=> Tribunale di Firenze, 8 maggio 2019
Non è condivisibile il principio
di diritto espresso da Cassazione
civile, 27 marzo 2019 n. 8473, dovendosi invece ritenere che, ai fini della condizione
di procedibilità, già nel
corso del primo incontro, superata e conclusa la fase dedicata
all’informativa delle parti, si debba procedere
ad effettiva mediazione avendo difatti il primo incontro di mediazione natura essenzialmente “bifasica”, la
prima informativa, sulle modalità e funzioni della mediazione, e la seconda di
mediazione effettiva (I) (II) (III).
(I) Cassazione
civile, 27 marzo 2019 n. 8473 (in Osservatorio Mediazione Civile n. 19/2019)
ha di recente affermato che la condizione di procedibilità può
ritenersi realizzata al termine del primo incontro davanti al mediatore,
qualora una o entrambe le parti, richieste dal mediatore dopo essere
state adeguatamente informate sulla mediazione, comunichino la
propria indisponibilità di procedere oltre.
(II) Si vedano
gli artt. 5, comma 2-bis, e 8 D.lgs. 4 marzo 2010
n. 28 (Osservatorio Mediazione Civile n. 38/2018).
(III) La sentenza, di cui si riporta di seguito estratto (concernente la parte motivazionale
dedicata al contrasto giurisprudenziale evidenziato nella massima), è pubblicata gratuitamente, in
esclusiva, in La Nuova Procedura Civile 3, 2019.
Fonte: Osservatorio
Mediazione Civile n. 24/2019
Tribunale di Firenze
Sentenza
sezione terza civile
8 maggio 2019
Omissis
1) La mediazione delegata dal Giudice come condizione di procedibilità.
La normativa vigente e la lettura offerta dalla giurisprudenza di merito.
…omissis…
Altro orientamento, sempre a sostegno dell’effettività della
mediazione, condiviso da questo Giudice, come già esplicitato chiaramente nell’ordinanza
di invio in mediazione, ritiene invece che, già nel corso del primo incontro di
mediazione, superata e conclusa la fase dedicata all’informativa delle parti,
si debba procedere ad effettiva mediazione (trattasi di linea interpretativa
generalmente condivisa negli ultimi anni dai Giudici della III e V sez. civile
di questo Ufficio, oltre che, ad es., da Trib. Pavia, ord. 26.09.2016; Trib.
Siracusa, ord. 15.05.2018; Corte d'Appello Milano, Sent. 10.05.2017. Sul punto
si veda anche, da ultimo, questo Tribunale sentenza 27.4.2019, est.
Mazzarelli).
Il primo incontro di mediazione dovrebbe, quindi, avere natura
essenzialmente “bifasica”, la prima informativa, sulle modalità e funzioni
della mediazione, e la seconda di mediazione effettiva.
…omissis…
2) Il dictum della Corte di Cassazione sent. n. 8473 del
27.03.2019.
In questo contesto interpretativo, come accennato, è intervenuta la
Suprema Corte di Cassazione.
La questione in diritto all’esame della Corte concerneva, in un caso di
mediazione ante causam la problematica, ai fini della procedibilità,
della necessaria presenza o meno delle parti e della legittimazione
rappresentativa dei difensori nell’ambito del primo incontro avanti al
mediatore.
In tale contesto la Suprema Corte ha affrontato anche il seguente
ulteriore e diverso aspetto, costituente vero e proprio obiter dictum,
affermando il seguente principio di diritto: “La condizione di procedibilità
può ritenersi realizzata al termine del primo incontro davanti al mediatore,
qualora una o entrambe le parti, richieste dal mediatore dopo essere state
adeguatamente informate sulla mediazione, comunichino la propria
indisponibilità di procedere oltre”.
…omissis…
3) Le ragioni del dissenso rispetto a tale pronuncia. Necessità che il
primo incontro di mediazione abbia contenuto anche effettivo ai fini della
procedibilità della domanda.
Ritiene il giudicante che il principio di diritto affermato dalla
Suprema Corte, a quanto consta primo ed unico precedente di legittimità sul
punto, non sia condivisibile per molteplici ragioni, in buona parte già
evidenziate dalla pregressa giurisprudenza di merito e che il giudice di
legittimità, nell’obiter dictum sopra indicato, non sembra avere
adeguatamente valutato.
