DIRITTO D'AUTORE


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15 febbraio 2019

8/19. Bressan, Lobaccaro, Pappalardo, PROFESSIONISTI COMPETENTI ED EFFICACI. RICONOSCERE I BIAS NEGOZIALI PER GESTIRLI CON SUCCESSO (Osservatorio Mediazione Civile n. 8/2019)


PROFESSIONISTI COMPETENTI ED EFFICACI
 RICONOSCERE I BIAS NEGOZIALI
PER GESTIRLI CON SUCCESSO

di
Avv. Arianna Chiara Bressan
Avv. Elena Lobaccaro
Dott. Salvatore Pappalardo

La realtà nella quale viviamo, professionale e non, diventa giorno dopo giorno sempre più complessa e fluida, caratterizzata da scenari mutevoli, instabili e imprevedibili. In questo contesto, le competenze del mediatore/negoziatore (quali  osservare senza giudizio, ascoltare attivamente, sentire con empatia o pensare in modo “laterale”) - rappresentano verosimilmente le risorse più adatte alla gestione della complessità ed acquistano un valore sempre maggiore e trasversale.
Lo “spazio della mediazione” (Cosi e Foddai, 2003) sembra essere infatti la dimensione più affine a questa realtà c.d. VUCA[1], in virtù della sua natura mutevole, imprevedibile e costantemente negoziata, propria delle relazioni e dei conflitti[2]. Del resto, la negoziazione scandisce ogni istante della nostra vita: negoziamo in ufficio, a casa con il nostro partner, in fila al supermercato, in metro e, soprattutto, negoziamo con noi stessi a proposito di chi siamo e di quale senso vogliamo dare alla nostra vita.
Sviluppare le competenze del mediatore, acquisendo una maggiore capacità nell’essere flessibili, creativi e orientati all’altro, rappresenta allora un aspetto fondamentale per la propria crescita personale e professionale. Ma come fare a sviluppare queste competenze?
Al di là dei numerosi strumenti offerti dalla letteratura sul tema, riteniamo che l'elemento cruciale da cui partire sia lo sviluppo di auto-consapevolezza, da intendersi qui come capacità di riconoscere oltre alle dinamiche esterne che agiscono in un conflitto, anche quelle interne alle parti e ai mediatori/negoziatori (es. automatismi, stereotipi e distorsioni cognitive), le quali impattano sull’abilità negoziale. Abbiamo esplorato questo tema attraverso dei laboratori progettati e condotti per l'associazione Enne.Zero, dove ci siamo focalizzati sulla dimensione neuro-psicologica del conflitto per osservare ciò che ci accade quando negoziamo, con uno sguardo più consapevole ed esperto.
Riportiamo in questo articolo la nostra esperienza come conduttori e ideatori di due workshop dedicati al riconoscimento delle distorsioni cognitive (i c.d. bias) e alla loro gestione (debiasing); dopo aver introdotto il tema delle distorsioni cognitive che impattano in negoziazione attraverso una overview della letteratura scientifica sul tema, descriviamo cosa è accaduto all’interno dell’aula, per dare maggiore evidenza delle dinamiche interne che agiscono all’interno del processo negoziale.


I BIAS DELLA NEGOZIAZIONE
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1.578.924.889.710.015.781 è pari o dispari? E 345? Che si tratti di numeri a dodici o a tre cifre, siamo sempre in grado di dare una risposta: è sufficiente verificare se sia pari o dispari l'ultima cifra, ovvero ricorriamo ad una “scorciatoia mentale” per semplificare la ricerca di una risposta. Non sempre però queste scorciatoie funzionano. Ad esempio, è più a est Venezia o Palermo? Per quanto controintuitivo, ad essere più a est è proprio il capoluogo siciliano.
In psicologia delle decisioni questo modo di ragionare per “scorciatoie” viene definito ragionamento euristico: esso è economico, intuitivo e rapido, legato alla “pancia” e alle nostre idiosincrasie, alternativo al pensiero logico-razionale, certamente più preciso, ma lento ed energeticamente dispendioso.
Quando ricorriamo al ragionamento euristico (re)agiamo attingendo a un repertorio di schemi interpretativi e comportamentali presenti in memoria o radicati nel profondo del nostro sistema sub-corticale. Ci comportiamo insomma come se disponessimo di un pilota automatico che interviene quando non abbiamo sufficiente tempo, lucidità per riflettere o per semplice abitudine.
Questi automatismi, così come i comportamenti più impulsivi ed istintivi, si sono rivelati risorse davvero preziose per l’evoluzione umana: i nostri antenati non avevano certo il tempo necessario per riflettere se la forma intravista fosse un pericoloso predatore affamato o un cespuglio di bacche; dovevano decidere in fretta, nel modo più soddisfacente e sicuro possibile.
Ancora oggi manteniamo le stesse modalità apprese nel corso dell’evoluzione: che si tratti di investire in borsa, votare un partito politico o esprimersi su questioni più o meno complesse come l'immigrazione o le coppie di fatto, ci facciamo guidare dalle nostre emozioni e dalle nostre sensazioni più di quanto siamo disposti ad ammettere. Prendiamo decisioni secondo un principio di affidabilità: nella stragrande maggior parte dei casi non disponiamo che di una visione parziale del problema e delle possibili soluzioni, per cui ci affidiamo alle nostre sensazioni, ai nostri arbitrari punti di riferimento, a quello che sentiamo in giro o a quello che ci è stato insegnato da bambini.
È una forma di “risparmio energetico”: preferiamo porre attenzione solo agli aspetti per noi salienti, cioè che più ci cattura facendoci isolare il problema dal contesto globale (c.d. pensiero ristretto e c.d. principio di segregazione). Per non pensare troppo accettiamo ogni questione così come ci viene proposta purché sia formulata in termini ragionevoli (c.d. acquiescenza). Ma soprattutto ci innamoriamo delle nostre idee e delle nostre intuizioni iniziali e siamo estremamente riluttanti ad abbandonarle, per paura di rimpiangerle (c.d. regret).
Quando le decisioni che prendiamo si rivelano efficaci o particolarmente salienti il nostro cervello le archivia in memoria e le generalizza, attivando il medesimo comportamento quando incontra stimoli simili a quelli originari. Ecco il motivo per cui un qualsiasi gesto o un tono di voce possono provocare atteggiamenti difensivi e ostili in ragione dei mille litigi precedenti, di pregiudizi infondati o di aspettative arbitrarie, in un infinito rincorrersi di “madeleine” di proustiana memoria, che costantemente evocano in noi ricordi del passato e soluzioni già messe in campo.
Insomma, per quanto ci piaccia considerarci esseri razionali, tendiamo a sottovalutare quanto sia potente e invasivo il pensiero intuitivo e il ruolo che giocano aspettative ed emozioni nelle nostre decisioni. Il rischio è quello di restare chiusi nel nostro vissuto, soggettivo e contingente, incapaci di aprirci con obiettività alla realtà che ci circonda.
Nel conflitto e ancor più in negoziazione[3], la reazione impulsiva e “di pancia” può esacerbare i rapporti, veicolando una visione distorta, monofocale, egoriferita e stereotipata dell’altro, di cui le parti raramente sono consapevoli, limitando le possibilità di giungere ad una soluzione più soddisfacente per entrambe.
Gli effetti distorsori del ragionamento euristico (comportamenti irrazionali o interpretazioni parziali della realtà) sono denominati bias; imparare a riconoscerli quando agiscono sulle nostre scelte è fondamentale per acquisire una competenza efficace in negoziazione. Di seguito riportiamo un breve elenco dei bias in negoziazione, suddividendoli per tipologia: cognitivi, relazionali  e motivazionali.

