindi non può essere rilevata di ufficio, ma è, stata documentata dall'attestato di rischio versato in atti.

Nel merito la domanda è fondala e va accolta.

Invero l'art 5 comma 2 D.L. n.7 del 31/01/01 (cd. decreto Bersani Bis ) convertito in legge n. 40 del 02/04/07, aggiungendo all'art. 134 i commi 4 ter e quater ha espressamente previsto al predetto comma 4 ter: "Conseguentemente al verificarsi di un sinistro, le imprese di assicurazione non possono applicare alcuna variazione di classe di merito prima di aver accertato l'effettiva responsabilità del contraente, che è individuata nel responsabile principale del sinistro, secondo la liquidazione effettuata in relazione al danno e fatto salvo un diverso accertamento in sede giudiziale. Ove non sia possibile accertare la responsabilità principale, (ovvero, in via provvisoria, salvo conguaglio, in caso di liquidazione parziale,) la responsabilità si computa prò quota in relazione al numero dei conducenti coinvolti, ai fini della eventuale variazione di classe a seguito di più sinistri" ed al successivo comma 4 - quater: "E' fatto comunque obbligo alle imprese di assicurazione di comunicare tempestivamente al contraente le variazioni peggiorative apportate alla classe di merito.". Nel caso di specie a fronte di quanto lamentato dall'attore il quale ha documentato il declassamento versando in atti l'attestato di rischio, l'onere della prova incombeva sulla impresa assicurativa. Di contro l'assicuratore non ha documentato di aver interpellato l'istante, posto che per esplicita statuizione normativa sull'assicuratore ricade l'onere, prima di liquidare il danno, di accertare la responsabilità dell'incidente ne di avergli comunicato, in violazione dell'art. 1917 ce, la volontà di voler pagare al danneggiato l'indennità dovuta; infine, in violazione a quanto previsto dal citato art. 4 ter non ha dato prova di aver tempestivamente avvisato l'assicurato della variazione della classe di merito. Va, pertanto, dichiarata l'illegittimità del declassamento con la condanna della impresa assicurativa ad assegnare all'attrice la 2° classe. Per quanto concerne la ripetizione delle somme indebitamente percepite va osservato che l'istante non ha versato in atti le relative polizze e quindi non e possibile quantificare l'importo indebitamente pagato. In ogni caso, ritenuta l'esistenza ontologica del danno, stante la difficoltà di provarlo nel suo preciso ammontare, si procede alla liquidazione in via equitativa ai sensi degli artt. 1226 e 2056 cod. civ., espressione del più generale potere di cui all'art. 115 cod. proc. civ.

Ed invero è pacifico in giurisprudenza che l'esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 cod. civ., presuppone che sia provata l'esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare (ex plurimis Cass. 22447/11, 10607/10) e pertanto la convenuta va condannata al pagamento di curo 300,00 oltre interessi dalla domanda. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidale come da dispositivo.

P.Q.M.

pronunciando definitivamente sulla causa promossa come in narrativa, disattesa ogni contraria istanza ed eccezione, cosi provvede:

- accoglie la domanda principale e condanna l'impresa assicurativa convenuta ad assegnare alla società istante la 2° classe di merito nonché la condanna al pagamento in favore della predetta attrice della somma di euro 300,00, oltre interessi;

- condanna, infine, la convenuta al pagamento in favore dell'avv. Ax Bxx. distrattario, delle spese di lite che liquida, di ufficio in assenza di nota spese, in euro 40,00 per spese, euro 300,00 per diritti ed euro 190,00 per onorario di avvocato, oltre rimborso spese forfettarie, cpa, iva.

Napoli, li 23/03/12

Il Giudice di Pace Avv. Felice A. D'Onofrio

AVVISO. Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità.

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