Ciò induce a dare ulteriore seguito all’indirizzo interpretativo di
merito sopra evidenziato.
In proposito vengono in rilievo le seguenti considerazioni in diritto.
In primis, circa l’argomento fondato sulla struttura del
procedimento, si osserva che non si rinviene, nella disciplina legale (in part.
art. 8 D.lgs. n. 28/2010) una rigida distinzione tra “incontro preliminare”
e “uno o più incontri di effettivo svolgimento della mediazione”.
Infatti, dall’art. 8 cit. si rinviene piuttosto un dato diverso,
essendo ivi previsto che “nello stesso primo incontro, [il mediatore] invita
poi le parti e i loro avvocati a esprimersi sulla possibilità di iniziare la
procedura di mediazione e, nel caso positivo, procede con lo svolgimento”.
Espressa la “possibilità di iniziare la procedura”, il mediatore “procede
con lo svolgimento” del procedimento di mediazione “nello stesso primo
incontro”. Il contenuto della norma, di per sé sembra condurre a
conclusioni esattamente opposte a quelle fatte proprie dalla pronuncia di
legittimità.
Del resto, lo stesso D.lgs. n. 28/2010 prevede che, nell’ambito del
primo incontro, possa addivenirsi ad un accordo conciliativo.
Ciò si ricava, a contrario, dall’art. 5 comma 2-bis e dall’art. 17
comma 5-ter del decreto che fanno riferimento all’ipotesi che “il primo
incontro si concluda senza accordo”, così lasciando intendere che un
accordo vi possa anche essere; ma, sembra evidente, che perché vi possa essere
un accordo, le parti devono essere messe nella condizione di interloquire nel
merito delle reciproche posizioni e far emergere i propri interessi già in
quella sede. Occorre, in altre parole, che già al primo incontro la mediazione
tra le parti sia effettiva.
Ancora, rimanendo sull’analisi letterale delle disposizioni di legge
oggetto della pronuncia, la sentenza della Corte di legittimità interpreta il
termine “possibilità”, sulla quale il mediatore chiede alle parti di esprimersi
ex art. 8 D.lgs. n. 28/2010, come “parere negativo sulla possibilità di
utilmente iniziare (rectius proseguire) il procedimento”, in tal modo di
fatto confondendo la “possibilità” di avviare la mediazione con la “volontà” di
mediare, che è concetto ben diverso.
Un criterio letterale di interpretazione suggerisce, al contrario, di
tenere ben distinti i concetti di “possibilità”, termine utilizzato dall’art. 8
D.lgs. n. 28/2010, da quello di volontà, essendo solo il primo volto,
normalmente, a indicare situazioni oggettivamente abilitanti il compimento di
azioni o l’esercizio di facoltà o diritti. Nella fattispecie, sembra
maggiormente conforme alla lettera della legge l’interpretazione secondo cui la
“possibilità”, che le parti sono chiamate a rappresentare al mediatore e sulla
quale egli le chiama ad esprimersi, debba considerarsi come inerente alle
condizioni ostative all’utile e legittimo esperimento della mediazione vera e
propria. Tale impossibilità, ad esempio, e senza pretesa di completezza,
ricorrerà nei casi in cui vi sia un difetto di legittimazione o di
rappresentanza sostanziale del soggetto che partecipa alla mediazione; ovvero,
qualora il procedimento sia stato attivato in relazione a controversie aventi a
oggetto materia sottratta alla disponibilità delle parti. Dunque, il vaglio
preliminare di possibilità sembra doversi intendere come possibilità oggettiva
di procedere alla mediazione, a nulla rilevando le valutazioni delle parti,
meramente soggettive, inerenti la mera volontà di procedere.
In tal senso depongono anche argomenti logici e sistematici.
Ritenere che “possibilità” equivalga a “volontà” finisce con equiparare
la mediazione obbligatoria (per volontà del legislatore, ovvero del giudice che
l’abbia disposta in corso di causa) a quella facoltativa, sempre ammessa in
materia di diritti disponibili ed il cui mancato esperimento è privo di
sanzione processuale.