I BIAS COGNITIVI
I bias cognitivi agiscono sul modo con cui elaboriamo le informazioni. Quando prendiamo una decisione attiviamo sistematiche distorsioni nella percezione del rischio o nella valutazione della stima probabilistica, che impattano sia sui nostri giudizi che nelle nostre relazioni. I bias più noti di questa categoria sono il framing effect e tutti quelli ad esso associati: tra i principali l’ancoraggio, la c.d. disponibilità e l’overconfidence.

FRAMING EFFECT O EFFETTO INCORNICIAMENTO (Kahneman & Tversky, 1979; Neale & Bazerman, 1985; Thompson et al, 2004) | Supponiamo di essere di fronte ad una scommessa a testa o croce: se esce testa vinceremo 100 €, se esce croce ne perderemo 100 €. Le probabilità di vincere o perdere sono uguali; accetteremmo di partecipare? Sebbene la scommessa sia equa, la maggior parte delle persone rifiuta a causa di un meccanismo cognitivo conosciuto come “avversione alle perdite”, ovvero la tendenza a considerare una perdita (economica) in misura maggiore rispetto ad un guadagno della stessa entità. Davanti alla minaccia di una perdita, anche solo potenziale, l’amigdala (la parte più antica del nostro cervello, fondamentale nella gestione delle emozioni ed in particolare della paura) si accende come una lampadina e invia impulsi al cervello per evitare la situazione potenzialmente rischiosa.
In negoziazione il framing effect determina la valutazione soggettiva dei risultati di una trattativa, in termini di guadagni o di perdite. Descrive quindi il comportamento delle parti quando adottano una determinata prospettiva sul problema-negoziale: se le parti incorniciano la propria posizione negativamente (frame iniziale negativo - CAUSA) tendono a valutare gli esiti di un accordo come vantaggiosi (EFFETTO) per cui sviluppano una maggiore propensione al rischio che incentiva la collaborazione, la ricerca di alternative e la creazione di soluzioni originali; viceversa, le parti con un frame iniziale positivo (ovvero che incorniciano la propria posizione iniziale positivamente) attribuiscono agli esiti finali della negoziazione un segno negativo data la loro avversione al rischio, arroccandosi così sulla propria posizione per mantenere lo status quo, poiché qualsiasi accordo rappresenterà, rectius sarà incorniciata come,  una perdita.

ANCORAGGIO (Northcraft e Neale, 1987) |Facciamo molta fatica a modificare il nostro giudizio di partenza: questa euristica della “prima impressione” gioca un ruolo chiave nei conflitti, rendendo difficile de-strutturare le divergenze, dato l’iniziale trincerarsi delle parti su posizioni differenti. L’ancoraggio viene attivato quando, dovendo compiere una valutazione in condizioni di ambiguità, per ridurre l’incertezza ci ripariamo dietro ad un punto di riferimento stabile seppure arbitrario. Nella negoziazione, pur operando aggiustamenti successivi, difficilmente le parti riescono ad emanciparsi dalle loro richieste o stime iniziali. È un bias che esprime tutta la sua potenza quando sono presenti componenti numeriche o economiche.

DISPONIBILITÀ (Northcraft e Neale, 1986) | Nei nostri ragionamenti e nelle nostre decisioni ricorriamo più facilmente a informazioni concrete e tangibili benché irrazionali, rispetto a quelle più astratte o ipotetiche ma più logiche e vantaggiose. Di fronte ad una perdita sicura o ad un potenziale guadagno, siamo tendenzialmente più propensi a decidere in funzione del dato certo rispetto a quello soltanto probabile e ad essere più propensi al rischio quando siamo già in una situazione di perdita. Questo bias spiega perché certi conflitti si protraggono nel tempo: in negoziazione le parti tendono a valutare i vantaggi relativi ad un accordo come possibili e quindi irrilevanti, prediligendo una situazione più “concreta” sebbene meno vantaggiosa come il conflitto in corso, soprattutto quando sono già stati compiuti molti investimenti nella vicenda (cfr. anche lo status quo bias[4]).

I BIAS DELLA PERCEZIONE SOCIALE
I bias sociali sono incentrati sulla percezione della realtà attraverso costrutti interpretativi di natura sociale, come ad esempio gli stereotipi, e vengono distinti in due macro aree: i bias legati alla percezione di Sé e quelli legati alla percezione degli altri. I primi fanno riferimento alle credenze e ai giudizi di un individuo riguardo al proprio comportamento e a quanto esso risulti anomalo per un osservatore esterno; i secondi concernono invece il comportamento altrui e quanto esso risulti deviante per l’osservatore (Thompson et al, 2004). Tra i bias del primo tipo troviamo l'illusione di trasparenza, tra quelli del secondo il fixed pie effect e l’errore fondamentale di attribuzione.

