DIRITTO D'AUTORE


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30 settembre 2021

35/21. Il limite della prima udienza vale sia per il mancato esperimento che il mancato completamento della procedura (Osservatorio Mediazione Civile n. 35/2021)

=> Corte appello Bari, 24 marzo 2021, n. 593

In tema di mediazione obbligatoria, l'art.5, comma 1-bis, d.lgs. 28/2010 pone a pena di decadenza il limite della prima udienza per l’eccezione di improcedibilità da parte del convenuto o per il rilievo d’ufficio da parte del giudice. Deve ritenersi che tale norma sia applicabile alla regolarità formale del contraddittorio sotto il profilo sia del mancato esperimento che del mancato completamento della procedura di mediazione e tanto all’evidente scopo di non vanificare, in applicazione del principio di economia processuale, l’attività processuale eventualmente compiutasi in presenza del vizio (I).  

(I) Si veda l’art. 5, D.lgs. 4 marzo 2010 n. 28 (Osservatorio Mediazione Civile n. 38/2018).

Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 35/2021
(www.osservatoriomediazionecivile.blogspot.com)

Corte di appello di Bari
Sentenza n. 593
24 marzo 2021

Omissis 

Con l’impugnata sentenza il giudice di primo grado ha preliminarmente affermato non potersi dichiarare l’improcedibilità per mancato esperimento della procedura di mediazione, essendo stati regolarmente convocati i convenuti in data 26.4.2012, come risultante dalla documentazione prodotta dall’attrice (all. 13).

Nel merito ha innanzitutto affermato il diritto della curatela ad ottenere la restituzione di quanto ricevuto dai convenuti in esecuzione del contratto di compravendita poi risolto, stante la retroattività degli effetti della risoluzione ex art. 1458 c.c., essendo quindi venuto meno il titolo delle rispettive prestazioni.

Ha rilevato al riguardo che, pur non avendo nella specie la società convenuta formulato domanda restitutoria nel giudizio conclusosi con la sentenza di risoluzione e non essendosi quindi il giudice pronunciato sul punto, tanto non rendeva immune da vizi l’atto dispositivo posto in essere dai coniugi omissis in favore della figlia, non avendo essi più alcun titolo di proprietà per disporre del bene, a prescindere quindi dal fatto che ne avessero la disponibilità.

Rilevato pertanto che il trasferimento in favore della figlia fosse da considerarsi a non domino, riteneva il primo giudice priva di pregio l’eccezione ex art. 1460 c.c. formulata da parte convenuta, secondo cui essa sarebbe stata legittimata a non restituire il bene a fronte dell’inadempimento della omissis s.r.l. alla restituzione del prezzo da essi versato, atteso che una volta pronunciata la risoluzione del contratto, le rispettive prestazioni vengono travolte e non rileva più la valutazione dell’inadempimento di ciascuna parte, configurandosi un indebito.

Il primo giudice riteneva poi nulla la donazione a non domino per assenza di causa, sulla scorta dei principi affermati dalla S.C. a Sezione Unite con la sentenza n. 5068/2016, con conseguente infondatezza dell’eccezione di usucapione abbreviata ex art. 1159 c.c. invocata da parte convenuta, per la quale non ricorreva peraltro neppure il presupposto temporale, essendo l’atto di donazione avvenuto in data 26.11.2008 e quello di acquisto da parte di omissis nel 2009.

Riteneva altresì infondata la tesi difensiva di quest’ultimo convenuto, secondo cui, in assenza della trascrizione della sentenza di risoluzione, il conflitto tra gli acquirenti di un diritto reale sullo stesso bene si sarebbe dovuto risolvere in base al principio della priorità della trascrizione ex art. 2644 c.c. (con la conseguenza che avendo egli trascritto per primo, il suo diritto avrebbe dovuto prevalere rispetto a quello vantato dalla curatela), dovendosi nella fattispecie risolvere il conflitto tra la Curatela e omissis, subacquirente a seguito di un atto impugnato per nullità, in base al criterio dettato dall’art. 2652 c.c., essendo stata trascritta la domanda volta a far dichiarare la nullità della donazione nel quinquennio dalla data di trascrizione dell’atto di liberalità (eseguita il 12.12.2008), con la conseguenza che il diritto acquistato da omissis in base all’atto nullo doveva ritenersi inevitabilmente travolto, a prescindere dalla sua buona fede.

Il primo giudice accoglieva pertanto la domanda principale, rigettando tuttavia la domanda risarcitoria per difetto di prova, non risultando provato dalla Curatela che l’illegittima detenzione del bene da parte dei convenuti le avesse impedito di trarne i frutti o che tale condotta avesse provocato un ritardo nella soddisfazione del ceto creditorio.