Così opinando, tuttavia, la mediazione facoltativa e quella
obbligatoria non sarebbero più sostanzialmente distinguibili, con l’effetto di
un’interpretazione abrogante dello stesso istituto della mediazione
obbligatoria (in questo senso, tra le molte, v. Trib. Firenze, ordinanza 19
marzo 2014- est. Breggia; Trib. Firenze, ord. 15 ottobre 2015 – est. Scionti;
Tribunale Siracusa, sez. II 30 marzo 2016; Tribunale Firenze Sez. spec. Impresa
16 febbraio 2016; Tribunale Firenze, 21 aprile 2015).
Non condivisibile è poi l’ulteriore argomento addotto dalla S.C. circa
la necessità di interpretare restrittivamente (o meglio, “in modo non estensivo”)
le ipotesi di giurisdizione condizionata quali quelle ove è obbligatoria la
mediazione. Tale impostazione sembra voler intendere che l’obbligatorietà di
una mediazione effettiva sarebbe sostanzialmente ostativa e pregiudicante
rispetto al diritto di azione, così potendosi ipotizzare un potenziale
conflitto di tale disciplina con l’art. 24 della Costituzione.
Sul punto è sufficiente richiamarsi, per confutare la tesi della S.C.,
ai principi che provengono dal Giudice delle Leggi e dalla giurisprudenza
comunitaria.
La Corte Costituzionale, nella materia analoga del tentativo
obbligatorio di conciliazione nelle controversie in materia di lavoro –previsto
fino al 2010 – e del possibile contrasto di tale istituto con gli artt. 3 e 24
Cost. ha statuito, con sentenza n. 276/2000, che “la giurisprudenza
consolidata di questa Corte ritiene che l’art. 24 della Costituzione, laddove
tutela il diritto di azione, non comporta l’assoluta immediatezza del suo
esperimento, ben potendo la legge imporre oneri finalizzati a salvaguardare
<<interessi generali>>, con le dilazioni conseguenti. E’ appunto
questo il caso in esame, in quanto il tentativo obbligatorio di conciliazione
tende a soddisfare l’interesse generale sotto un duplice profilo: da un lato,
evitando che l’aumento delle controversie attribuite al giudice ordinario in
materia di lavoro provochi un sovraccarico dell’apparato giudiziario, con
conseguenti difficoltà per il suo funzionamento; dall’altro, favorendo la
composizione preventiva della lite, che assicura alle situazioni sostanziali un
soddisfacimento più immediato rispetto a quella conseguita attraverso il
processo. La normativa denunciata è, d’altronde, modulata secondo linee che
rendono intrinsecamente ragionevole il limite all’immediatezza della tutela
giurisdizionale. […]Quanto all’improcedibilità della domanda per il mancato
esperimento del tentativo di conciliazione (art.412-bis), tale sanzione, lungi
dal risolversi in una questione processuale inutile, rappresenta la misura con
la quale l’ordinamento assicura effettività all’osservanza dell’onere. Dal suo
canto l’estinzione del giudizio per mancata tempestiva riassunzione (art.
412-bis, quinto comma) costituisce normale applicazione del principio generale
che considera con sfavore l’inattività delle parti. Sotto nessuno degli
indicati profili può, pertanto, ravvisarsi violazione dell’art. 24 della
Costituzione.”.
Trattasi di considerazioni senz’altro estensibili anche all’istituto
della mediazione obbligatoria e al suo “impatto” sulla tutela giurisdizionale
dei diritti.
Sostanzialmente sulla stessa linea interpretativa è il dibattito in
ambito sovranazionale, ove è ricorrente l’affermazione, fondata sulle Carte dei
diritti fondamentali (in part. CEDU e CDFUE) secondo cui i sistemi di
risoluzione delle controversie alternativi alla giurisdizione, ove previsti
obbligatoriamente dalla legge, devono essere giustificati da ragioni di
interesse pubblico e non devono essere eccessivamente gravosi.