FIXED PIE EFFECT (Pinkley et al. 1995; Harinck et al., 2000) | Il bias della cosiddetta torta fissa (fixed pie) porta gli individui a credere che i propri interessi e quelli dell’altro siano perfettamente speculari e che, di conseguenza, non possano esistere alternative a una soluzione win-lose. È una distorsione percettiva che in negoziato contribuisce all'approccio competitivo: alla vittoria di una parte corrisponde la sconfitta dell'altra. Può essere ricondotta all'effetto del falso consenso, cioè alla tendenza a proiettare sull'altro le proprie percezioni e a credere che i propri atteggiamenti, credenze, valori o comportamenti siano ampiamente condivisi dalla gente; lo facciamo per mantenere alta la nostra autostima, dando per scontata la legittimità del nostro punto di vista.
Il fenomeno della torta fissa è correlato all'effetto framing, perché genera la credenza che le risorse in gioco possano essere distribuite solo a vantaggio di una delle parti, determinando una percezione dei risultati finali come potenziali perdite, che incentiva strategie comportamentali aggressive. Il contestuale ricorrere di queste distorsioni genera situazioni caratterizzate da irrisolvibilità, nelle quali le questioni in gioco vengono incorniciate in una prospettiva che ammette un solo vincitore.

ERRORE FONDAMENTALE DI ATTRIBUZIONE (Morris et al. 1999) | L’essere umano genera costantemente giudizi e credenze sul carattere altrui, per interpretarne comportamenti e motivazioni attraverso l’attribuzione di cause e intenzionalità. Questo fenomeno si declina tra l’altro attraverso il c.d. bias delle “attribuzioni a proprio favore”.
Elemento tipico delle attribuzioni a proprio favore, che le differenzia dalle attribuzioni effettuate sugli altri, è la “giustificazione” della propria condotta in relazione ad un contesto; è una sorta di indulgenza nei propri confronti determinata dal fatto che, disponendo di maggiori dettagli, siamo in grado di distinguere con più precisione le influenze dell'ambiente sul nostro comportamento, auto-giustificandoci. Al contrario, osservando “dall'esterno” un comportamento altrui, l’ambiente resta sullo sfondo e ci focalizziamo maggiormente sull’individuo e sulle sue azioni, giudicando l’altro. Io sono in ritardo per colpa del traffico o dei mezzi pubblici (attribuzione esterna), ma se sei in ritardo tu, è perché sei una persona poco educata e scortese (attribuzione interna).
In negoziazione l'errore fondamentale di attribuzione impatta sulla percezione dell’altra parte: quando si è vittime di questo bias essa può apparire ostile e non cooperativa, attribuendo tali tratti alla sua personalità o alla sua volontà di nuocere deliberatamente, senza invece considerare che i suoi comportamenti possono essere determinati da fattori esterni o contingenti al negoziato.

ILLUSIONE DI TRASPARENZA (Van Boven et al., 2003) | È una distorsione percettiva legata alla percezione dei nostri stati interiori. Tendiamo a sopravvalutare la capacità della controparte di comprendere le nostre richieste e i nostri bisogni, perché riteniamo che le nostre azioni risultino più significative ed evidenti di quanto lo siano realmente. In negoziazione questo può comportare una mancata esplicitazione di informazioni rilevanti, come bisogni e interessi specifici, che rischia di inaridire la trattativa. Poiché cediamo all’illusione di essere “trasparenti”, è facile cominciare a nutrire infondate aspettative nei confronti della controparte e a ritenere, in virtù dell’errore fondamentale di attribuzione, che essa sia volutamente meno aperta e collaborativa di quanto non sia realmente. Non detto, fatto: il negoziato si arena in una spirale di incomunicabilità.

I BIAS MOTIVAZIONALI
Pur non essendo considerati vere e proprie distorsioni cognitive, in quanto non hanno un ruolo nell'organizzazione della conoscenza, i bias motivazionali sono molto rilevanti perché hanno la funzione di orientare i comportamenti verso specifiche azioni, sulla base di necessità e scopi precisi legati alla propria identità o al bisogno di riconoscimento (Thompson et al, 2004). Ovviamente i fattori che influenzano gli stati affettivi e motivazionali possono essere pressoché infiniti; tra questi ci soffermiamo solo sul self enhancement bias e sul cd. “bisogno di chiusura cognitiva”.

SELF - ENHANCEMENT (De Dreu et al. 1995) | Tutti gli individui hanno la necessità di affermare il proprio Sé, soprattutto quando incorrono in esperienze che rischiano di comprometterne l’autostima: il salvagente è dunque il ricorso al bias dell'auto-miglioramento (Self-enhancement bias), ossia la ricerca di giudizi positivi esterni. Quando riceviamo feedback negativi in risposta ad un comportamento errato, abbiamo la tendenza a difendere noi stessi e a giustificare il nostro atteggiamento, delegittimando le critiche attraverso l'attivazione di stereotipi negativi o impiegando strategie di riduzione della dissonanza cognitiva (cioè modificando le nostre credenze per legittimare un certo comportamento; esempio tipico è il fumatore che giustifica il suo vizio negando la validità dei dati sulla mortalità da fumo). Questo fenomeno spinge gli individui a non rivedere le proprie posizioni e a mantenere alto il proprio Sé delegittimando l’altra parte, con una ricaduta negativa in negoziazione e addirittura rischiando l’escalation del conflitto, fino a casi radicali in cui si giunge alla completa deumanizzazione dell’altro e alla ricerca dell’alleato nel mediatore/negoziatore.

BISOGNO DI CHIUSURA (EPISTEMIC MOTIVATION) (De Dreu et al., 2006) | Il bisogno di chiusura è la necessità di ottenere informazioni dato un problema e riflette la tendenza degli individui a preferire, in contesti sociali, una risposta certa piuttosto che la confusione o l'ambiguità, per soddisfare il bisogno di processare le informazioni in modo (più o meno) accurato[5]. Si distinguono due tipi di atteggiamenti, rispettivamente caratterizzati da basso o alto bisogno di chiusura: le persone con basso bisogno di chiusura tendono ad impegnarsi di più nella ricerca di nuove informazioni e nella loro elaborazione; coloro che invece scontano un alto livello di chiusura hanno la tendenza a sospendere prematuramente la verifica di nuove ipotesi o la ricerca di ulteriori dati, esponendosi maggiormente ai bias.
Una maggiore attitudine all’approccio cooperativo, volto alla soluzione dei problemi, è generalmente associata a un bisogno di chiusura più basso; viceversa strategie competitive e scarsa attitudine alla soluzione dei problemi sono correlati a un bisogno di chiusura più alto. La necessità di pervenire ad una maggiore definizione del problema o di perseguire una scelta con maggiore cognizione di causa è una condizione imprescindibile per raggiungere un accordo soddisfacente e durevole nel tempo. Si noti come la chiusura epistemica sia collegata all’ansia anticipatoria: la fretta di chiudere un negoziato o un progetto può portarci a mancare clamorosamente i nostri obiettivi.
  

