DIRITTO D'AUTORE


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30 settembre 2021

35/21. Il limite della prima udienza vale sia per il mancato esperimento che il mancato completamento della procedura (Osservatorio Mediazione Civile n. 35/2021)

=> Corte appello Bari, 24 marzo 2021, n. 593

In tema di mediazione obbligatoria, l'art.5, comma 1-bis, d.lgs. 28/2010 pone a pena di decadenza il limite della prima udienza per l’eccezione di improcedibilità da parte del convenuto o per il rilievo d’ufficio da parte del giudice. Deve ritenersi che tale norma sia applicabile alla regolarità formale del contraddittorio sotto il profilo sia del mancato esperimento che del mancato completamento della procedura di mediazione e tanto all’evidente scopo di non vanificare, in applicazione del principio di economia processuale, l’attività processuale eventualmente compiutasi in presenza del vizio (I).  

(I) Si veda l’art. 5, D.lgs. 4 marzo 2010 n. 28 (Osservatorio Mediazione Civile n. 38/2018).

Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 35/2021
(www.osservatoriomediazionecivile.blogspot.com)

Corte di appello di Bari
Sentenza n. 593
24 marzo 2021

Omissis 

Con l’impugnata sentenza il giudice di primo grado ha preliminarmente affermato non potersi dichiarare l’improcedibilità per mancato esperimento della procedura di mediazione, essendo stati regolarmente convocati i convenuti in data 26.4.2012, come risultante dalla documentazione prodotta dall’attrice (all. 13).

Nel merito ha innanzitutto affermato il diritto della curatela ad ottenere la restituzione di quanto ricevuto dai convenuti in esecuzione del contratto di compravendita poi risolto, stante la retroattività degli effetti della risoluzione ex art. 1458 c.c., essendo quindi venuto meno il titolo delle rispettive prestazioni.

Ha rilevato al riguardo che, pur non avendo nella specie la società convenuta formulato domanda restitutoria nel giudizio conclusosi con la sentenza di risoluzione e non essendosi quindi il giudice pronunciato sul punto, tanto non rendeva immune da vizi l’atto dispositivo posto in essere dai coniugi omissis in favore della figlia, non avendo essi più alcun titolo di proprietà per disporre del bene, a prescindere quindi dal fatto che ne avessero la disponibilità.

Rilevato pertanto che il trasferimento in favore della figlia fosse da considerarsi a non domino, riteneva il primo giudice priva di pregio l’eccezione ex art. 1460 c.c. formulata da parte convenuta, secondo cui essa sarebbe stata legittimata a non restituire il bene a fronte dell’inadempimento della omissis s.r.l. alla restituzione del prezzo da essi versato, atteso che una volta pronunciata la risoluzione del contratto, le rispettive prestazioni vengono travolte e non rileva più la valutazione dell’inadempimento di ciascuna parte, configurandosi un indebito.

Il primo giudice riteneva poi nulla la donazione a non domino per assenza di causa, sulla scorta dei principi affermati dalla S.C. a Sezione Unite con la sentenza n. 5068/2016, con conseguente infondatezza dell’eccezione di usucapione abbreviata ex art. 1159 c.c. invocata da parte convenuta, per la quale non ricorreva peraltro neppure il presupposto temporale, essendo l’atto di donazione avvenuto in data 26.11.2008 e quello di acquisto da parte di omissis nel 2009.

Riteneva altresì infondata la tesi difensiva di quest’ultimo convenuto, secondo cui, in assenza della trascrizione della sentenza di risoluzione, il conflitto tra gli acquirenti di un diritto reale sullo stesso bene si sarebbe dovuto risolvere in base al principio della priorità della trascrizione ex art. 2644 c.c. (con la conseguenza che avendo egli trascritto per primo, il suo diritto avrebbe dovuto prevalere rispetto a quello vantato dalla curatela), dovendosi nella fattispecie risolvere il conflitto tra la Curatela e omissis, subacquirente a seguito di un atto impugnato per nullità, in base al criterio dettato dall’art. 2652 c.c., essendo stata trascritta la domanda volta a far dichiarare la nullità della donazione nel quinquennio dalla data di trascrizione dell’atto di liberalità (eseguita il 12.12.2008), con la conseguenza che il diritto acquistato da omissis in base all’atto nullo doveva ritenersi inevitabilmente travolto, a prescindere dalla sua buona fede.

Il primo giudice accoglieva pertanto la domanda principale, rigettando tuttavia la domanda risarcitoria per difetto di prova, non risultando provato dalla Curatela che l’illegittima detenzione del bene da parte dei convenuti le avesse impedito di trarne i frutti o che tale condotta avesse provocato un ritardo nella soddisfazione del ceto creditorio.

Compensava quindi per 1/3 le spese di lite e condannava i convenuti in solido alla rifusione dei residui due terzi in favore della Curatela omissis.

L’appello è infondato.

Va preliminarmente esaminata l’eccezione di improcedibilità della domanda, sollevata in primo grado all’udienza di precisazione delle conclusioni e riproposta da parte appellante.

Parte appellante, a fronte della produzione documentale di parte appellata (relativa alla prova della ricezione della raccomandata del 26.4.2012 inviata al omissis nonché alla comunicazione a mezzo fax inviata ai difensori), in memoria conclusionale ne ha addotto la tardività, in quanto depositata dall’attore con la propria memoria di replica in primo grado, dopo che erano abbondantemente maturate tutte le preclusioni istruttorie e senza che la Curatela abbia richiesto ed ottenuto un qualsivoglia provvedimento di rimessione in termini, neppure richiesto in questa fase di giudizio.

In via meramente subordinata ha disconosciuto la conformità agli originali delle copie dei documenti depositati dalla controparte ed ha rilevato che detta raccomandata non sarebbe stata ricevuta personalmente dal omissis, ma da tale omissis, non meglio qualificato.

L’eccezione va rigettata.

In tema di mediazione obbligatoria, qual è quella oggetto di causa, l'art. 5 comma 1 (vigente all’epoca dell’introduzione del giudizio e dichiarato incostituzionale con sentenza della Corte Costituzionale del (omissis)) e comma 1-bis (comma inserito dall’art. 84, comma 1, lett. b), D.L. 21 giugno 2013, n. 69) del D. L.vo n. 28/2010, pongono a pena di decadenza il limite della prima udienza per l’eccezione di improcedibilità da parte del convenuto o per il rilievo d’ufficio da parte del giudice.

Deve ritenersi che tale norma sia applicabile alla regolarità formale del contraddittorio sotto il profilo sia del mancato esperimento che del mancato completamento della procedura di mediazione (cfr. Cass., sent. n. n.32797/2019) e tanto all’evidente scopo di non vanificare, in applicazione del principio di economia processuale, l’attività processuale eventualmente compiutasi in presenza del vizio, come accaduto nella fattispecie, in cui anche dopo l’avvenuto deposito del verbale di conciliazione ed i plurimi rinvii con salvezza dei diritti di prima udienza, la dedotta mancata convocazione non è stata eccepita dal convenuto durante tutto il corso del giudizio e fino all’udienza di precisazione delle conclusioni, avendo anzi tutte le parti richiesto l’assegnazione dei termini di cui all’art. 183 co. 6 c.c. e svolto le proprie difese.

Ne discende che, a prescindere dalla tardiva produzione della prova della convocazione da parte dell’attore, il vizio deve ritenersi sanato.

Rileva peraltro il Collegio che ogni questione relativa all’improcedibilità della domanda per mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione debba ritenersi in ogni caso superata a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 5 co. 1 del citato d.l.vo con sentenza della Corte Cost. n. 272 del 6.12.2012, intervenuta nel corso del giudizio di primo grado, essendo stato reinserito il comma 1 bis dall’art. 84 co. 1 lett. b) del d.l. n. 69 del 21.6.2013, conv. con mod. in l. n. 98 del 9.8.2013 (G.U. n. 194 del 20 agosto 2013) con effetti decorrenti dal 30°. giorno dall’entrata in vigore della legge di conversione, e cioè dal 21 settembre 2013. Rimangono quindi esclusi dall’ambito di operatività della norma i procedimenti instaurati prima di tale data.

Passando al merito, va rilevato che con l’atto di appello non si contesta specificamente l’affermazione del giudice di prime cure, di accertamento del diritto di proprietà della curatela (per essere stato il diritto di proprietà dei coniugi omissis travolto ex art. 1458 c.c. dalla sentenza di risoluzione e non potendo pertanto essi legittimamente disporne), ma solo le statuizioni inerenti l’obbligo dei convenuti di restituzione del bene e la validità degli atti di disposizione dagli stessi compiuti.

Quanto al primo profilo, essi sostengono che il giudice avrebbe travisato l’eccezione da loro proposta, erroneamente qualificandola come eccezione ex art. 1460 c.c. anziché come eccezione ex art. 2041 c.c., dovendo in tal senso interpretarsi le argomentazioni contenute alle pagg. 9 e 10 della loro comparsa di risposta, inerenti la interdipendenza delle reciproche prestazioni, il mancato adempimento da parte della società venditrice delle obbligazioni restitutoria e risarcitoria stabilite con sentenza n. 77/2006 e la non surrogabilità della prestazione da questa dovuta con l’ammissione al passivo del fallimento in via chirografaria.

Adducono poi che, in ogni caso, si sarebbe trattato di un fatto impeditivo, costituente eccezione rilevabile anche d’ufficio e propongono detta eccezione in questa sede.

Ritiene il Collegio che non sia dato ravvisare i presupposti per l’accoglimento dell’eccezione ex art. 2041 c.c., che sono gli stessi della corrispondente azione, non essendo dato configurare il requisito della sussidiarietà.

L’azione generale di arricchimento ingiustificato può essere esercitata solo quando manchi un titolo specifico sul quale fondare un diritto di credito, con la conseguenza che il giudice, anche d’ufficio, deve accertare che non sussista altra specifica azione per le restituzioni ovvero per l’indennizzo del pregiudizio subito, contro lo stesso soggetto arricchito o contro soggetti terzi (cfr. Cass., n. 6299/2000; 26199/2017).

Infatti essa postula che non sia prevista nell’ordinamento giuridico altra azione tipica a tutela di colui che lamenti il depauperamento, ovvero che la domanda sia stata respinta sotto il profilo della carenza ab origine dell’azione proposta, per difetto del titolo posto a suo fondamento, dovendo la valutazione dell’esistenza delle altre azioni essere effettuata in astratto, prescindendo dall’esito concreto delle stesse (cfr. Cass., n. 20747/2007; n. 2350/2017).

Pertanto la sussidiarietà non va riferita agli strumenti processuali per far valere il titolo, ma all’assenza di un titolo e di azioni sostanziali per far valere il diritto, non potendo, in presenza di un titolo, farsi ricorso all’azione ex art. 2041 c.c. per attribuire rilievo a situazioni congiunturali, quali l’insolvenza dell’obbligato, che impediscano la soddisfazione del diritto consacrato nel titolo.

Nella specie, a fronte di una sentenza definitiva sancente la risoluzione con obbligo restitutorio ex art. 2033 c.c. e risarcitorio in capo alla società venditrice in bonis, costituente titolo della pretesa, lo strumento processuale previsto per ottenere il soddisfacimento del diritto è da ravvisarsi nelle azioni esecutive che il creditore può proporre nei confronti dell’obbligato, a nulla rilevando nella specie che dette azioni non siano state tempestivamente ed utilmente avviate o che nelle more il debitore sia fallito, dovendo in tale ultimo caso essere necessariamente proposti i rimedi previsti dalla procedura fallimentare.

Ed infatti gli appellanti hanno esercitato il rimedio giuridico previsto per il soddisfacimento del proprio diritto, proponendo in data 5.6.2009 domanda di insinuazione e chiedendo la collocazione nella procedura fallimentare del loro credito restitutorio e risarcitorio affermato con la sentenza.

Diversamente opinando ed accogliendo la tesi degli appellanti, peraltro, si realizzerebbero degli effetti invalidanti il disposto normativo posto a tutela della par condicio creditorum.

Ritiene il Collegio che pure infondate si appalesino le censure mosse alla statuizione di nullità dell’atto di donazione della nuda proprietà, con travolgimento del successivo atto di compravendita della piena proprietà.

Per l’effetto retroattivo della pronuncia risolutoria ex art. 1458 c.c., deve infatti ritenersi che si realizzi una totale restitutio in integrum, venendo meno tutti gli effetti del contratto e con essi tutti i diritti che ne sarebbero derivati e che si considerano come mai entrati nella sfera giuridica dei contraenti stessi (Cass., n. 7470/2001; (Cass., n. 12468/2004).

Al riguardo il giudice di primo grado ha pertanto correttamente ritenuto che la circostanza che la convenuta società non avesse proposto alcuna domanda restitutoria nel giudizio promosso per la risoluzione del contratto dai coniugi omissis e che quindi il giudice non avesse ordinato la restituzione dell’immobile, rimanendo quindi i due coniugi nel possesso materiale del bene, non li rendesse comunque titolari del diritto di proprietà, travolto con effetto retroattivo a seguito della risoluzione contrattuale, né potesse rendere immune da vizi l’atto dispositivo in favore della figlia perché essi non avevano più titolo per disporre legittimamente del bene.

Del pari corretta deve pertanto ritenersi l’affermazione del giudice di primo grado, secondo cui, stante l’assenza di titolarità in capo ai donanti, la donazione sarebbe avvenuta a non domino, conseguendone la nullità per difetto di causa.

Non può trovare accoglimento la tesi degli appellanti, che affermano l’erroneità dell’affermazione del primo giudice, secondo cui la donazione sarebbe nulla per difetto di causa, configurandosi in tal caso solo l’inopponibilità del negozio all’effettivo proprietario dei beni, con la conseguenza che non vertendosi in tema di nullità degli atti dispositivi, sarebbe inapplicabile il disposto di cui all’art. 2652 co. 6 c.c..

Come infatti già evidenziato dal primo giudice, sul punto si è infatti pronunciata, con sentenza n. 5068/2016, la S.C. a Sezioni Unite che, componendo il conflitto tra diversi orientamenti (in particolare tra la tesi per cui la nullità fosse riconducibile all’art. 771 cc, essendo la vendita di bene altrui annoverabile nel concetto di bene futuro, e la tesi secondo cui la donazione di beni altrui non potesse essere ricompresa nella donazione di beni futuri, nulla ex art. 771 cc, ma solo inefficace e, tuttavia, idonea ai fini dell’usucapione abbreviata ex art. 1159 cc che richiede un titolo astrattamente idoneo a trasferire un diritto reale ), ha affermato che la donazione a non domino è nulla per assenza di causa.

La circostanza che l’atto di donazione sia stato trascritto prima della domanda proposta dalla curatela, non si reputa idonea a sanare il vizio originario, avendo la S.C. affermato, per l’ipotesi di conflitto fra acquisto a domino ed acquisto a non domino del medesimo bene, l’inoperatività dell’istituto della trascrizione, che è una forma di pubblicità legale intesa soltanto a risolvere il conflitto fra soggetti che abbiano acquistato lo stesso diritto, con distinti atti, dal medesimo proprietario, senza alcuna efficacia sanante dei vizi di cui sia affetto l'atto negoziale, sicchè l'avvenuta trascrizione di un atto è inidonea ad attribuire la validità di cui esso sia naturalmente privo (Cass., n. 2162/2005; n. 23127/2016).

Neppure corretta può ritenersi l’affermazione secondo la quale nella fattispecie il diritto dei terzi sarebbe stato acquistato dal medesimo proprietario, circostanza che si sarebbe verificata solo qualora il donatario e il terzo acquirente avessero avuto quale proprio dante causa la società proprietaria del bene.

Ne consegue che, diversamente da quanto affermato dagli appellanti, secondo cui il conflitto tra più acquirenti di un diritto reale sullo stesso bene si risolverebbe in base al principio della priorità della trascrizione ex art. 2644 cc , nella situazione in oggetto, il conflitto tra la curatela e Ca. Ma., sub acquirente a seguito di un atto impugnato per nullità, va risolto in base al criterio dettato dall’art. 2652 co. 6 c.c..

L’art. 2652 c.c. dispone infatti che “Si devono trascrivere , qualora si riferiscano ai diritti menzionati nell’art. 2643 , le domande giudiziali indicate dai numeri seguenti, agli effetti per ciascuna di esse previsti: (…) 6) le domande dirette a fare dichiarare la nullità o a far pronunziare l’annullamento di atti soggetti a trascrizione e le domande dirette ad impugnare la validità della trascrizione. Se la domanda è trascritta dopo cinque anni dalla data della trascrizione dell’atto impugnato, la sentenza che l’accoglie non pregiudica i diritti acquistati a qualunque titolo dai terzi di buona fede in base ad un atto trascritto anteriormente alla trascrizione della domanda (…)” .

Sicchè deve ritenersi corretta la valutazione operata dal giudice di primo grado secondo cui, essendo stata nel caso di specie la domanda volta a fare dichiarare la nullità della donazione trascritta nel quinquennio dalla data di trascrizione dell’atto di liberalità (eseguita il 12.12.2008), ne consegue che anche il diritto acquistato da omissis in base all’atto nullo deve ritenersi inevitabilmente travolto in base al citato meccanismo, a prescindere dalla sua buona fede.

Le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo secondo i criteri di cui al D.M. 55/14 e succ. mod. (V scaglione, parametri medi, esclusa la fase istruttoria).

Deve darsi atto della sussistenza, in capo agli appellanti, dei presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ex art. 13 co. 1 quater D.P.R. 115/2002, come introdotto dall’art. 1 comma 17 della legge n. 228/2012. 

PQM 

La Corte d’Appello rigetta l’appello omissis; condanna gli appellanti, in solido, al pagamento delle spese di lite sostenute per la difesa di parte appellata, che liquida in € 9.515,00 oltre 15% per rimborso spese generali, IVA e CPA come per legge. Ricorrono i presupposti per il versamento dell’ulteriore contributo unificato, pari a quello dovuto per l’impugnazione (art. 13 co. 1 quater D.P.R. 115/2002). 

AVVISO. Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità.

26 settembre 2021

34/21. BARNI, Le conseguenze derivanti dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione (Osservatorio Mediazione Civile n. 34/2021)

Le conseguenze derivanti dalla mancata partecipazione
senza giustificato motivo al procedimento di mediazione

di Edoardo Luigi BARNI
Dottore in Giurisprudenza, Mediatore di Controversie Civili e Commerciali

Introduzione 

Tra le varie questioni in materia di mediazione di controversie civili e commerciali delle quali la giurisprudenza si è occupata, vi è quella, che ha costituto di recente oggetto di diverse pronunce (più frequentemente di merito, ma anche di legittimità), inerente alle conseguenze derivanti dalla mancata partecipazione al procedimento di mediazione in assenza di giustificato motivo. Nel testo normativo di riferimento, ovverossia il D.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, la disposizione che viene in rilievo, per quanto riguarda questo tema, è l’art. 8.

Si tratta di una disposizione che detta la disciplina di diversi aspetti concernenti lo svolgimento del procedimento di mediazione, tra i quali la nomina del mediatore dal parte dell’organismo ove è stata depositata l’istanza, la fissazione della data del primo incontro di mediazione, la comunicazione alla parte chiamata sia della domanda sia della data fissata per il primo incontro, la possibilità di nominare uno o più mediatori ausiliari qualora l’oggetto della controversia sia tale da richiedere particolari competenze tecniche nonché la possibilità di avvalersi di esperti.

Quanto al tema che si intende sviluppare più ampiamente ed approfondire in questa trattazione, la previsione normativa di riferimento consiste nel comma 4-bis, e la pronuncia giurisprudenziale che si vuole analizzare è la recentissima sentenza Trib. Torino, 25/03/2021 (il cui testo è riportato, in misura integrale, su https://www.101mediatori.it/sentenze-mediazione/e-sempre-sanzionabile-la-mancata-partecipazione-al-procedimento-di-mediazione-947.aspx), la cui statuizione viene poi confrontata con alcune altre pronunce ad essa precedenti, anche al fine di esaminare situazioni e approcci alla medesima questione tra loro differenti.

Trib. Torino, 25/03/2021: il caso e la decisione del Tribunale di Torino

La causa promossa innanzi al Tribunale di Torino (e che ha avuto esito nella pronuncia su cui ci si vuole concentrare) era inerente ad un contratto bancario, che, secondo la prospettazione di parte attrice, conteneva pattuizioni contra legem e, in particolare, clausole che stabilivano interessi usurai, che si chiedeva pertanto di accertare e dichiarare nulle, con la conseguente rideterminazione del saldo effettivo del conto corrente. Si chiedeva quindi di condannare il convenuto istituto di credito alla restituzione delle somme indebitamente versate dalla società attrice. Dal canto suo, la banca convenuta chiedeva al giudice adito di accertare e dichiarare l’intervenuta prescrizione di qualsiasi diritto restitutorio fatto valere dalla società attrice, nonché di rigettare tutte le domande proposte dall’attrice medesima in quanto infondate in fatto ed in diritto, e dunque confermare, per l’effetto, la legittimità del rapporto di conto corrente e dichiarare che la convenuta nulla doveva a controparte.

Per quanto concerne la questione cui qui si intende dedicare più spazio, occorre partire dal disposto dell’art. 8, comma 4-bis, D.Lgs. n. 28/10. Questa disposizione normativa prevede due tipi di conseguenze, entrambe rilevanti sul piano processuale, nell’ipotesi in cui la parte costituitasi in giudizio non abbia partecipato al procedimento di mediazione senza che vi fosse giustificato motivo alla base di tale condotta (a tale proposito, Bove Mauro, La mancata comparizione innanzi al mediatore, su https://www.judicium.it/wp-content/uploads/saggi/105/Bove.pdf), ovverossia: i) il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio in virtù di quanto stabilito dall’art. 116, comma 2, c.p.c., che prevede la possibilità, per il giudice, di ricavare argomenti di prova da atti e comportamenti tenuti dalle parti; ii) il giudice condanna la parte costituita in giudizio che, nelle ipotesi individuate dall’art. 5 D.Lgs. n. 28/10 (mediazione obbligatoria ex lege, mediazione ex officio iudicis e mediazione cosiddetta “concordata”), non abbia partecipato, senza giustificato motivo, alla procedura stragiudiziale a versare, all’entrata del bilancio dello Stato, una somma di ammontare corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio.

A tale proposito, nel caso di specie, il Tribunale adito ha ritenuto la banca convenuta meritevole di condanna al versamento di una somma, appunto, di importo pari al contributo unificato dovuto per il giudizio, poiché essa, oltre a non partecipare al procedimento di mediazione, non si era neppure curata di fornire alcuna giustificazione riguardo a tale condotta.

È bene specificare e sottolineare che non si tratta del versamento di un ulteriore contributo unificato, bensì di una sanzione, avente natura processuale, il cui ammontare corrisponde a quanto è stato pagato, appunto come contributo unificato, all’atto di iscrizione a ruolo della causa. Tale importo consiste quindi in una sanzione non soggetta alle regole relative al contributo unificato, se non circa la sua quantificazione nell’ammontare (per approfondimenti sul tema, Caglioti Gaetano Walter, Mediazione civile: recupero della sanzione per mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento, su https://blog.ilcaso.it/news_794/26-05-19/Mediazione_civile-_recupero_della_sanzione_per_mancata_partecipazione_senza_giustificato_motivo_al_procedimento).

In un’altra recente pronuncia di merito, ovverossia la sentenza Trib. Roma, 7 luglio 2020 (il cui testo è riportato su http://osservatoriomediazionecivile.blogspot.com/2020/11/4420-mancata-partecipazione-alla.html), avente oggetto un caso in cui la mediazione era obbligatoria e ciononostante la parte convenuta non aveva partecipato alla procedura stragiudiziale senza peraltro preoccuparsi di addurre alcuna giustificazione alla base di ciò, tale condotta omissiva era stata qualificata come rilevante ai sensi dell’art. 96, comma 3, c.p.c., disposizione codicistica che concerne l’ipotesi di lite temeraria e che sanziona il comportamento della parte che, sebbene consapevole dell’infondatezza della sua domanda od eccezione, la propone ugualmente.  

Ci si deve poi soffermare, per quanto riguarda la sentenza del Tribunale di Torino, su una precisazione addotta in detta pronuncia circa la previsione della sanzione pecuniaria di cui all’art. 8, comma 4-bis: essa prescinde da quello che è poi l’esito del giudizio e la ratio di tale previsione normativa è individuabile in un principio che esprime l’importanza dell’istituto della mediazione, ovverossia quello secondo cui la partecipazione alla procedura stragiudiziale rappresenta un valore in sé,  indipendentemente, dunque, dal merito della controversia e dal convincimento di non essere poi soccombente all’esito del giudizio

Nel caso di specie, infatti, se da un lato il Tribunale ha rigettato le domande proposte dalla attrice, ha condannato la stessa, in persona del legale rappresentante pro tempore, a rimborsare alla banca le spese per il giudizio ed ha posto a carico della attrice le spese di ctu, dall’altro lato ha condannato la convenuta alla sanzione pecuniaria di cui all’art. 8, comma 4-bis.

La sentenza di merito appena analizzata, limitatamente al tema oggetto di questa trattazione, consente dunque di concentrarsi su una questione rilevante in materia di mediazione civile e commerciale e in ordine alla quale conviene riflettere. Proprio guardando al caso esaminato dal Tribunale di Torino e ad altri casi ad esso analoghi oppure più o meno simili, si è portati a chiedersi se la parte comparsa in sede di primo incontro davanti al mediatore nominato, qualora non intenda aderire alla procedura, debba manifestare, in tale sede, i motivi alla base di questa sua scelta, e a chiedersi se di questi motivi debba o meno rimanere traccia, anche al fine di evitare di andare incontro alle conseguenze di cui all’art. 8, comma 4-bis.

Il dissenso alla mediazione, e cioè a prendere parte alla procedura stragiudiziale, dovrebbe essere consapevole, informato e, come rimarcato ripetutamente, motivato (riguardo a questi profili, aventi anche importanza pratica, si veda Spina Giulio, Mediazione: il decalogo dei requisiti del diniego di partecipare, in commento a Trib. Vasto, ordinanza riservata 6 dicembre 2016, su https://www.altalex.com/documents/news/2016/12/19/requisiti-diniego-di-partecipare-a-mediazione-condanna-sanzione-pecuniaria-parte-assente). Non può dirsi tale il dissenso alla mediazione qualora esso appaia basato su argomentazioni della quali non sia possibile rilevare la portata giustificativa. Non può, parimenti, dirsi tale il dissenso alla mediazione qualora lo stesso non sia stato preceduto dall’attività di informazione che deve notoriamente essere espletata dal mediatore designato in sede di primo incontro, avente carattere prodromico alla mediazione vera e propria.

Precedenti pronunce di legittimità e di merito e relativi approcci alla questione

Altre pronunce giurisprudenziali hanno preceduto quella appena esaminata del Tribunale di Torino, occupandosi, tra l’altro, della questione delle conseguenze derivanti dalla mancata partecipazione al procedimento di mediazione. Se ne richiamano qui di seguito alcune, sia per confrontare approcci tra loro differenti a fronte della medesima questione in considerazione delle particolarità dei vari casi, sia per provare a chiarire meglio quando, in concreto, può dirsi sussistente il “giustificato motivo” di cui all’art. 8, comma 4-bis, D.Lgs. n. 28/10.

Molto recente è la sentenza  App. Genova, 13 luglio 2020, n. 652 (il cui testo è riportato su https://www.mondoadr.it/giurisprudenza_art/non-costituisce-giustificato-motivo-la-mancata-partecipazione-alla-mediazione-per-la-pretesa-infondatezza-delle-ragioni-della-controparte/), che, oltre a  sottolineare la necessità in considerazione della quale è stato introdotto l’istituto della mediazione, ossia quella di permettere alle parti di trovare una composizione amichevole alla controversia tra loro insorta, qualifica la partecipazione delle parti agli incontri in cui si articola il procedimento di mediazione come una condotta “assolutamente doverosa” che le parti stesse possono mancare di tenere solo ove vi sia un “giustificato motivo impeditivo” che presenti – e anche in questa più specifica indicazione può essere ravvisato interesse per la pronuncia in questione – i caratteri della “assolutezza” e della “non temporaneità”.

Un’altra pronuncia di merito che è opportuno citare, nell’ambito di questa rapida rassegna, è App. Milano, 16 dicembre 2020 (il cui testo è riportato su http://osservatoriomediazionecivile.blogspot.com/2021/05/2221-complessita-procedimentale.html), anche perché essa individua, nel caso esaminato, un “giustificato motivo” in virtù del quale alla parte che non aveva partecipato alla mediazione non si è ritenuto dovesse essere comminata la sanzione pecuniaria ex art. 8, comma 4-bis. Nel caso di specie, un condominio, in qualità di appellante, deduceva che il giudice di primo grado aveva ritenuto priva di giustificazione la sua mancata partecipazione alla procedura, ed affermava che si sarebbe invece dovuto tenere conto sia della complessità dell’iter che l’amministratore del condominio avrebbe dovuto seguire al fine di poter giungere a sottoscrivere, appunto in sede stragiudiziale, una transazione con le controparti, dovendo ciò notoriamente essere preceduto dalla convocazione di un’assemblea e da una libera in virtù della quale fosse autorizzata la partecipazione all’incontro di mediazione. A ciò si aggiungevano le complessità procedimentali legate all’autorizzazione a chiedere, sempre in sede di mediazione, la nomina di un consulente tecnico e ad altri successivi passaggi nonché una compagine condominiale assai folta. Erano, in altri termini, la complessità ed anche l’incertezza di questo strutturato iter procedimentale a costituire, in questo caso, il “giustificato motivo” e a indurre a ritenere preferibile l’instaurazione di un giudizio ordinario. La Corte d’Appello, considerato tutto ciò, ha dunque ritenuto, al contrario del giudice di primo grado, giustificata la condotta del condominio.

Una sentenza di merito più risalente, ovverossia Trib. Roma, 29 maggio 2014 (il cui testo è riportato integralmente su https://www.adrintesa.it/news-mediazione-civile/giurisprudenza/tribunale-di-roma-sez-xiii-civile-sentenza-29-maggio-2014), fornisce ulteriori indicazioni riguardo alle circostanze in cui è rinvenibile il requisito del “giustificato motivo”. Muovendo ovviamente dalle dinamiche caratterizzanti il caso di specie, il Tribunale ha osservato come la parte che non abbia partecipato al procedimento di mediazione non possa limitarsi ad opporre, come giustificato motivo alla base di tale condotta, l’affermazione (evidentemente aprioristica) per cui la propria tesi è corretta e fondata a differenza di quella prospettata da controparte. D’altronde, ritenendo una simile asserzione tale da giustificare la mancata partecipazione alla procedura stragiudiziale, chiunque potrebbe ritenere sussistente in capo a sé un giustificato motivo rilevante ai sensi dell’art. art. 8, comma 4-bis, D.Lgs. n. 28/10. Tra l’altro, come ha sottolineato il Tribunale di Roma nella richiamata sentenza, un simile atteggiamento basato su posizioni aprioristiche stride con quello che è lo spirito della mediazione: laddove via sia un contrasto tra le parti, il compito del mediatore è anche e in primis quello di riallacciare tra le stesse i canali di comunicazione e di dialogo, non potendo, proprio affinché ciò sia possibile, esservi alcuna presa di posizione preconcetta ed anzi occorrendo una partecipazione effettiva.

Si richiama, infine, una pronuncia di legittimità, Cass., 26 gennaio 2018, n. 2030 (in Foro it., Le banche dati, Archivio Cassazione civile e su http://osservatoriomediazionecivile.blogspot.com/2018/11/5218-corte-di-cassazione-su-mancata.html), che afferma un principio in tema di impugnazione del provvedimento di condanna alla sanzione pecuniaria che viene comminata nell’ipotesi di ingiustificata mancata partecipazione alla mediazione. In questa pronuncia, si afferma che non può essere proposto ricorso straordinario per cassazione ex art. 111, comma 7, Cost. avverso l’esercizio di tale potere sanzionatorio. L’ordinanza di condanna alla sanzione pecuniaria in discorso può essere impugnata ma attraverso l’appello presentato avverso la sentenza che definisce il giudizio seguito alla procedura stragiudiziale, tenendo conto che detta sentenza deve contenere anche la comminatoria della sanzione di cui all’art. 8, comma 4-bis.

Pavia, 05/08/2021 

Il presente contributo è stato inviato in Redazione quale materiale inedito, di esclusiva paternità dell’Autore e libero da qualunque diritto di sfruttamento, proprietà o altro da parte di terzi. Per contattare la Redazione è possibile scrivere all’indirizzo dell’Osservatorio (info.osservatoriomediazionecivile@gmail.com).

Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 33/2021 

33/21. La partecipazione alla mediazione è un valore in sé: si tratta di un principio ormai immanente dell'ordinamento giuridico (Osservatorio Mediazione Civile n. 33/2021)

=> Tribunale Torino, 25 marzo 2021 

In applicazione dell'art. 8, comma 4 bis, d.lgs. 28/2010 la parte che non ha partecipato al procedimento di mediazione e non ha fornito alcuna giustificazione di tale mancata partecipazione deve essere condannata a versare all'entrata del bilancio dello Stato una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il presente giudizio. Si tratta di una prescrizione (versamento dell'importo a favore dello Stato) che prescinde dall'esito del giudizio e la cui ratio risiede nella violazione di quello che è ormai un principio immanente dell'ordinamento giuridico e cioè che la partecipazione alla mediazione è un valore in sé, a prescindere dal merito e quindi dal convincimento di non dover incorrere nella soccombenza (I).

(I) Si veda l’art. 8, D.lgs. 4 marzo 2010 n. 28 (Osservatorio Mediazione Civile n. 38/2018). 

Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 33/2021
(www.osservatoriomediazionecivile.blogspot.com)

Tribunale di Torino
Sentenza
25 marzo 2021

Omissis 

Le doglianze sul punto di parte attrice non risultano quindi fondate, dovendosi anche osservare che l'art. 198 (richiamato in ordinanza ma comunque operante a prescindere) opera con il consenso di tutte le parti che, ovviamente, sono libere di prestarlo o meno.

Ciò premesso, si ritiene che la domanda attorea debba essere respinta perché non provata: in mancanza degli estratti conto (non prodotti e non richiesti ai sensi delle norme sopra citate) non è stato infatti possibile effettuare alcuna verifica delle doglianze formulate da parte attrice. Il CTU ha pertanto dovuto limitare la sua indagine alla documentazione contrattuale in atti, riferendo che - in presenza degli estratti conto - avrebbe considerato legittimo l'anatocismo (nei termini indicati nel quesito) atteso che il contratto 20.9.2004 riporta la clausola di pari periodicità trimestrale e la sottoscrizione del cliente e che - sempre in presenza degli estratti conto mancanti in atti - non avrebbe operato alcuno storno delle somme addebitate a titolo di cms in quanto il contratto prevede la corretta indicazione di tale commissione e di varie voci di spese. Non è stato possibile, al CTU, effettuare ulteriori considerazioni attesa la carenza della documentazione contabile che era onere (non assolto) di parte attrice produrre o far confluire in giudizio. Resta solo da aggiungere che, in questo contesto, l' eccezione di prescrizione formulata da parte convenuta risulta assorbita.