La Dir. 2008/52/CE, relativa a “determinati aspetti della mediazione in
materia civile e commerciale” (il cui testo è stato recentemente confermato
dalla Commissione europea nel 2016), che prevede il ricorso a procedimenti di
mediazione nell’ambito delle controversie di natura transfrontaliera, è
conforme a tali indicazioni: l’art. 5 co. 2 della Direttiva fa salva la
possibilità per la legislazione nazionale di prevedere forme obbligatorie di
mediazione, sia prima che dopo l’inizio del procedimento giudiziario, “purché
tale legislazione non impedisca alle parti di esercitare il diritto di accesso
al sistema giudiziario”.
In argomento si richiama la sentenza 14.06.2017 della Corte di
Giustizia dell’Unione Europea, (Livio e altri, causa C-75/16), la quale, in una
fattispecie di mediazione obbligatoria in materia consumeristica, interpretando
la Dir. 2013/11/UE (nota come direttiva “ADR consumatori”), ha ritenuto che la
previsione di ipotesi di mediazione obbligatoria ante causam sia compatibile
con il Diritto dell’Unione, purché si tratti di interventi “con obiettivi di
interesse generale e tali interventi non siano sproporzionati ed inaccettabili”,
tali da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti. Si tratta di
principi già affermati in precedenza dalla CGUE, ad esempio con sentenza 18.03.2010,
Alassini e altri (cause da C-317/08 a C-320/08), resa in una fattispecie
caratterizzata da tentativo obbligatorio di conciliazione ante causam in
materia consumeristica (in questo caso, con riferimento alla Direttiva
“servizio universale” Dir. 2002/22/CE). In tale arresto (punti 61-64) si legge
che “il principio della tutela giurisdizionale effettiva costituisce un
principio generale del diritto dell’Unione che deriva dalle tradizioni
costituzionali comuni agli Stati membri e che è stato sancito dagli artt. 6 e
13 della CEDU, oltre ad essere stato ribadito anche dall’art. 47 della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea (v. sentenza Mono Car Styling,
cit., punto 47 e giurisprudenza ivi citata). A tal riguardo è pacifico nelle
fattispecie principali che, subordinando la ricevibilità dei ricorsi
giurisdizionali proposti in materia di servizi di comunicazioni elettroniche
all’esperimento di un tentativo obbligatorio di conciliazione, la normativa
nazionale di cui trattasi ha introdotto una tappa supplementare per l’accesso
al giudice. Tale condizione potrebbe incidere sul principio della tutela
giurisdizionale effettiva. Tuttavia, secondo una giurisprudenza costante, i
diritti fondamentali non si configurano come prerogative assolute, ma possono soggiacere
a restrizioni, a condizione che queste rispondano effettivamente ad obiettivi
di interesse generale perseguiti dalla misura di cui trattasi e non
costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato ed
inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti
(v., in tal senso, sentenza 15 giugno 2006, causa C 28/05, Dokter e a., Racc.
pag. I-5431, punto 75, e giurisprudenza ivi citata, nonché Corte eur. D.U.,
sentenza Fogarty c. Regno Unito del 21 novembre 2001, Recueil des arrêts et
décisions 2001-XI, § 33). Orbene, come rilevato in udienza dal governo
italiano, si deve anzitutto constatare che le disposizioni nazionali di cui
trattasi hanno ad oggetto una definizione più spedita e meno onerosa delle controversie
in materia di comunicazioni elettroniche, nonché un decongestionamento dei
tribunali, e perseguono quindi legittimi obiettivi di interesse generale”.
Venendo in concreto alla disciplina dell’istituto della mediazione di
cui al D. Lgs. n. 28/2010 e ssmmii, non può dubitarsi che essa sia in linea con
i suddetti principi generali, ancorché interpretata nel senso che qui si va
sostenendo.
Infatti, emergono gli interessi generali che si intendono perseguire
mediante il ricorso alla mediazione obbligatoria.
Essa è istituto giuridico che ha funzione complessa, che in parte ha
una ricaduta in termini di deflazione del contenzioso giurisdizionale e in
parte mira a favorire un diverso e alternativo metodo di risoluzione dei
conflitti inter-privati.
La produzione normativa degli ultimi anni mostra una sempre maggiore
attenzione da parte del legislatore rispetto a forme alternative rispetto a
quella classica (decisum del giudice) di definizione delle controversie,
in modo tale cioè da valorizzare e promuovere, per quanto possibile, forme di
definizione concordata tra le parti, con gli inevitabili effetti “benefici” per
il sistema ad esse conseguenti.