L'ESPERIENZA IN AULA
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Per introdurre il tema dei bias nell’ambito della mediazione e negoziazione, abbiamo realizzato un laboratorio dal titolo “Le trappole mentali in negoziazione. Cosa ci condiziona in modo automatico ed inconsapevole quando negoziamo?”, con un focus particolare sulle distorsioni indotte dall'euristica dell'ancoraggio. Il workshop si è svolto all'interno della programmazione annuale degli incontri dell'associazione Enne.Zero, pertanto l'intero laboratorio è stato progettato per un target composto prevalentemente da avvocati e negoziatori.
La difficoltà principale incontrata nella fase progettuale è sorta alla luce della constatazione che, rispetto a metodologie ed esercitazioni sulla gestione dei conflitti piuttosto collaudate (simulazioni, role play, ecc.), gli strumenti a disposizione per un intervento formativo sui bias sono piuttosto esigui. Pertanto abbiamo ritenuto opportuno riadattare e inventare esercitazioni che facessero al nostro caso. Così, alternando ad esercitazioni più “classiche” nuove esercitazioni, abbiamo avuto non solo l'opportunità di condurre con successo il workshop ma anche di sperimentare sul campo nuovi strumenti formativi.
Per condurre l'aula attraverso un percorso di graduale acquisizione di conoscenza e presa di consapevolezza delle euristiche e del loro impatto in negoziazione, abbiamo ritenuto opportuno cominciare con un tipico esercizio di ice-breaking, il cui scopo è stato sollecitare l'ansia da prestazione dei partecipanti per rendere espliciti gli automatismi inconsci e il pensiero automatico: la fretta, la paura di sbagliare o di non fare in tempo sono infatti alcuni tra i fattori più comuni che sollecitano l'attivazione degli automatismi a scapito del pensiero logico-razionale.
È stato poi proposto in plenaria il noto gioco della “malattia asiatica[6]”, ottenendo riscontri perfettamente in linea con le evidenze scientifiche sul tema: nel primo laboratorio alla prima formulazione del problema il 100% ha selezionato l’opzione A (probabilità di salvare 200mila persone) mentre nessuno ha selezionato l’opzione B ( di probabilità di salvare 600mila persone e di probabilità che non si salvi nessuno); modificando la formulazione del quesito  una sola persona su 8 (il 12,5%) ha selezionato l’opzione D (probabilità del 100% che muoiano 400mila persone) mentre le restanti 7 (87,5%) ha scelto l’opzione D ( di probabilità che nessuno muoia e di probabilità che muoiano 600mila persone). Risultati del tutto congruenti sono emersi anche nel secondo laboratorio, nel quale l’80% ha selezionato nel primo scenario l’opzione A ed il 100% ha selezionato l’opzione D nel secondo scenario.
Durante il debriefing è emerso con chiarezza come, benché tutte le opzioni fossero identiche nel contenuto, la formulazione del problema sotto forma di “morte” o “salvezza”, guadagno o perdita, certezza o probabilità, in combinazione con il timore del rimpianto di una scelta sbagliata, incornicia la situazione condizionando le scelte dei partecipanti e facendo optare per lo status quo o per il rischio.
Il passo successivo è stato chiarire la natura delle aspettative, per comprendere come da esse formuliamo giudizi soggettivi che spesso, come nel caso di stereotipi e pregiudizi, si rivelano del tutto inadeguati. Attraverso ulteriori esercitazioni è emerso chiaramente come la funzione euristica dell'aspettativa abbia un ruolo chiave nel determinare le nostre decisioni; stereotipi, pregiudizi e bias ad essi legati, sono stati ampiamente individuati dall’aula nelle dinamiche negoziali e di mediazione, sottolineando come educazione, personale esperienza, credenze individuali, descrizione del mondo di ciascuno scadano in criteri arbitrari per etichettare ed archiviare persone, oggetti e situazioni.
L’aula è poi stata divisa in tre gruppi casuali ai quali è stato somministrato l'esercizio da noi ideato ad hoc per rendere evidente l’effetto del bias dell’ancoraggio, uno dei più pervasivi in ogni tipo di negoziazione.
Nell'ideare e formulare le domande originali, abbiamo anzitutto considerato la presenza in aula di avvocati, mediatori ed esperti di negoziazione, per valutare se l’effetto ancoraggio colpisse - secondo evidenze scientifiche già validate - anche soggetti “esperti” in materia. Abbiamo poi ricercato dati statistici[7] relativi al riconoscimento di un assegno di mantenimento in favore del coniuge separato e divorziato registrati in Italia nell’anno 2012; dati che hanno validità scientifica per il monitoraggio ISTAT su tali procedimenti giurisdizionali. Infine, abbiamo predisposto delle domande relative a tale bias in una triplice formulazione: l’una con un’àncora “bassa” (dati nettamente inferiori a quelle reali), l’altra con un’àncora “alta” (dati nettamente superiori a quelle reali) ed infine una terza versione c.d. “di controllo”, nella cui domanda non era presente alcuna àncora. Ebbene, l’àncora ha determinato le risposte dei partecipanti, senza che si evidenziassero differenze significative tra persone esperte in diritto e non: il gruppo con un riferimento numerico basso ha sistematicamente sottostimato le sue valutazioni, viceversa in presenza di un riferimento numero alto i partecipanti hanno sovrastimato i dati reali. 
Il debriefing ha confermato quanto sia potente l’influenza dell’input e quanto sia condizionante l’ancoraggio a valori iniziali, a prescindere dalla loro validità e dal livello di competenza nel settore specifico. Ciò conferma come l’ancoraggio opera in negoziazione e in mediazione quando il valore delle risorse in gioco non è facilmente misurabile e quando tutte le parti, persino quelle più esperte, sono vincolate alle informazioni di partenza, lasciandosi influenzare dal linguaggio impiegato e del frame iniziale.


