=> Corte appello Bari, 24 marzo 2021, n. 593
In tema di mediazione obbligatoria, l'art.5, comma 1-bis, d.lgs. 28/2010 pone a pena di decadenza il limite della prima udienza per l’eccezione di improcedibilità da parte del convenuto o per il rilievo d’ufficio da parte del giudice. Deve ritenersi che tale norma sia applicabile alla regolarità formale del contraddittorio sotto il profilo sia del mancato esperimento che del mancato completamento della procedura di mediazione e tanto all’evidente scopo di non vanificare, in applicazione del principio di economia processuale, l’attività processuale eventualmente compiutasi in presenza del vizio (I).
(I) Si veda l’art. 5, D.lgs. 4 marzo 2010 n. 28 (Osservatorio Mediazione Civile n. 38/2018).
Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 35/2021
(www.osservatoriomediazionecivile.blogspot.com)
Omissis
Con l’impugnata sentenza il giudice di primo grado ha preliminarmente
affermato non potersi dichiarare l’improcedibilità per mancato esperimento
della procedura di mediazione, essendo stati regolarmente convocati i convenuti
in data 26.4.2012, come risultante dalla documentazione prodotta dall’attrice
(all. 13).
Nel merito ha innanzitutto affermato il diritto della curatela ad
ottenere la restituzione di quanto ricevuto dai convenuti in esecuzione del
contratto di compravendita poi risolto, stante la retroattività degli effetti
della risoluzione ex art. 1458 c.c., essendo quindi venuto meno il titolo delle
rispettive prestazioni.
Ha rilevato al riguardo che, pur non avendo nella specie la società
convenuta formulato domanda restitutoria nel giudizio conclusosi con la
sentenza di risoluzione e non essendosi quindi il giudice pronunciato sul
punto, tanto non rendeva immune da vizi l’atto dispositivo posto in essere dai
coniugi omissis in favore della
figlia, non avendo essi più alcun titolo di proprietà per disporre del bene, a
prescindere quindi dal fatto che ne avessero la disponibilità.
Rilevato pertanto che il trasferimento in favore della figlia fosse da
considerarsi a non domino, riteneva il primo giudice priva di pregio
l’eccezione ex art. 1460 c.c. formulata da parte convenuta, secondo cui essa
sarebbe stata legittimata a non restituire il bene a fronte dell’inadempimento
della omissis s.r.l. alla
restituzione del prezzo da essi versato, atteso che una volta pronunciata la
risoluzione del contratto, le rispettive prestazioni vengono travolte e non
rileva più la valutazione dell’inadempimento di ciascuna parte, configurandosi
un indebito.
Il primo giudice riteneva poi nulla la donazione a non domino per
assenza di causa, sulla scorta dei principi affermati dalla S.C. a Sezione
Unite con la sentenza n. 5068/2016, con conseguente infondatezza dell’eccezione
di usucapione abbreviata ex art. 1159 c.c. invocata da parte convenuta, per la
quale non ricorreva peraltro neppure il presupposto temporale, essendo l’atto
di donazione avvenuto in data 26.11.2008 e quello di acquisto da parte di omissis nel 2009.
Riteneva altresì infondata la tesi difensiva di quest’ultimo convenuto,
secondo cui, in assenza della trascrizione della sentenza di risoluzione, il
conflitto tra gli acquirenti di un diritto reale sullo stesso bene si sarebbe
dovuto risolvere in base al principio della priorità della trascrizione ex art.
2644 c.c. (con la conseguenza che avendo egli trascritto per primo, il suo
diritto avrebbe dovuto prevalere rispetto a quello vantato dalla curatela),
dovendosi nella fattispecie risolvere il conflitto tra la Curatela e omissis, subacquirente a seguito di un
atto impugnato per nullità, in base al criterio dettato dall’art. 2652 c.c.,
essendo stata trascritta la domanda volta a far dichiarare la nullità della
donazione nel quinquennio dalla data di trascrizione dell’atto di liberalità
(eseguita il 12.12.2008), con la conseguenza che il diritto acquistato da omissis in base all’atto nullo doveva
ritenersi inevitabilmente travolto, a prescindere dalla sua buona fede.
Il primo giudice accoglieva pertanto la domanda principale, rigettando
tuttavia la domanda risarcitoria per difetto di prova, non risultando provato
dalla Curatela che l’illegittima detenzione del bene da parte dei convenuti le
avesse impedito di trarne i frutti o che tale condotta avesse provocato un
ritardo nella soddisfazione del ceto creditorio.
Compensava quindi per 1/3 le spese di lite e condannava i convenuti in
solido alla rifusione dei residui due terzi in favore della Curatela omissis.
L’appello è infondato.