Ciò è avvenuto, prima, nell’ambito della giurisdizione penale ove,
mutuando istituti che già avevano dato buona prova di sé negli ordinamenti
anglosassoni, si sono creati modelli procedimentali “alternativi” al rito
ordinario, notoriamente lungo e costoso, che poggiano, quale dato saliente, sul
consenso delle parti (si pensi agli istituti del rito abbreviato e,
soprattutto, all’applicazione della pena su richiesta, artt. 438 e 444 c.p.p.).
Senza alcuna pretesa di esaustività, ma solo al fine di descrivere una
tendenza legislativa ormai consolidata, sono stati introdotti nell’ordinamento
processuale civile istituti finalizzati a perseguire al massimo la conciliazione
della lite (si pensi alla consulenza tecnica preventiva a fini conciliativi
art. 696-bis c.p.c., alla mediazione stessa, alla negoziazione assistita ed
agli altri interventi per favorire la de-giurisdizionalizzazione della lite,
alla proposta conciliativa giudiziale ex art. 185-bis c.p.c. ecc.).
Si è voluto cioè, in primo luogo, decongestionare l’accesso alla
giustizia civile ovvero favorirne l’esodo, al fine di recuperare funzionalità
agli uffici della giurisdizione civile, notoriamente “affossati” in molte
realtà da endemica grave sproporzione tra entità dei carichi di lavoro e
personale disponibile. Così si è inteso rimediare anche alla connessa grave
problematica della lentezza del processo civile e alla onerosità per lo Stato
delle conseguenze della violazione delle disposizioni (sovranazionali e
nazionali) inerenti l’irragionevole durata delle procedure (cfr L. n. 89/2001).
In secondo luogo, in un’ottica per così dire di sistema, e tenuto conto
di interessanti contributi dottrinali, è stata acquisita specifica
consapevolezza del valore primario della conciliazione della lite, quale
strumento idoneo a consentire la pacificazione dei contendenti.
Ciò, oltre ai positivi effetti sul piano extra-giuridico, produce
ricadute positive sul sistema processuale, vuoi perché in presenza di un
accordo le parti rinunciano ad avvalersi degli ordinari rimedi processuali (es.
impugnazioni), con corrispondente effetto benefico per le giurisdizioni
superiori; vuoi perché, essendo dato di comune esperienza che gli impegni
assunti in sede di accordo sono di regola osservati spontaneamente dalle parti,
assai raro è in tal caso il ricorso alle procedure esecutive ed alle relative
fasi di opposizione.
La scelta ermeneutica operata con la sentenza n. 8473/2019, fondata
sull’idoneità, ai fini della procedibilità della domanda, di un primo incontro
meramente informativo e preliminare, si pone in distonia con le suddette
finalità della mediazione ed in genere con i sistemi di risoluzione alternativa
delle controversie, c.d. ADR (“alternative despute resolution”).
Ridurre l’esperimento del procedimento di mediazione, ai fini della
procedibilità, a una mera comparizione delle parti innanzi al mediatore (per di
più con la possibilità di farsi rappresentare dai propri difensori muniti di
procura speciale come precisato dalla S.C.), per ricevere un’informazione
preliminare sulle finalità e le modalità di svolgimento della mediazione e per
dichiarare che semplicemente non c’è volontà di mediare comporta, infatti, un
elevato rischio che tutto il procedimento divenga un “vuoto rituale”. Il tutto
con ricadute negative anche sulla tempestiva erogazione del servizio giustizia,
che di fatto potrebbe essere ostacolato dagli stessi incombenti legati alla
mediazione.
Né d’altra parte l’orientamento che qui si condivide pone problemi
sotto il profilo della menomazione del diritto fondamentale di accesso alla
tutela giurisdizionale dei diritti, così come inteso dal Giudice delle leggi e
dalla giurisprudenza comunitaria.
La partecipazione al solo primo incontro, anche se comprensivo di una
fase di effettiva mediazione, rende trascurabili i maggiori oneri richiesti
alle parti, rispetto all’opzione fatta propria dalla Suprema Corte (incontro
dal contenuto meramente informativo). L’inevitabile maggior durata del primo
incontro, è infatti pienamente giustificata dalla concreta possibilità di
conciliazione della controversia.