LE STRATEGIE DI DEBIASING
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Acquisire consapevolezza dei bias e dei propri automatismi rappresenta un momento imprescindibile per la piena acquisizione di un atteggiamento cosciente nei confronti delle proprie capacità negoziali. Comprendere, infatti, quali limiti e ostacoli possiamo incontrare in una negoziazione significa imparare ad evitare la trappola del conflitto e quindi adottare strategie più collaborative all’insegna di una relazione caratterizzata da ascolto e da una comprensione più autentica e profonda dell’altro. Riconoscere i propri bias tuttavia è solo il punto di partenza. Occorre dotarsi di adeguati strumenti per emanciparsi dai propri automatismi; il che non significa eliminare i bias, che appartengono alla natura stessa dell’uomo, ma imparare a gestire il ragionamento euristico, ampliando l’orizzonte del nostro punto di vista, talvolta troppo limitato.
Nel processo di debiasing vengono individuati in letteratura due approcci (Soll et. al, 2014): strategie di debiasing che intervengono sul decisore, fornendo agli individui conoscenze e strumenti per supportare il loro processo decisionale, e strategie di debiasing che intervengono sull’ambiente, modificando il setting decisionale per creare un contesto più adatto e funzionale al decisore[8].
Di seguito riportiamo alcune tra le principali strategie di debiasing che intervengono sul decisore:

ANALISI META-DECISIONALE (Russo & Shoemaker, 2014)
Questa strategia consiste nell'indagare il problema decisionale a monte, interrogandosi sulle premesse che lo hanno generato e sulle risorse da impiegare per affrontarlo. Spesso l'ansia da prestazione, la fretta e l'eccessiva focalizzazione sull'obiettivo finale, impediscono di cogliere tutti gli aspetti rilevanti di un problema, limitando le strategie risolutorie. Le domande da farsi in un'analisi meta-decisionale di un negoziato possono essere: qual è l'aspetto cruciale della questione? Come sono state affrontate decisioni simili? Quanto tempo abbiamo per decidere? Come e quali feedback posso trarre da esperienze passate e da decisioni analoghe a questa? Ho bisogno di acquisire altri punti di vista? Quali sono le mie abilità e i miei limiti a trattare aspetti come questi? A quali bias sono più esposto?
Prendere decisioni in gruppo è un altro efficace metodo di analisi meta-decisionale, poiché incentiva lo sviluppo di sinergie tra le diverse conoscenze e capacità del gruppo, individuando aspetti ed elementi di una particolare situazione che possono invece sfuggire a un singolo individuo (Rumiati, 2004). Questo strumento inoltre fa leva sulla distribuzione della responsabilità, evitando di concentrare sulla stessa persona, con i suoi limiti e le sue idiosincrasie, la responsabilità di una decisione. Attenzione però: questo metodo, applicato indiscriminatamente, può presentare numerosi svantaggi, il principale dei quali è il concreto rischio che intervengano altri bias nel processo negoziale (su tutti il groupthink o pensiero di gruppo[9] - Janis, 1982; Turner & Pratkanis, 1998; Turner, 1991-, ma anche il bias di conferma e dissonanza cognitiva).

AMPLIARE LO SGUARDO (Bazerman e Neale, 1982; Faro e Rottenstreich, 2006)
In un negoziato, riuscire a guardare i problemi decisionali sotto diversi punti di vista è fondamentale per generare nuove opzioni e allargare il ventaglio delle nostre scelte. Ciò è possibile attraverso una molteplicità di strategie differenti; di seguito illustriamo le principali:

ASSUMERE IL PUNTO DI VISTA DELLA CONTROPARTE (PERSPECTIVE TAKING) (Neale e Bazerman, 1983) | È fondamentale negoziare, riuscendo ad assumere il punto di vista dell’altro, per comprendere le sue emozioni, bisogni ed azioni. Risultati sperimentali dimostrano che la qualità dei negoziati è proporzionale alla capacità delle parti di assumere la prospettiva dell'avversario, perché si è in grado di individuare quali fattori causano le sue resistenze e così si hanno maggiori probabilità di comprenderne gli interessi, sviluppando soluzioni integrative, mutualmente soddisfacenti.
Una strategia latamente legata all'assunzione dell'altrui punto di vista è l'accountability, ovvero la responsabilizzazione delle nostre scelte nei confronti di un altro (Kramer et al., 1993): i soggetti-decisori, prima di prendere una decisione, dovrebbero riflettere su come spiegherebbero a terzi le motivazioni che li hanno spinti ad agire in un determinato modo, affinché possano considerare anche i punti deboli della scelta che stanno per compiere. La fiducia che un terzo ripone nella bontà della scelta fatta da un soggetto spinge quest’ultimo ad agire in maniera più consapevole e a considerare tutte le problematiche relative alla scelta stessa. Tuttavia, l'applicazione indiscriminata di questa tecnica rischia di spingere il decisore a crearsi una giustificazione per la decisione assunta (Shafir & LeBoeuf, 2004) o addirittura ad aumentare i pregiudizi ed i biases a servizio di sè (c.d. self-serving biases, Simonson, 1989).

CONSIDERARE L’OPPOSTO (CONSIDER THE OPPOSITE) (Mussweiler et al., 2000) | Sforzarsi di articolare le ragioni che sono contrarie alla nostra posizione (domandandosi “Quali potrebbero essere le ragioni per le quali il mio comportamento, la mia decisione, possono rivelarsi sbagliate?”)  è utile per contrastare numerosi bias, tra i quali l’ancoraggio, l’overconfidence e l’euristica della disponibilità. Essi causano spesso una visione parziale del problema denominata “effetto tunnel”, che ci fa focalizzare solo su certi aspetti del problema, rendendoci impermeabili a ulteriori alternative ed esposti ad errori di valutazione.
Nel “considerare l’opposto” è necessario domandarsi se le nostre valutazioni e le nostre scelte sarebbero state le stesse se ci fossimo posti dal lato opposto del problema. Ciò consente di dissipare la visione a tunnel e di vedere più chiaramente i possibili risultati alternativi[10]. C'è, tuttavia, un avvertimento interessante (Roese, 2004): alcuni studi hanno dimostrato che la ricerca di un alto numero di risultati alternativi rafforza il bias piuttosto che indebolirlo, perché la difficoltà nel trovare argomenti alternativi alle proprie ragioni diventerebbe un alibi che giustifica e legittima le proprie scelte. Per evitare questo ritorno di fiamma, è dunque preferibile non generare o valutare più di due o tre spiegazioni alternative.
Un’altra strategia per uscire dall’effetto tunnel è quella di attualizzare la decisione (Staw & Ross, 1978, 1987; Haller & Schwabe, 2014); è il caso del bias dei costi affondati (sunk cost effect), in cui il passato ipoteca il presente. Quando dobbiamo ridurre il c.d. bias dei costi affondati (sunk cost bias), dell’escalation e della fallacia di Gambler[11], è utile anticipare i costi che devono essere progressivamente eliminati prima che venga assunto un impegno, in modo tale da rendere salienti i costi da sostenere. In sostanza, la domanda da porsi è “Se mi trovassi a dover decidere questo investimento per la prima volta oggi e avessi questo progetto da portare avanti, cosa farei? Sosterrei il progetto o me ne sbarazzerei?