Va preliminarmente esaminata l’eccezione di improcedibilità della
domanda, sollevata in primo grado all’udienza di precisazione delle conclusioni
e riproposta da parte appellante.
Parte appellante, a fronte della produzione documentale di parte
appellata (relativa alla prova della ricezione della raccomandata del 26.4.2012
inviata al omissis nonché alla
comunicazione a mezzo fax inviata ai difensori), in memoria conclusionale ne ha
addotto la tardività, in quanto depositata dall’attore con la propria memoria
di replica in primo grado, dopo che erano abbondantemente maturate tutte le
preclusioni istruttorie e senza che la Curatela abbia richiesto ed ottenuto un
qualsivoglia provvedimento di rimessione in termini, neppure richiesto in
questa fase di giudizio.
In via meramente subordinata ha disconosciuto la conformità agli
originali delle copie dei documenti depositati dalla controparte ed ha rilevato
che detta raccomandata non sarebbe stata ricevuta personalmente dal omissis, ma da tale omissis, non meglio qualificato.
L’eccezione va rigettata.
In tema di mediazione obbligatoria, qual è quella oggetto di causa,
l'art. 5 comma 1 (vigente all’epoca dell’introduzione del giudizio e dichiarato
incostituzionale con sentenza della Corte Costituzionale del (omissis)) e comma
1-bis (comma inserito dall’art. 84, comma 1, lett. b), D.L. 21 giugno 2013, n.
69) del D. L.vo n. 28/2010, pongono a pena di decadenza il limite della prima
udienza per l’eccezione di improcedibilità da parte del convenuto o per il
rilievo d’ufficio da parte del giudice.
Deve ritenersi che tale norma sia applicabile alla regolarità formale
del contraddittorio sotto il profilo sia del mancato esperimento che del
mancato completamento della procedura di mediazione (cfr. Cass., sent. n.
n.32797/2019) e tanto all’evidente scopo di non vanificare, in applicazione del
principio di economia processuale, l’attività processuale eventualmente
compiutasi in presenza del vizio, come accaduto nella fattispecie, in cui anche
dopo l’avvenuto deposito del verbale di conciliazione ed i plurimi rinvii con
salvezza dei diritti di prima udienza, la dedotta mancata convocazione non è
stata eccepita dal convenuto durante tutto il corso del giudizio e fino
all’udienza di precisazione delle conclusioni, avendo anzi tutte le parti
richiesto l’assegnazione dei termini di cui all’art. 183 co. 6 c.c. e svolto le
proprie difese.
Ne discende che, a prescindere dalla tardiva produzione della prova
della convocazione da parte dell’attore, il vizio deve ritenersi sanato.
Rileva peraltro il Collegio che ogni questione relativa
all’improcedibilità della domanda per mancato esperimento del tentativo
obbligatorio di conciliazione debba ritenersi in ogni caso superata a seguito
della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 5 co. 1 del citato
d.l.vo con sentenza della Corte Cost. n. 272 del 6.12.2012, intervenuta nel
corso del giudizio di primo grado, essendo stato reinserito il comma 1 bis
dall’art. 84 co. 1 lett. b) del d.l. n. 69 del 21.6.2013, conv. con mod. in l.
n. 98 del 9.8.2013 (G.U. n. 194 del 20 agosto 2013) con effetti decorrenti dal
30°. giorno dall’entrata in vigore della legge di conversione, e cioè dal 21
settembre 2013. Rimangono quindi esclusi dall’ambito di operatività della norma
i procedimenti instaurati prima di tale data.
Passando al merito, va rilevato che con l’atto di appello non si
contesta specificamente l’affermazione del giudice di prime cure, di
accertamento del diritto di proprietà della curatela (per essere stato il
diritto di proprietà dei coniugi omissis
travolto ex art. 1458 c.c. dalla sentenza di risoluzione e non potendo pertanto
essi legittimamente disporne), ma solo le statuizioni inerenti l’obbligo dei
convenuti di restituzione del bene e la validità degli atti di disposizione
dagli stessi compiuti.
Quanto al primo profilo, essi sostengono che il giudice avrebbe
travisato l’eccezione da loro proposta, erroneamente qualificandola come
eccezione ex art. 1460 c.c. anziché come eccezione ex art. 2041 c.c., dovendo
in tal senso interpretarsi le argomentazioni contenute alle pagg. 9 e 10 della
loro comparsa di risposta, inerenti la interdipendenza delle reciproche
prestazioni, il mancato adempimento da parte della società venditrice delle
obbligazioni restitutoria e risarcitoria stabilite con sentenza n. 77/2006 e la
non surrogabilità della prestazione da questa dovuta con l’ammissione al passivo
del fallimento in via chirografaria.