Piuttosto, sembra opportuno interrogarsi su un aspetto inerente ai
costi del procedimento di mediazione, i quali, ove ritenuti eccessivi,
potrebbero costituire un ostacolo di natura economica all’esercizio giudiziale
dei diritti.
Occorre, in particolare, valutare le implicazioni che il ricostruito
carattere di effettività del primo incontro produce sui costi della mediazione.
Sul punto, la risposta non può che essere ampiamente tranquillizzante.
Ai sensi dell’art. 17 comma 5-ter D.lgs. n. 28/2010 ss.mm.ii, “Nel
caso di mancato accordo all'esito del primo incontro, nessun compenso è dovuto
per l'organismo di mediazione”.
Ne segue, stante l’inequivocabile tenore letterale di tale norma, che,
ove le parti non proseguano la procedura oltre il primo incontro, nessun
compenso sarà dovuto all’organismo di mediazione (le uniche spese da sostenere
saranno quelle di avvio della procedura e il rimborso delle spese vive che
incidono per poche decine di euro), salvo che le parti raggiungano già al primo
incontro l’accordo conciliativo.
Non è vero pertanto che effettività della mediazione vada
necessariamente insieme al pagamento dei suddetti oneri economici, come
incidentalmente afferma la Suprema Corte.
In realtà l’unico costo aggiuntivo effettivo per le parti è quello
dell’assistenza legale, che è obbligatoria, giusto il disposto dell’art. 8
D.lgs. n. 28/2010 ssmmii.
I maggiori compensi legali, peraltro non appaiono oggettivamente
eccessivi.
I parametri fissati dal D.M. 55/2014, così come modificati dal D.M.
37/2018, prevedono che il diritto al compenso dell’avvocato in mediazione
riguardi tre fasi distinte: attivazione, negoziazione e conciliazione.
Ovviamente in caso di primo incontro con mediazione effettiva senza
stipula di accordo, saranno dovuti i compensi per la fase di “attivazione” e di
“negoziazione”.
Al riguardo, i parametri non distinguono tra negoziazione nel corso di
una mediazione composta da più sessioni e quella avvenuta nel corso di un solo
primo incontro. Il relativo compenso, così come quantificato dalla tabella,
potrà dunque essere liquidato dal Giudice tenuto conto delle peculiarità del
caso di specie. Sul punto è solo il caso di evidenziare che i compensi medi
previsti per la fase di mediazione ai sensi dell’art. 20 comma 1-bis del D.M.
cit. sono applicabili solo “di regola”. È lasciato pertanto sul punto spazio ad
un ampio potere del giudice nella liquidazione del dovuto non essendo previsto
un minimo tariffario garantito (diversamente per i compensi relativi
all’attività defensionale giudiziale e stragiudiziale in genere – cfr artt. 4,
co. 1, e 19).
L’aumento dei costi di mediazione derivanti dall’opzione interpretativa
adottata sarà pertanto di modesta entità in termini percentuali rispetto al
costo complessivo dell’assistenza legale nel procedimento giurisdizionale. Così
ad esempio, in caso di mediazione per causa di competenza o pendente avanti al
Tribunale di valore compreso tra € 26.000 e 52.000, a fronte di compensi medi
complessivamente dovuti per € 7.254,00, oltre accessori, quelli relativi alla
fase di negoziazione nella mediazione (parametro medio € 1.020,00), potranno
essere liquidati anche in misura assai più contenuta.
Il tutto senza considerare che gli importi sostenuti per il
procedimento di mediazione potranno comunque essere recuperati a carico della
parte soccombente ai sensi dell’art. 91 c.p.c..
4) Il caso di specie
…omissis…
PQM
Il Tribunale di Firenze, IIIa Sez. Civ., in composizione
monocratica, visto l’art. 281-sexies c.p.c., definitivamente pronunciando dichiara
improcedibile la domanda proposta da BANCA omissis; compensa interamente
tra le parti le spese di lite.
Firenze, 8 maggio 2019
Provvedimento redatto con la collaborazione del M.O.T. Dott. Pietro
Peruzzi
Il Giudice
Dott. Alessandro Ghelardini