ALLARGARE LA TORTA (Pietroni & Rumiati, 2001) | Quando sono in gioco questioni relative alla distribuzione delle risorse, la distorsione della fixed-pie incentiva la competizione perché porta ad attribuire all’altro i propri medesimi interessi e quindi ad implementare strategie risolutorie win-lose. Quando invece le questioni riguardano aspetti normativi o valoriali, riscontriamo il risultato opposto perché gli individui tendono a credere che il proprio modo di vedere il mondo sia corretto e ragionevole e, in linea di principio, condiviso da tutti; tale idea frena il bias della torta fissa, favorendo un approccio più collaborativo. Il bias della torta fissa agisce quando le nostre aspettative (nei confronti dell’altro, dei suoi bisogni e dei suoi interessi) prendono il sopravvento. Per questa ragione la comunicazione e la condivisione di informazioni hanno un ruolo fondamentale in questa strategia di debiasing.
Migliorare la comunicazione esplicitando le motivazioni delle preferenze è lo strumento più efficace contro il bias della torta fissa: anche quando gli interessi delle parti sono fra loro divergenti, possono emergere le condizioni per la risoluzione del conflitto perché entrambe  possono rendersi conto di essere ciascuno alla ricerca di qualcosa di diverso e potenzialmente complementare. Queste metodologie massimizzano i risultati positivi soprattutto se compiute in sinergia con strategie negoziali cooperative ed integrative, ad esempio formulando più offerte alternative nel corso della negoziazione e indicando l'offerta preferita, media e meno appetibile (es. BATNA e WATNA), ogni parte rivela informazioni che l’altra può prendere in considerazione.
È importante riuscire ad ampliare ed approfondire la conoscenza dell’altro attraverso domande che consentono di individuare e formulare corrette stime circa i suoi bisogni, interessi e priorità. Domande maieutiche o domande a risposta aperta sono strumenti che consentono di ottenere una risposta completa ed articolata dalla controparte, stimolano la curiosità ed incoraggiano le persone a espandere i limiti del loro pensiero, perché richiedono una previsione o una riflessione sulle possibili conseguenze della scelta.

MODIFICARE IL FRAME (Bazerman, Magliozzi & Neale, 1990; Rumiati, 2004) | Non valutiamo le cose ma la descrizione delle cose. Quando la strutturazione di un problema non offre risultati soddisfacenti è opportuno, anzi spesso è necessario, cambiarne il frame: la formulazione del problema decisionale in una nuova cornice può infatti aiutarci a capire se il bicchiere è davvero «mezzo pieno» o «mezzo vuoto». È quindi fondamentale capire come e quando cambiare la nostra cornice, per individuare la migliore strategia negoziale da applicare nel caso specifico
Il reframing (reincorniciamento) passa attraverso tre fasi: (a) capire qual è la cornice in cui il problema è strutturato in un dato momento e cosa ha determinato l'adozione di quello specifico frame; (b) generare frames alternativi a quello attuale, interrogandosi sulla sensatezza delle proprie azioni e cercando, in maniera creativa, altri modi possibili di impostare il problema, anche grazie alla capacità di porsi nei panni degli altri (vedi sopra perspective taking); (c) scegliere il frame vincente: molti dei frames che sono stati generati nella fase precedente potranno apparire ugualmente plausibili, ma per selezionare quello più adeguato occorre effettuare un ultimo sforzo, individuando gli elementi che ciascuna cornice enfatizza o minimizza, occulta o distorce (Russo e Shoemaker, 2016).
Decidere consapevolmente attraverso quale frame valutare le informazioni (quindi decidere se adottare un contesto di perdita o uno di guadagno) è possibile in concreto solo se siamo in grado di comprendere su quali informazioni focalizzare l’attenzione.

CONTRO-ANCORARE IL VALORE (Rumiati, 2004) | Posto che le informazioni iniziali alle quali ci ancoriamo guidano i processi di ricerca e recupero di informazioni in direzione coerente con le stesse, lasciando oscurati alla vista altri dati che potrebbero favorire risposte diverse, come porvi rimedio? In primo luogo, attraverso la costruzione di valori di àncora tali che gli aggiustamenti successivi all’operare del bias producano distorsioni finali di minore entità. Inoltre, è opportuno contrapporre ad un’àncora un’altra àncora di direzione opposta (ad esempio, prima di decidere se acquistare un'automobile ad un prezzo vergognosamente alto, immaginare come la si valuterebbe se il prezzo fosse incredibilmente basso).
Altro strumento per il debiasing dell’ancoraggio è una variante del “consider the opposite”, ossia l’approccio contro-fattuale (Mussweiler et al., 2000): pensare a delle ragioni per le quali la cifra di partenza è inappropriata riducendo così l’effetto dell’àncora iniziale, per consentire un giudizio più appropriato.
In ogni caso la definizione a priori di parametri che ci consentono di valutare obiettivamente l’accettabilità o meno di ogni proposta, resta la migliore strategia di debiasing contro gli effetti dell’ancoraggio (Bazerman, 1990): entrare in qualsiasi negoziazione senza aver prima definito i propri parametri minimi di profittabilità diminuisce considerevolmente il controllo sulle dinamiche negoziali, con conseguente pericolo di accordi svantaggiosi o decisioni errate.
C'è però un rischio: entrare in negoziato con un parametro minimo se può porci al riparo dal bias dell’ancoraggio, può al contempo farci cadere in un negoziato di posizioni, anziché mantenerci flessibili alla trattativa in corso; per questo motivo, nel generare anticipatamente i propri parametri, è preferibile far riferimento a valori più che a cifre.

PERIODO DI RIFLESSIONE (COOLING OFF PERIOD) E SECONDA IPOTESI (SECOND GUESS) | Se siamo felici formuliamo previsioni per il futuro troppo ottimistiche, al contrario se siamo tristi tendiamo a fare previsioni eccessivamente pessimistiche (Moore & Healy, 2008): quindi, fattori psicologici spesso estranei al contesto decisionale hanno un’influenza preponderante nelle nostre scelte, perché tendiamo a concentrarci completamente su prove che supportano le nostre ipotesi iniziali, sottovalutando quelle contrarie.
Una tecnica è semplicemente quella di prendere tempo (cooling off) per considerare i motivi per cui potremmo sbagliare o fallire, evitando così scelte non ottimali (è una variante del ragionamento controfattuale di cui si è detto sopra a proposito del debiasing contro l’ancoraggio) (Koriat, Lichtenstein, & Fischoff, 1980; Cheema & Soman, 2008).
Una variante più raffinata è chiamata approccio “prospettico a posteriori (Mitchell, Russo, & Pennington, 1989; Russo & Schoemaker, 2016): quando si contempla un fallimento passato, anche se solo immaginario, le persone tendono a identificare possibili percorsi causali che solitamente non vengono subito considerati (bisogna cioè ragionare in previsione: ad esempio se oggi, 2019, dovessi acquistare un immobile, dovrei chiedermi "Qui nel 2039, perché la mia casa vale meno di quanto l’ho pagata venti anni fa?").
Altro metodo, che può essere applicato autonomamente o in abbinamento al cooling-off, è il c.d. “second guess”, ossia riprendere più volte, anche in momenti diversi, un ragionamento, per sforzarsi di dare una seconda risposta. Studi sperimentali hanno dimostrato che imponendo una scelta obbligatoria tra tre alternative e chiedendo di azzardare una seconda risposta oltre a quella data per prima, è piuttosto raro che la seconda risposta ricalchi la traccia originale. 

PRATICHE MEDITATIVE DI MINDFULLNESS (Moore & Malinowski, 2009; Vago e Silbersweig, 2012; Hafenbrack et al., 2013) | Queste tecniche agiscono sull’attenzione spostandola al momento presente e focalizzandola sulle sensazioni fisiche del corpo (es. il respiro), consentendo così di liberare la mente dai pensieri intrusivi, causati dall’ansia anticipatoria. Sono pratiche di debiasing in senso lato in quanto sono in grado di agire sui vari step del processo di presa di decisione, ad esempio sul riconoscimento degli obiettivi, sulla raccolta delle informazioni rilevanti e sulla valutazione consapevole delle alternative.
Nonostante quanto sinora detto, è doveroso segnalare come molto spesso la correzione degli errori comportamentali sia estremamente difficoltosa, perché le distorsioni cognitive sono sistematiche, affondando le loro radici in modalità di pensiero estremamente radicate in noi.


L’ESPERIENZA IN AULA
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La progettazione del laboratorio, idealmente e funzionalmente collegato al precedente e dal titolo “Negoziare meglio: come allenarsi per superare gli automatismi e sperimentare soluzioni alternative e consapevoli”, è partita dal riconoscimento di come avesse operato in noi stessi formatori il bias dell’ancoraggio nella elaborazione del precedente laboratorio, poiché ci siamo ancorati all’idea che il pubblico prevalente fosse costituito da avvocati e mediatori e quindi incorniciando il primo workshop esclusivamente in ambito giuridico.
Per rendere efficace l’intervento formativo abbiamo fatto ricorso ad un’altra metodologia di debiasing, detta learning by doing (Thompson et al., 2000; Gentner et al., 2009), che consente un’efficiente correzione - in tempo reale - dei bias: la conoscenza e la capacità di identificazione degli stessi aumenta attraverso la sperimentazione concreta di situazioni nelle quali queste distorsioni appaiono, così da ottenere un feedback immediato su ciò che essi provocano. Questa tecnica è particolarmente efficace su hindsight bias, disposition effect e anche per ridurre l’importanza che i soggetti attribuiscono ai sunk costs.
Riepilogate le euristiche ed i bias, abbiamo sottoposto all’aula l’esercitazione c.d. “la quadriglia[12]. I partecipanti, che si fronteggiano su due file parallele, devono convincere in meno di un minuto il soggetto di fronte a loro a passare dall’altro lato di una linea divisoria immaginaria. Come previsto, nessuno dei partecipanti è ricorso alla soluzione più facile e al tempo stesso più difficile da immaginare: scambiarsi di posto.
Il debriefing si è focalizzato su cosa impedisce di negoziare in modo cooperativo ed efficace, ossia le radicate strategie win-lose (forza, ricatto, persuasione, cedere, convincere, non ascolto, “mors tua, vita mea”), per le quali siamo portati inconsapevolmente a confliggere piuttosto che a collaborare secondo la logica “win-win“.
Abbiamo infine proposto una versione rivisitata del role-play: “l’eredità[13], ovvero una simulazione di un negoziato multiparte, ciascuna delle quali con diversi bisogni, interessi e pretese. L’obiettivo era quello di giungere ad un accordo su come ripartire la somma ereditata, rispettando le volontà e i vincoli testamentari del de cuius, pena la perdita del 100% dell’importo. I partecipanti sono quindi stati divisi in cinque gruppi, con il compito di individuare una strategia da sostenere durante la negoziazione.
Dopo 20 minuti di trattative, abbiamo previsto un debriefing in plenaria nel quale evidenziare quali bias erano stati visti operare e come correggerli, acquisendo maggiore consapevolezza delle distorsioni in azione durante la prima sessione negoziale. Impegnati in un secondo round di trattative, i partecipanti hanno utilizzato le seguenti strategie di debiasing: allargamento dello sguardo, generazione di alternative, mettersi nei panni dell’altro, porre domande maieutiche, comunicare i propri bisogni, considerare i punti deboli del proprio ragionamento e della propria posizione, ancorarsi a parametri oggettivi, a valori,  invece che a numeri.
L’aula ha potuto quindi constatare come gli errori cognitivi, a differenza di quelli dovuti a distrazione, sono sistematici ma prevedibili, perché dipendono da leggi oggettive, a cui tutti siamo sottoposti, che condizionano il nostro ragionamento. In ogni caso, la migliore e più efficace strategia per superare la mente automatica è quella di restare nel “qui-e-ora”, nel presente, attraverso la mindfulness o la meditazione che, agendo sull’attenzione, consente di porre uno spazio maggiore tra stimolo e risposta per ottenere una migliore comprensione della situazione e, conseguentemente, selezionare - tra le molte possibili - non la risposta più rapida e veloce, bensì quella più utile, ossia più vantaggiosa sia per noi che per l’altro, perché solo una soluzione che soddisfa le istanze di tutti i soggetti coinvolti, nessuno escluso, sarà duratura e risolutiva nel tempo.  


CONCLUSIONE
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Essere professionisti competenti nel corso di una negoziazione o mediazione significa, innanzitutto, essere consapevoli che l’uomo assume diversi atteggiamenti: attacca o si difende; compete o collabora; dice il vero o il falso; tace o condivide informazioni. Tali atteggiamenti non sono altro che il frutto di moti interiori completamente automatici: se l’uomo aggredisce è perché non può fare a meno di aggredire; se collabora è perché è incapace di non collaborare, e così è per la maggior parte, se non per tutti, i suoi comportamenti.
Essere professionisti competenti nel corso di una negoziazione o mediazione significa, poi, essere consapevoli che l’uomo interpreta la specifica situazione e la relazione con l’altro secondo la sua educazione, la sua esperienza personale, il suo vissuto, le sue abitudini, le sue convinzioni e le sue credenze, andando alla ricerca di tutti gli elementi funzionali a confermare la propria visione del mondo, riducendo così le infinite possibilità che la vita gli offre, illudendosi che la realtà da lui dipinta sia l’unica possibile.
Essere professionisti competenti nel corso di una negoziazione o mediazione significa, infine, essere consapevoli della capacità di guardare oltre le possibilità tratteggiate dai soggetti coinvolti, espandendo la loro visione. Per fare ciò occorre necessariamente essere capaci di contenere non solo gli automatismi interiori ed esteriori delle parti bensì, e soprattutto, le proprie dinamiche interiori, altrettanto automatiche, perché anche il mediatore e il negoziatore non sfuggono di certo alle regole del gioco della vita e, con esse, a quelle del funzionamento del cervello umano.
Attivare comportamenti adeguati e utili, richiede quindi in primis un certo grado di sapere, che con questo scritto ci siamo posti l’obiettivo di diffondere, avvertendo i lettori che il sapere è solo il punto di partenza, perché il sapere senza un corrispondente sviluppo dell’essere, ossia, per quel che qui rileva, della capacità di conoscere, osservare, sentire e comprendere i propri e gli altrui automatismi, è un sapere sterile e inutile, ma se allenato e coltivato insieme all’essere, il sapere consentirà l’accesso al vero fare, che può orientare i propri e gli altrui comportamenti verso soluzioni nuove, creative e vantaggiose per l’insieme.


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Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 8/2019



[1] VUCA (Volatile, Uncertain, Complex, Ambiguous) rappresenta un mondo volatile, incerto, complesso e ambiguo come mai prima d’ora. Si tratta di un acronimo che è stato in grado di tradurre il nostro immaginario collettivo, sintetizzando il difficile periodo che ci troviamo a vivere.
[2] la quale deve comunque essere integrata con il diritto “tradizionale”, che rimanda ad un mondo di regole più statico e per definizione uguale per tutti.
[3] “Il più socialmente evoluto meccanismo di coordinamento delle azioni umane capace di generare oltre che distribuire risorse elevando la qualità della relazione tra le parti” (Diamantini et al., 2000)
[4] ll bias dello status quo è un errore cognitivo che consiste nella preferenza per la situazione attuale rispetto ad altre possibili. La situazione attuale viene presa come punto di riferimento, qualsiasi mutamento viene considerato una perdita. Quando scegliamo tendiamo infatti a valutare di più le potenziali perdite che non i guadagni possibili, tuttavia sembra che vi siano anche altri motivi oltre all’avversione alle perdite, tra cui l’avversione al rimorso, i costi di transazione e il coinvolgimento personale. È dovuto alla resistenza umana al cambiamento, che spaventa e che dunque induce a mantenere le cose così come stanno. L’aspetto  più dannoso di questo pregiudizio è l’ingiustificata supposizione che una scelta diversa potrà far peggiorare le cose. Secondo lo status quo bias, gli individui tendono a non deviare dal loro comportamento abituale, bensì a rimanere attaccati alla situazione in cui si trovano (lo status quo appunto).
[5] cfr. sul lato cognitivo il bias di disponibilità
[8] Un esempio è la nudge theory, che sfrutta il potere inconscio dei bias per spingere le persone a prendere decisioni più efficaci. Questa sorta di “paternalismo libertario” muove dall’idea che non esistono contesti neutri, siamo cioè sempre soggetti ad essere condizionati, perché allora non incentivare le migliori decisioni possibili? (Thaler e Sunstein,2008; Marteau et al., 2011; Castro e Scartascini, 2013)

[9] Il pensiero di gruppo si verifica quando: “I membri di un piccolo gruppo coeso tendono a mantenere lo spirito di corpo sviluppando inconsciamente una serie di illusioni condivise e di norme relative che interferiscono con il pensiero critico e con la verifica della realtà” (Janis I.L., 1982, Groupthink: Psychological Studies of Policy Decisions and Fiascoes, Houghton Mifflin, Boston). È una distorsione che si verifica nei gruppi altamente coesi, in cui la tendenza a raggiungere l'unanimità prevale sulla motivazione a valutare realisticamente alternative più funzionali di azione; questo porta a negare anche a se stessi l'esistenza di un dissenso o di un pensiero divergente da quello della maggioranza in ragione della totale identificazione con il gruppo e con il suo pensiero dominante.
[10] Questa tecnica è assimilabile alla metodologia della “FALSIFICABILITÀ” proposta da Karl Popper relativa al metodo scientifico: quando si vuole accertare la verità di una teoria scientifica non è sufficiente verificarla, ma è necessario falsificarla per dimostrare la sua correttezza.
[11] Fallacia di Gambler Pur chiamandosi fallacia è per lo più un problema tecnico del nostro modo di pensare. Siamo portati a ritenere che gli eventi del passato influenzeranno in qualche modo i risultati futuri. L’esempio classico è il lancio della moneta.  Dopo che è uscito testa, diciamo, per cinque volte consecutive, siamo propensi a prevedere un aumento della possibilità che il prossimo lancio sarà croce. In realtà però, le probabilità sono e restano ancora 50/50. Le monete non hanno memoria e ad ogni lancio si riparte da zero. In relazione a questo, c’è anche un altro aspetto del bias, che purtroppo alimenta il gioco d’azzardo. È quel senso che ci fa credere che la fortuna sta per arrivare e che la sorte finalmente girerà a nostro favore: “sento che ho la mano calda!”.  Con i rapporti personali succede la stessa cosa, siamo portati a credere che il nuovo sarà migliore di quello precedente.
[12] Borgato R. “Un'arancia per due. Giochi d'aula ed esercitazioni per formare alla negoziazione” Franco Angeli, Milano, 2004, pagg 222 ss.
[13] Borgato cit. pagg. 242 ss.

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