Adducono poi che, in ogni caso, si sarebbe trattato di un fatto
impeditivo, costituente eccezione rilevabile anche d’ufficio e propongono detta
eccezione in questa sede.
Ritiene il Collegio che non sia dato ravvisare i presupposti per
l’accoglimento dell’eccezione ex art. 2041 c.c., che sono gli stessi della
corrispondente azione, non essendo dato configurare il requisito della
sussidiarietà.
L’azione generale di arricchimento ingiustificato può essere esercitata
solo quando manchi un titolo specifico sul quale fondare un diritto di credito,
con la conseguenza che il giudice, anche d’ufficio, deve accertare che non
sussista altra specifica azione per le restituzioni ovvero per l’indennizzo del
pregiudizio subito, contro lo stesso soggetto arricchito o contro soggetti
terzi (cfr. Cass., n. 6299/2000; 26199/2017).
Infatti essa postula che non sia prevista nell’ordinamento giuridico
altra azione tipica a tutela di colui che lamenti il depauperamento, ovvero che
la domanda sia stata respinta sotto il profilo della carenza ab origine
dell’azione proposta, per difetto del titolo posto a suo fondamento, dovendo la
valutazione dell’esistenza delle altre azioni essere effettuata in astratto,
prescindendo dall’esito concreto delle stesse (cfr. Cass., n. 20747/2007; n.
2350/2017).
Pertanto la sussidiarietà non va riferita agli strumenti processuali
per far valere il titolo, ma all’assenza di un titolo e di azioni sostanziali
per far valere il diritto, non potendo, in presenza di un titolo, farsi ricorso
all’azione ex art. 2041 c.c. per attribuire rilievo a situazioni congiunturali,
quali l’insolvenza dell’obbligato, che impediscano la soddisfazione del diritto
consacrato nel titolo.
Nella specie, a fronte di una sentenza definitiva sancente la
risoluzione con obbligo restitutorio ex art. 2033 c.c. e risarcitorio in capo
alla società venditrice in bonis, costituente titolo della pretesa, lo
strumento processuale previsto per ottenere il soddisfacimento del diritto è da
ravvisarsi nelle azioni esecutive che il creditore può proporre nei confronti
dell’obbligato, a nulla rilevando nella specie che dette azioni non siano state
tempestivamente ed utilmente avviate o che nelle more il debitore sia fallito,
dovendo in tale ultimo caso essere necessariamente proposti i rimedi previsti
dalla procedura fallimentare.
Ed infatti gli appellanti hanno esercitato il rimedio giuridico
previsto per il soddisfacimento del proprio diritto, proponendo in data
5.6.2009 domanda di insinuazione e chiedendo la collocazione nella procedura
fallimentare del loro credito restitutorio e risarcitorio affermato con la
sentenza.
Diversamente opinando ed accogliendo la tesi degli appellanti,
peraltro, si realizzerebbero degli effetti invalidanti il disposto normativo
posto a tutela della par condicio creditorum.
Ritiene il Collegio che pure infondate si appalesino le censure mosse
alla statuizione di nullità dell’atto di donazione della nuda proprietà, con
travolgimento del successivo atto di compravendita della piena proprietà.
Per l’effetto retroattivo della pronuncia risolutoria ex art. 1458
c.c., deve infatti ritenersi che si realizzi una totale restitutio in integrum,
venendo meno tutti gli effetti del contratto e con essi tutti i diritti che ne
sarebbero derivati e che si considerano come mai entrati nella sfera giuridica
dei contraenti stessi (Cass., n. 7470/2001; (Cass., n. 12468/2004).
Al riguardo il giudice di primo grado ha pertanto correttamente
ritenuto che la circostanza che la convenuta società non avesse proposto alcuna
domanda restitutoria nel giudizio promosso per la risoluzione del contratto dai
coniugi omissis e che quindi il
giudice non avesse ordinato la restituzione dell’immobile, rimanendo quindi i
due coniugi nel possesso materiale del bene, non li rendesse comunque titolari
del diritto di proprietà, travolto con effetto retroattivo a seguito della
risoluzione contrattuale, né potesse rendere immune da vizi l’atto dispositivo
in favore della figlia perché essi non avevano più titolo per disporre legittimamente
del bene.
Del pari corretta deve pertanto ritenersi l’affermazione del giudice di
primo grado, secondo cui, stante l’assenza di titolarità in capo ai donanti, la
donazione sarebbe avvenuta a non domino, conseguendone la nullità per difetto
di causa.
Non può trovare accoglimento la tesi degli appellanti, che affermano
l’erroneità dell’affermazione del primo giudice, secondo cui la donazione
sarebbe nulla per difetto di causa, configurandosi in tal caso solo
l’inopponibilità del negozio all’effettivo proprietario dei beni, con la
conseguenza che non vertendosi in tema di nullità degli atti dispositivi,
sarebbe inapplicabile il disposto di cui all’art. 2652 co. 6 c.c..