Compensava quindi per 1/3 le spese di lite e condannava i convenuti in solido alla rifusione dei residui due terzi in favore della Curatela omissis.

L’appello è infondato.

Va preliminarmente esaminata l’eccezione di improcedibilità della domanda, sollevata in primo grado all’udienza di precisazione delle conclusioni e riproposta da parte appellante.

Parte appellante, a fronte della produzione documentale di parte appellata (relativa alla prova della ricezione della raccomandata del 26.4.2012 inviata al omissis nonché alla comunicazione a mezzo fax inviata ai difensori), in memoria conclusionale ne ha addotto la tardività, in quanto depositata dall’attore con la propria memoria di replica in primo grado, dopo che erano abbondantemente maturate tutte le preclusioni istruttorie e senza che la Curatela abbia richiesto ed ottenuto un qualsivoglia provvedimento di rimessione in termini, neppure richiesto in questa fase di giudizio.

In via meramente subordinata ha disconosciuto la conformità agli originali delle copie dei documenti depositati dalla controparte ed ha rilevato che detta raccomandata non sarebbe stata ricevuta personalmente dal omissis, ma da tale omissis, non meglio qualificato.

L’eccezione va rigettata.

In tema di mediazione obbligatoria, qual è quella oggetto di causa, l'art. 5 comma 1 (vigente all’epoca dell’introduzione del giudizio e dichiarato incostituzionale con sentenza della Corte Costituzionale del (omissis)) e comma 1-bis (comma inserito dall’art. 84, comma 1, lett. b), D.L. 21 giugno 2013, n. 69) del D. L.vo n. 28/2010, pongono a pena di decadenza il limite della prima udienza per l’eccezione di improcedibilità da parte del convenuto o per il rilievo d’ufficio da parte del giudice.

Deve ritenersi che tale norma sia applicabile alla regolarità formale del contraddittorio sotto il profilo sia del mancato esperimento che del mancato completamento della procedura di mediazione (cfr. Cass., sent. n. n.32797/2019) e tanto all’evidente scopo di non vanificare, in applicazione del principio di economia processuale, l’attività processuale eventualmente compiutasi in presenza del vizio, come accaduto nella fattispecie, in cui anche dopo l’avvenuto deposito del verbale di conciliazione ed i plurimi rinvii con salvezza dei diritti di prima udienza, la dedotta mancata convocazione non è stata eccepita dal convenuto durante tutto il corso del giudizio e fino all’udienza di precisazione delle conclusioni, avendo anzi tutte le parti richiesto l’assegnazione dei termini di cui all’art. 183 co. 6 c.c. e svolto le proprie difese.

Ne discende che, a prescindere dalla tardiva produzione della prova della convocazione da parte dell’attore, il vizio deve ritenersi sanato.

Rileva peraltro il Collegio che ogni questione relativa all’improcedibilità della domanda per mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione debba ritenersi in ogni caso superata a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 5 co. 1 del citato d.l.vo con sentenza della Corte Cost. n. 272 del 6.12.2012, intervenuta nel corso del giudizio di primo grado, essendo stato reinserito il comma 1 bis dall’art. 84 co. 1 lett. b) del d.l. n. 69 del 21.6.2013, conv. con mod. in l. n. 98 del 9.8.2013 (G.U. n. 194 del 20 agosto 2013) con effetti decorrenti dal 30°. giorno dall’entrata in vigore della legge di conversione, e cioè dal 21 settembre 2013. Rimangono quindi esclusi dall’ambito di operatività della norma i procedimenti instaurati prima di tale data.

Passando al merito, va rilevato che con l’atto di appello non si contesta specificamente l’affermazione del giudice di prime cure, di accertamento del diritto di proprietà della curatela (per essere stato il diritto di proprietà dei coniugi omissis travolto ex art. 1458 c.c. dalla sentenza di risoluzione e non potendo pertanto essi legittimamente disporne), ma solo le statuizioni inerenti l’obbligo dei convenuti di restituzione del bene e la validità degli atti di disposizione dagli stessi compiuti.

Quanto al primo profilo, essi sostengono che il giudice avrebbe travisato l’eccezione da loro proposta, erroneamente qualificandola come eccezione ex art. 1460 c.c. anziché come eccezione ex art. 2041 c.c., dovendo in tal senso interpretarsi le argomentazioni contenute alle pagg. 9 e 10 della loro comparsa di risposta, inerenti la interdipendenza delle reciproche prestazioni, il mancato adempimento da parte della società venditrice delle obbligazioni restitutoria e risarcitoria stabilite con sentenza n. 77/2006 e la non surrogabilità della prestazione da questa dovuta con l’ammissione al passivo del fallimento in via chirografaria.

Adducono poi che, in ogni caso, si sarebbe trattato di un fatto impeditivo, costituente eccezione rilevabile anche d’ufficio e propongono detta eccezione in questa sede.

Ritiene il Collegio che non sia dato ravvisare i presupposti per l’accoglimento dell’eccezione ex art. 2041 c.c., che sono gli stessi della corrispondente azione, non essendo dato configurare il requisito della sussidiarietà.

L’azione generale di arricchimento ingiustificato può essere esercitata solo quando manchi un titolo specifico sul quale fondare un diritto di credito, con la conseguenza che il giudice, anche d’ufficio, deve accertare che non sussista altra specifica azione per le restituzioni ovvero per l’indennizzo del pregiudizio subito, contro lo stesso soggetto arricchito o contro soggetti terzi (cfr. Cass., n. 6299/2000; 26199/2017).

Infatti essa postula che non sia prevista nell’ordinamento giuridico altra azione tipica a tutela di colui che lamenti il depauperamento, ovvero che la domanda sia stata respinta sotto il profilo della carenza ab origine dell’azione proposta, per difetto del titolo posto a suo fondamento, dovendo la valutazione dell’esistenza delle altre azioni essere effettuata in astratto, prescindendo dall’esito concreto delle stesse (cfr. Cass., n. 20747/2007; n. 2350/2017).

Pertanto la sussidiarietà non va riferita agli strumenti processuali per far valere il titolo, ma all’assenza di un titolo e di azioni sostanziali per far valere il diritto, non potendo, in presenza di un titolo, farsi ricorso all’azione ex art. 2041 c.c. per attribuire rilievo a situazioni congiunturali, quali l’insolvenza dell’obbligato, che impediscano la soddisfazione del diritto consacrato nel titolo.

Nella specie, a fronte di una sentenza definitiva sancente la risoluzione con obbligo restitutorio ex art. 2033 c.c. e risarcitorio in capo alla società venditrice in bonis, costituente titolo della pretesa, lo strumento processuale previsto per ottenere il soddisfacimento del diritto è da ravvisarsi nelle azioni esecutive che il creditore può proporre nei confronti dell’obbligato, a nulla rilevando nella specie che dette azioni non siano state tempestivamente ed utilmente avviate o che nelle more il debitore sia fallito, dovendo in tale ultimo caso essere necessariamente proposti i rimedi previsti dalla procedura fallimentare.

Ed infatti gli appellanti hanno esercitato il rimedio giuridico previsto per il soddisfacimento del proprio diritto, proponendo in data 5.6.2009 domanda di insinuazione e chiedendo la collocazione nella procedura fallimentare del loro credito restitutorio e risarcitorio affermato con la sentenza.

Diversamente opinando ed accogliendo la tesi degli appellanti, peraltro, si realizzerebbero degli effetti invalidanti il disposto normativo posto a tutela della par condicio creditorum.

Ritiene il Collegio che pure infondate si appalesino le censure mosse alla statuizione di nullità dell’atto di donazione della nuda proprietà, con travolgimento del successivo atto di compravendita della piena proprietà.

Per l’effetto retroattivo della pronuncia risolutoria ex art. 1458 c.c., deve infatti ritenersi che si realizzi una totale restitutio in integrum, venendo meno tutti gli effetti del contratto e con essi tutti i diritti che ne sarebbero derivati e che si considerano come mai entrati nella sfera giuridica dei contraenti stessi (Cass., n. 7470/2001; (Cass., n. 12468/2004).

Al riguardo il giudice di primo grado ha pertanto correttamente ritenuto che la circostanza che la convenuta società non avesse proposto alcuna domanda restitutoria nel giudizio promosso per la risoluzione del contratto dai coniugi omissis e che quindi il giudice non avesse ordinato la restituzione dell’immobile, rimanendo quindi i due coniugi nel possesso materiale del bene, non li rendesse comunque titolari del diritto di proprietà, travolto con effetto retroattivo a seguito della risoluzione contrattuale, né potesse rendere immune da vizi l’atto dispositivo in favore della figlia perché essi non avevano più titolo per disporre legittimamente del bene.

Del pari corretta deve pertanto ritenersi l’affermazione del giudice di primo grado, secondo cui, stante l’assenza di titolarità in capo ai donanti, la donazione sarebbe avvenuta a non domino, conseguendone la nullità per difetto di causa.

Non può trovare accoglimento la tesi degli appellanti, che affermano l’erroneità dell’affermazione del primo giudice, secondo cui la donazione sarebbe nulla per difetto di causa, configurandosi in tal caso solo l’inopponibilità del negozio all’effettivo proprietario dei beni, con la conseguenza che non vertendosi in tema di nullità degli atti dispositivi, sarebbe inapplicabile il disposto di cui all’art. 2652 co. 6 c.c..

Come infatti già evidenziato dal primo giudice, sul punto si è infatti pronunciata, con sentenza n. 5068/2016, la S.C. a Sezioni Unite che, componendo il conflitto tra diversi orientamenti (in particolare tra la tesi per cui la nullità fosse riconducibile all’art. 771 cc, essendo la vendita di bene altrui annoverabile nel concetto di bene futuro, e la tesi secondo cui la donazione di beni altrui non potesse essere ricompresa nella donazione di beni futuri, nulla ex art. 771 cc, ma solo inefficace e, tuttavia, idonea ai fini dell’usucapione abbreviata ex art. 1159 cc che richiede un titolo astrattamente idoneo a trasferire un diritto reale ), ha affermato che la donazione a non domino è nulla per assenza di causa.

La circostanza che l’atto di donazione sia stato trascritto prima della domanda proposta dalla curatela, non si reputa idonea a sanare il vizio originario, avendo la S.C. affermato, per l’ipotesi di conflitto fra acquisto a domino ed acquisto a non domino del medesimo bene, l’inoperatività dell’istituto della trascrizione, che è una forma di pubblicità legale intesa soltanto a risolvere il conflitto fra soggetti che abbiano acquistato lo stesso diritto, con distinti atti, dal medesimo proprietario, senza alcuna efficacia sanante dei vizi di cui sia affetto l'atto negoziale, sicchè l'avvenuta trascrizione di un atto è inidonea ad attribuire la validità di cui esso sia naturalmente privo (Cass., n. 2162/2005; n. 23127/2016).

Neppure corretta può ritenersi l’affermazione secondo la quale nella fattispecie il diritto dei terzi sarebbe stato acquistato dal medesimo proprietario, circostanza che si sarebbe verificata solo qualora il donatario e il terzo acquirente avessero avuto quale proprio dante causa la società proprietaria del bene.

Ne consegue che, diversamente da quanto affermato dagli appellanti, secondo cui il conflitto tra più acquirenti di un diritto reale sullo stesso bene si risolverebbe in base al principio della priorità della trascrizione ex art. 2644 cc , nella situazione in oggetto, il conflitto tra la curatela e Ca. Ma., sub acquirente a seguito di un atto impugnato per nullità, va risolto in base al criterio dettato dall’art. 2652 co. 6 c.c..

L’art. 2652 c.c. dispone infatti che “Si devono trascrivere , qualora si riferiscano ai diritti menzionati nell’art. 2643 , le domande giudiziali indicate dai numeri seguenti, agli effetti per ciascuna di esse previsti: (…) 6) le domande dirette a fare dichiarare la nullità o a far pronunziare l’annullamento di atti soggetti a trascrizione e le domande dirette ad impugnare la validità della trascrizione. Se la domanda è trascritta dopo cinque anni dalla data della trascrizione dell’atto impugnato, la sentenza che l’accoglie non pregiudica i diritti acquistati a qualunque titolo dai terzi di buona fede in base ad un atto trascritto anteriormente alla trascrizione della domanda (…)” .

Sicchè deve ritenersi corretta la valutazione operata dal giudice di primo grado secondo cui, essendo stata nel caso di specie la domanda volta a fare dichiarare la nullità della donazione trascritta nel quinquennio dalla data di trascrizione dell’atto di liberalità (eseguita il 12.12.2008), ne consegue che anche il diritto acquistato da omissis in base all’atto nullo deve ritenersi inevitabilmente travolto in base al citato meccanismo, a prescindere dalla sua buona fede.

Le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo secondo i criteri di cui al D.M. 55/14 e succ. mod. (V scaglione, parametri medi, esclusa la fase istruttoria).

Deve darsi atto della sussistenza, in capo agli appellanti, dei presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ex art. 13 co. 1 quater D.P.R. 115/2002, come introdotto dall’art. 1 comma 17 della legge n. 228/2012. 

PQM 

La Corte d’Appello rigetta l’appello omissis; condanna gli appellanti, in solido, al pagamento delle spese di lite sostenute per la difesa di parte appellata, che liquida in € 9.515,00 oltre 15% per rimborso spese generali, IVA e CPA come per legge. Ricorrono i presupposti per il versamento dell’ulteriore contributo unificato, pari a quello dovuto per l’impugnazione (art. 13 co. 1 quater D.P.R. 115/2002). 

AVVISO. Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità.

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