Atteso quanto sopra esposto, la domanda attorea deve essere respinta senza necessità di nuova CTU e/o di integrazione della CTU esperita e le spese del giudizio, liquidate nella misura che verrà indicata in dispositivo, seguono la soccombenza (DM 2014 n. 55, scaglione fino ad euro 52.000, valori medi).

Anche le spese di CTU, come già liquidate (decreto 4.12.20) vanno poste a carico di parte attrice. Si richiama inoltre il principio giurisprudenziale in base al quale: "in tema di consulenza tecnica di ufficio, il compenso dovuto al consulente è posto solidalmente a carico di tutte le parti, atteso che l' attività posta in essere dal professionista è finalizzata alla realizzazione del superiore interesse della giustizia, che invece non rileva nei rapporti interni tra le parti, nei quali la ripartizione delle spese è regolata dal diverso principio della soccombenza" (Cass. civ., sez. II, 30/12/2009, n. 28094).

In applicazione dell'art. 8, comma 4 bis del d. lgs. 2010 n. 28 - a norma del quale "Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall'art. 5, non ha partecipato al procedimento [di mediazione] senza giustificato motivo al versamento all'entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio"- omissis, che non ha partecipato al procedimento di mediazione e non ha fornito alcuna giustificazione di tale mancata partecipazione, deve essere condannata a versare all'entrata del bilancio dello Stato una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il presente giudizio. Si tratta, come è noto, di una prescrizione (versamento dell'importo a favore dello Stato) che prescinde dall'esito del giudizio e la cui ratio risiede nella violazione di quello che è ormai un principio immanente dell'ordinamento giuridico e cioè che la partecipazione alla mediazione è un valore in sé, a prescindere dal merito e quindi dal convincimento di non dover incorrere nella soccombenza. 

PQM 

Il Tribunale, decidendo nel procedimento iscritto nel RG al n. 6773/19, ogni contraria istanza, eccezione e deduzione respinta o dichiarata assorbita o inammissibile, così provvede: rigetta le domande omissis; condanna omissis, in persona del legale rappresentante pro tempore, a rimborsare a omissis, in persona del legale rappresentante pro tempore, le spese del giudizio, che liquida in euro 7.254,00, oltre IVA e cpa come per legge e rimborso forfettario nella misura del 15%; pone le spese di CTU, come già liquidate, a definitivo carico di omissis, in persona del legale rappresentante pro tempore; condanna omissis, in persona del legale rappresentante pro tempore, a versare all' entrata del bilancio dello Stato una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il presente giudizio. 

AVVISO. Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità.

17 settembre 2021

32/21. Precedenti tentativi di mediazione non andati a buon fine: giusto motivo di mancata partecipazione? (Osservatorio Mediazione Civile n. 32/2021)

=> Tribunale Roma, 15 gennaio 2021 

Non costituisce giusto motivo di mancata partecipazione lo svolgimento di precedenti tentativi di mediazione non andati a buon fine. In tal caso, dunque, la mancata partecipazione al tentativo obbligatorio di mediazione comporta l’applicazione della sanzione di cui all’art. 8, comma 4 bis, d.lgs. 28/2010 (I). 

(I) Si veda l’art. 8, D.lgs. 4 marzo 2010 n. 28 (Osservatorio Mediazione Civile n. 38/2018).

Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 32/2021 (www.osservatoriomediazionecivile.blogspot.com)

Tribunale Roma
Sentenza
15 gennaio 2021

Omissis

Sulla prima domanda di risarcimento del danno da mancata restituzione in pristino.

Sul punto omissis in liquidazione s.r.l., come visto, lamenta l’erroneità della C.T.U. nonché la circostanza di fatto che i predetti lavori sarebbero stati autorizzati da omissis il 23.02.2005 (cfr. autorizzazione del febbraio 2005 allegato 2 alla memoria di costituzione). Sul punto, poi, la C.T.U. sarebbe carente ed erronea perché il Perito del Tribunale avrebbe ipotizzato che il proprietario non fosse stato reso edotto dei lavori.

Tale eccezione, però, non coglie nel segno visto che l’art. 6 del contratto recita che “La conduttrice dichiara di aver esaminato i locali affittati e di averli trovati adatti al proprio uso, in buono stato di manutenzione ed esenti da difetti che possano influire sulla salute di chi vi svolge attività e si obbliga a riconsegnarli alla scadenza del contratto nello stesso stato”. E ancor più chiaramente all’art. 8 si legge: “La conduttrice è costituita custode della cosa locata e si obbliga a mantenere e riconsegnare i locali con gli 6 impianti e le dotazioni, così come ricevuti, in buono stato di conservazione salvo il deperimento d’uso”. Appare di palmare evidenza, allora, che la Bimbi Allegri in liquidazione s.r.l., nella sottoscrizione del contratto regolarmente allegato (cfr. allegato 1 al ricorso) abbia assunto un’obbligazione ulteriore rispetto a quella di cui all’art. 1590 c.c. e più penetrante impegnandosi a riconsegnare i locali esattamente nello stato ricevuto. Quest’ultimo, contrariamente a quanto falsamente sostenuto dalla Bimbi Allegri in liquidazione s.r.l., era certamente un buono stato locativo. Tale semplice osservazione si basa sulla dichiarazione confessoria resa dalla stessa conduttrice nel contratto di locazione. Come noto la confessione ha valore di prova legale e non ammette prova contraria.