Come infatti già evidenziato dal primo giudice, sul punto si è infatti
pronunciata, con sentenza n. 5068/2016, la S.C. a Sezioni Unite che, componendo
il conflitto tra diversi orientamenti (in particolare tra la tesi per cui la
nullità fosse riconducibile all’art. 771 cc, essendo la vendita di bene altrui
annoverabile nel concetto di bene futuro, e la tesi secondo cui la donazione di
beni altrui non potesse essere ricompresa nella donazione di beni futuri, nulla
ex art. 771 cc, ma solo inefficace e, tuttavia, idonea ai fini dell’usucapione
abbreviata ex art. 1159 cc che richiede un titolo astrattamente idoneo a
trasferire un diritto reale ), ha affermato che la donazione a non domino è
nulla per assenza di causa.
La circostanza che l’atto di donazione sia stato trascritto prima della
domanda proposta dalla curatela, non si reputa idonea a sanare il vizio
originario, avendo la S.C. affermato, per l’ipotesi di conflitto fra acquisto a
domino ed acquisto a non domino del medesimo bene, l’inoperatività
dell’istituto della trascrizione, che è una forma di pubblicità legale intesa
soltanto a risolvere il conflitto fra soggetti che abbiano acquistato lo stesso
diritto, con distinti atti, dal medesimo proprietario, senza alcuna efficacia
sanante dei vizi di cui sia affetto l'atto negoziale, sicchè l'avvenuta
trascrizione di un atto è inidonea ad attribuire la validità di cui esso sia
naturalmente privo (Cass., n. 2162/2005; n. 23127/2016).
Neppure corretta può ritenersi l’affermazione secondo la quale nella
fattispecie il diritto dei terzi sarebbe stato acquistato dal medesimo
proprietario, circostanza che si sarebbe verificata solo qualora il donatario e
il terzo acquirente avessero avuto quale proprio dante causa la società
proprietaria del bene.
Ne consegue che, diversamente da quanto affermato dagli appellanti,
secondo cui il conflitto tra più acquirenti di un diritto reale sullo stesso
bene si risolverebbe in base al principio della priorità della trascrizione ex
art. 2644 cc , nella situazione in oggetto, il conflitto tra la curatela e Ca.
Ma., sub acquirente a seguito di un atto impugnato per nullità, va risolto in
base al criterio dettato dall’art. 2652 co. 6 c.c..
L’art. 2652 c.c. dispone infatti che “Si devono trascrivere , qualora
si riferiscano ai diritti menzionati nell’art. 2643 , le domande giudiziali
indicate dai numeri seguenti, agli effetti per ciascuna di esse previsti: (…)
6) le domande dirette a fare dichiarare la nullità o a far pronunziare
l’annullamento di atti soggetti a trascrizione e le domande dirette ad
impugnare la validità della trascrizione. Se la domanda è trascritta dopo
cinque anni dalla data della trascrizione dell’atto impugnato, la sentenza che
l’accoglie non pregiudica i diritti acquistati a qualunque titolo dai terzi di
buona fede in base ad un atto trascritto anteriormente alla trascrizione della
domanda (…)” .
Sicchè deve ritenersi corretta la valutazione operata dal giudice di
primo grado secondo cui, essendo stata nel caso di specie la domanda volta a
fare dichiarare la nullità della donazione trascritta nel quinquennio dalla
data di trascrizione dell’atto di liberalità (eseguita il 12.12.2008), ne
consegue che anche il diritto acquistato da omissis
in base all’atto nullo deve ritenersi inevitabilmente travolto in base al
citato meccanismo, a prescindere dalla sua buona fede.
Le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e
vengono liquidate in dispositivo secondo i criteri di cui al D.M. 55/14 e succ.
mod. (V scaglione, parametri medi, esclusa la fase istruttoria).
Deve darsi atto della sussistenza, in capo agli appellanti, dei presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ex art. 13 co. 1 quater D.P.R. 115/2002, come introdotto dall’art. 1 comma 17 della legge n. 228/2012.
PQM
La Corte d’Appello rigetta l’appello omissis; condanna gli appellanti, in solido, al pagamento delle spese di lite sostenute per la difesa di parte appellata, che liquida in € 9.515,00 oltre 15% per rimborso spese generali, IVA e CPA come per legge. Ricorrono i presupposti per il versamento dell’ulteriore contributo unificato, pari a quello dovuto per l’impugnazione (art. 13 co. 1 quater D.P.R. 115/2002).
AVVISO. Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità.