Il rapporto tra
conciliazione giudiziale e mediazione demandata
di Elisabetta VITONE e Stefano ZACCARO
(estratto da E. VITONE – S. ZACCARO, Il nuovo procedimento davanti al Giudice di pace, Centro Studi
Diritto Avanzato – DuePuntoZero, 2023)
(www.osservatoriomediazionecivile.blogspot.com)
È opportuno fare un cenno, infine, ai rapporti tra la conciliazione giudiziale e la mediazione demandata, che, come evidenziato in dottrina", rappresentano i due modelli fondamentali a disposizione del giudice per orientare la controversia verso una risoluzione amichevole. Al riguardo si è osservato che l'aspetto più interessante «è probabilmente quello riguardante la posizione del giudice che, in possesso di ogni elemento utile a ritenere ormai matura la controversia (non per essere decisa, bensì) per essere avviata su un percorso conciliativo o comunque, collaborativo, si trovi di fronte alla alternativa se intraprendere tale percorso facendo ricorso a uno strumento (la mediazione delegata) oppure ad un altro (la conciliazione giudiziale)». Il problema della scelta si pone perché - come pure rilevato - si tratta di figure coincidenti non soltanto sul piano del risultato perseguito, ma anche in relazione ai presupposti applicativi che, pur essendo solo in parte comuni, non ne impediscono la sovrapposizione. Sicché, il legislatore della riforma avrebbe potuto cogliere l'occasione per individuare con maggiore chiarezza i rispettivi parametri di riferimento, avvalendosi anche dell'esperienza maturata nell'ambito dei progetti sperimentali realizzati, negli ultimi anni, in materia di mediazione e conciliazione. Per delineare i confini tra i due modelli, inoltre, si sarebbero potute valorizzare le specifiche caratteristiche di ciascuna figura. In particolare, nella conciliazione giudiziale il giudice può cercare di stimolare un atteggiamento collaborativo dei litiganti attraverso una prospettazione realistica e ragionata dei fattori di aleatorietà del giudizio. In base all'esperienza maturata in relazione a controversie analoghe e alle risposte fornite in sede di interrogatorio libero, poi, può valutare gli interessi delle parti e provare ad utilizzare questi elementi per dirigere la controversia verso una soluzione alternativa alla decisione che, in alcuni casi, potrebbe individuare lui stesso attraverso la formulazione di una proposta. L'attività conciliativa del giudice, però, incontra i limiti imposti dalla sede processuale in cui è svolta. Il più importante, probabilmente, è rappresentato dall'impossibilità di applicare il principio di riservatezza, che consente invece al mediatore di sondare in profondità i reali interessi e bisogni delle parti, anche attraverso il meccanismo delle sessioni separate.
Prescindendo dai presupposti applicativi e dalle peculiarità di ciascun
modello il legislatore della riforma, invece, attraverso la reintroduzione del
tentativo obbligatorio di conciliazione sembrerebbe aver espresso una generale
preferenza, quantomeno in prima battuta, per questa figura che, a differenza
della mediazione demandata, attribuisce al giudice un ruolo attivo durante
tutto il percorso conciliativo, fino alla eventuale formulazione della proposta
di cui all'art. 185 bis. Il magistrato, però, dopo aver tentato la
conciliazione e anche quando si sia fatto lui stesso promotore di una soluzione
consensuale, potrebbe ritenere che le caratteristiche della lite siano tali da
giustificare l'intervento del mediatore il quale, non essendo imbrigliato dalle
regole del processo, è dotato di strumenti che potrebbero consentirgli di
svolgere un'attività conciliativa più proficua in relazione allo specifico caso
considerato. A tal proposito non si può non considerare, inoltre, che l'accesso
al procedimento di mediazione non soltanto consentirebbe alle parti di
avvalersi dell'ausilio di questa figura professionale per addivenire ad una
composizione il più possibile soddisfacente per entrambe, ma condurrebbe anche,
in caso di esito positivo, alla conclusione di un accordo che, a ben vedere,
presenta una serie di vantaggi sia rispetto all'accordo stragiudiziale
stipulato dalle parti autonomamente, sia rispetto alla conciliazione
giudiziale. L'accordo conclusivo della mediazione, infatti, a differenza di
quello negoziale, in presenza delle condizioni previste dall'art. 12 d.leg.
28/10 costituisce titolo esecutivo. Riguardo al verbale di conciliazione
giudiziale, invece, questo, pur avendo efficacia esecutiva, rappresenta un
esito piuttosto raro del giudizio, in ragione soprattutto delle conseguenze di
ordine fiscale che potrebbero derivarne. In particolare, mentre il verbale di
conciliazione giudiziale è soggetto all'imposta di registro, l'accordo
raggiunto al termine della mediazione ne è esente, e consente altresì alle
parti di usufruire delle agevolazioni fiscali previste dall'art. 20 d.leg.
28/10. Mette conto rammentare però che il successo della mediazione e, in
generale, degli strumenti autonomi di risoluzione delle controversie riposa,
com'è noto, sulla libertà di autodeterminazione delle parti; tant'è che, in
presenza di velleità conciliative, anche stimolate dall'attività svolta dal
giudice in sede contenziosa, le parti ben potrebbero iniziare di propria
iniziativa il procedimento di mediazione, senza la necessità di un
provvedimento che le costringa ad intraprendere questo percorso. Per questo
motivo, è essenziale che il giudice, dopo aver esperito il tentativo
(obbligatorio) di conciliazione, valuti con ponderazione la sussistenza dei
presupposti per attivare la condizione di procedibilità prevista dall'art. 5
quater d. leg. 28/10. in caso contrario, il ricorso a questo modello
denoterebbe solo un accanimento conciliativo destinato ad allungare inutilmente
la durata del processo, producendo cosi un effetto esattamente contrario
rispetto all'obiettivo di accelerazione dei tempi della giustizia perseguito
dal legislatore della riforma.
Ciò che, invece, lascia non poco perplessi, è la possibilità di
promuovere forme conciliative «ibride», legittimando alcuni modelli che pure
sono stati utilizzati nella prassi.
Queste soluzioni, infatti, incontrano un ostacolo nella diversità
strutturale della conciliazione giudiziale rispetto alla mediazione, per cui la
commistione di attività e funzioni tra giudice e mediatore suscita forti dubbi.
In particolare, non convince l'idea che al giudice possa attribuirsi una funzione di indirizzo dell'attività da svolgere in mediazione attraverso, ad esempio, l'indicazione dei punti «sui quali è opportuno che la discussione sia diretta e concentrata, evidenziando aspetti a favore e contro e dei quali le parti non potranno non tener conto». Questa opera di direzione, infatti, limiterebbe arbitrariamente i poteri del mediatore, il quale, invece, attraverso un dialogo aperto e sincero con le parti, potrebbe andare ben al di là delle questioni emerse in giudizio, esplorando aspetti del contenzioso nuovi, in grado di condurre anche a soluzioni del tutto inaspettate. Si è detto pure che, attraverso l'utilizzo di questo modello misto «si assiste ad un fatto nuovo: il giudice parla al mediatore.
Sempre più spesso, come attestano i provvedimenti dell'ultimo biennio, sono i giudici a scrivere le regole che consentono alla mediazione di funzionare meglio, con un effetto di generale armonizzazione delle condotte degli organismi e dei mediatori che in mancanza risulterebbero troppo cacofoniche». Prescindendo dalle considerazioni in merito all'effetto, prodotto da quest'attività di direzione, di rendere «meno cacofoniche» le condotte di organismi e mediatori, è importante sottolineare, invece, che il presupposto essenziale e imprescindibile perché la mediazione si riveli un efficace strumento di composizione delle liti è l'instaurazione di un dialogo (non tra il mediatore e il giudice, bensì) tra il mediatore e le parti. E rispetto a questo aspetto fondamentale dell'istituto, le interferenze del giudice rischiano di rivelarsi addirittura dannose in quanto le parti, chiamate (rectius: obbligate) a confrontarsi su questioni prestabilite, potrebbero percepire il mediatore non come un terzo imparziale cui affidarsi per essere coadiuvate nel tentativo di costruire insieme il percorso verso una possibile soluzione consensuale, bensì come una sorta di ausiliario del giudice, con la funzione di persuaderle ad addivenire all'accordo seguendo la strada già tracciata dall'organo giurisdizionale.