D’altra parte la stessa giurisprudenza, anche di merito, chiarisce che “In tema di locazioni, se nel contratto è inserita la clausola con cui il conduttore dichiara di avere visitato i locali e di averli trovati esenti da vizi e in buono stato manutentivo, non è più possibile, per il conduttore stesso, ritrattare tale dichiarazione e contestare, eventualmente anche in causa, il fatto che l'immobile, al momento della consegna, presentava invece dei vizi. La clausola in questione, infatti, non è una semplice formula "di stile", inserita più per consuetudine: al contrario, essa ha un preciso significato sostanziale, integrando, a tutti gli effetti, una confessione stragiudiziale resa dal conduttore circa lo stato manutentivo del bene consegnatogli. Pertanto, proprio perché si tratta di "confessione", tale dichiarazione costituisce una "prova legale": ossia, in base alle regole del processo civile, una prova che non può essere più messa in discussione, né superata da altre prove” (Tribunale di Pisa, sentenza del 22.03.2016). Dunque tutte le osservazioni contenute nella memoria di costituzione: quelle secondo le quali la mancata liberazione dell’immobile non può definirsi cattiva manutenzione e che la diversa distribuzione dei locali sarebbe compatibile con il rispristino all’uso abitativo sono superate dalle espresse pattuizioni contrattuali.

Parimenti il regime giuridico delle migliorie non può essere ricondotto a quanto previsto dall’art. 1592 c.c. stante la pattuizione delle parti secondo la quale l’immobile doveva essere restituito nell’esatto stato dell’originaria consegna.

D’altra parte che le opere realizzate dalla omissis in liquidazione s.r.l. costituiscano reali migliorie è affermazione apodittica e del tutto priva di riscontro probatorio. Invero la Suprema Corte chiarisce che “Nella nozione di 7 "miglioramenti" ai sensi dell'art. 1592 cod. civ. rientrano quelle opere che con trasformazioni o sistemazioni diverse apportano all'immobile un aumento di valore, accrescendone in modo durevole il godimento, la produttività e la redditività, senza presentare una propria individualità rispetto al bene in cui vanno ad incorporarsi” (Corte di Cassazione, Sez. III, sen. n. 13070/2004). Nel caso di specie, invece, nessun miglioramento è stato apportato all’immobile tanto che lo stesso proprietario chiede la restituzione in pristino dell’immobile come, peraltro, espressamente pattuito nel contratto. D’altra parte appaiono del tutto sfornite di prova le eccezioni di compensazione della omissis in liquidazione s.r.l. Ci si riferisce a presunte migliorie e opere di manutenzione per le quali non è stato fornito alcun riscontro probatorio: non una fattura, un progetto o un contratto di appalto. D’altra parte la omissis in liquidazione s.r.l. avrebbe potuto avanzare ricorso per A.T.P., come fatto dallo stesso omissis, per fare accertare le presunte opere di miglioria.

Infine deve constatarsi come la relazione peritale di cui all’A.T.P. avente appare completa, dettagliata e priva di vizi logici così che il relativo contenuto è fatto proprio dall’organo giudicante. Appare conforme e adeguata la quantificazione dei costi di restituzione in pristino di € 53.295,11 oltre Iva.

In conclusione la domanda di omissis deve essere accolta e la omissis in liquidazione s.r.l. deve essere condannata al pagamento di € 53.295,11 oltre Iva e interessi nella misura legale dalla data di riconsegna del 08.09.2017 fino a quella di effettivo pagamento.

Deve, però, essere rigettata la richiesta di condanna al risarcimento delle spese di A.T.P. omissis.

Sulle spese Le spese di lite devono essere compensate in ragione del mancato accoglimento della gran parte delle domande di parte ricorrente. Sul punto la Suprema Corte chiarisce che “La nozione di soccombenza reciproca, che consente la compensazione parziale o totale tra le parti delle spese processuali (art. 92, comma 2, c.p.c.), si verifica - anche in relazione al principio di causalità - nelle ipotesi in cui vi è una pluralità di domande contrapposte, accolte o rigettate e che siano state cumulate nel medesimo processo fra le stesse parti, ovvero venga accolta parzialmente l'unica domanda proposta, sia essa articolata in un unico capo o in più capi, dei quali siano stati accolti uno o alcuni e rigettati gli altri” (Corte di Cassazione, Sez. III, ord. n. 20888/2018).

La mancata partecipazione della omissis in liquidazione s.r.l. al tentativo obbligatorio di mediazione comporta l’applicazione della sanzione di cui all’art. 8, comma 4 bis, del D. Lgs. 28/2010. Infatti non costituisce giusto motivo di mancata partecipazione lo svolgimento di precedenti tentativi di mediazione non andati a buon fine.

Pertanto omissis in liquidazione s.r.l. deve essere condannata al pagamento, in favore dello Stato Italiano, di una somma pari al contributo unificato dovuto per il presente giudizio. 

PQM 

Il Giudice definitivamente pronunciando sulla causa specificata in epigrafe, disattesa ogni contraria istanza, eccezione e deduzione, così provvede: dichiara inammissibile la domanda nuova presentata da omissis di pagamento dell’indennità di occupazione per il periodo necessario alla realizzazione dei lavori di restituzione in pristino; dichiara inammissibili i documenti allegati da omissis alla memoria conclusionale; condanna la omissis in liquidazione s.r.l. al pagamento, in favore di omissis, della somma di € 53.295,11 oltre Iva e interessi nella misura legale dalla data di riconsegna del 08.09.2017 fino a quella di effettivo pagamento; rigetta la domanda di omissis al risarcimento del danno da lucro cessante; rigetta la domanda di omissis al pagamento dell’integrazione dell’indennità di occupazione per i mesi di giugno e luglio 2017; condanna omissis in liquidazione s.r.l. al pagamento, in favore di omissis, della somma di € 5.301,54 oltre interessi legali dal 08.09.2017 fino alla data di effettivo pagamento per l’occupazione relativa ai mesi di agosto e settembre 2017; rigetta la richiesta di condanna al pagamento della somma di € 3.860,50 a titolo di spese per A.T.P.; rigetta la richiesta di condanna ex art. 96 c.p.c.; compensa le spese di lite; condanna omissis in liquidazione s.r.l. al pagamento, in favore dello Stato Italiano, di una somma pari al contributo unificato dovuto per il presente giudizio. 

AVVISO. Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità.

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