=> C. Cost. n. 272 del 2012
Come noto, all’esito
dell’udienza del 23 ottobre scorso, la Corte Costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale
del d.lgs. 4 marzo 2010, n.28 nella parte in cui ha previsto il carattere
obbligatorio della mediazione. Da quanto appreso dal comunicato stampa di
Palazzo della Consulta del 24 ottobre 2012, il profilo di incostituzionalità
rilevato dalla Consulta è legato all’eccesso di delega legislativa (1)
(2).
La Corte ha reso note le
motivazioni di tale decisione con la sentenza 6 dicembre 2012 n. 272.
Di seguito si propongono gli aspetti
di maggiore interesse di tale pronuncia, soprattutto con riferimento ai futuri
sviluppi dell’istituto della mediazione.
A. L’ambito della decisione.
Giudizi di legittimità
costituzionale degli articoli 5, comma 1, primo, secondo e terzo periodo, e 16,
comma 1, del decreto legislativo 4 marzo
2010, n. 28 e dell’articolo 16 del decreto
ministeriale 18 ottobre 2010, n. 180, come modificato dal decreto ministeriale
6 luglio 2011, n. 145, promossi dal:
-
Giudice di
pace di Parma con ordinanza del 1° agosto 2011;
-
Tribunale
amministrativo regionale per il Lazio con ordinanza del 12 aprile 2011;
-
Giudice di
pace di Catanzaro con due ordinanze del 1° settembre e del 3 novembre 2011;
-
Giudice di
pace di Recco con ordinanza del 5 dicembre 2011;
-
Giudice di
pace di Salerno con ordinanza del 19 novembre 2011;
-
Tribunale
di Torino con ordinanza del 24 gennaio 2012;
-
Tribunale
di Genova con ordinanza del 18 novembre 2011 (3).
B. La decisione.
La Corte:
1) dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’articolo 5, comma 1, del decreto
legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione
dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione
finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali);
2) dichiara, in via consequenziale, ai
sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e
sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale:
a) dell’art. 4, comma 3, del decreto legislativo n. 28 del 2010,
limitatamente al secondo periodo («L’avvocato informa altresì l’assistito dei
casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di
procedibilità della domanda giudiziale») e al sesto periodo, limitatamente alla
frase «se non provvede ai sensi dell’articolo 5, comma 1»;
b) dell’art. 5, comma 2, primo periodo,
del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «Fermo quanto previsto
dal comma 1 e»,
c) dell’art. 5, comma 4, del detto
decreto legislativo, limitatamente alle parole «I commi 1 e»;
d) dell’art. 5, comma 5 del detto
decreto legislativo, limitatamente alle parole «Fermo quanto previsto dal comma
1 e»;
e) dell’art. 6, comma 2, del detto
decreto legislativo, limitatamente alla frase «e, anche nei casi in cui il
giudice dispone il rinvio della causa ai sensi del quarto o del quinto periodo
del comma 1 dell’articolo cinque,»;
f) dell’art. 7 del detto decreto
legislativo, limitatamente alla frase «e il periodo del rinvio disposto dal
giudice ai sensi dell’art. 5, comma 1»;
g) dello stesso articolo 7 nella parte in cui
usa il verbo «computano» anziché «computa»;
h) dell’art. 8, comma 5, del detto
decreto legislativo;
i) dell’art. 11, comma 1, del detto
decreto legislativo, limitatamente al periodo «Prima della formulazione della proposta,
il mediatore informa le parti delle possibili conseguenze di cui all’art. 13»;
l) dell’intero art. 13 del detto
decreto legislativo, escluso il periodo «resta ferma l’applicabilità degli
articoli 92 e 96 del codice di procedura civile»;
m) dell’art. 17, comma 4, lettera d),
del detto decreto legislativo;
n) dell’art. 17, comma 5, del detto
decreto legislativo;
o), dell’art. 24 del detto decreto
legislativo.
3) dichiara inammissibile la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 5 del decreto legislativo n. 28 del 2010 e dell’art. 16
del decreto ministeriale adottato dal Ministro della giustizia, di concerto col
Ministro dello sviluppo economico, in data 18 ottobre 2010, n. 180, come
modificato dal decreto ministeriale 6 luglio 2011, n. 145 (Regolamento recante la determinazione dei
criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di
mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione
delle indennità spettanti agli organismi, ai sensi dell’articolo 16 del decreto
legislativo 4 marzo 2010, n. 28), «da soli ed anche in combinato disposto», sollevata
dal Giudice di pace di Recco, in riferimento agli articoli 3, 24 e 111
Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Ciò in quanto il rimettente omette qualsiasi
descrizione della fattispecie sottoposta al suo esame, trascurando di fornire
elementi idonei a stabilire se la vertenza, nella quale è chiamato a
pronunciare, rientri o meno nel catalogo delle cause per le quali l’art. 5,
comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010 impone il preliminare esperimento del
procedimento di mediazione, così precludendo alla Corte il necessario controllo
in punto di rilevanza.
C. Sull’eccesso di delega (artt. 76 e 77 Cost.)
Tali otto ordinanze di rimessione
pongono questioni identiche, o tra loro strettamente connesse, in relazione
alla normativa censurata. Pertanto, premette la Corte, i relativi giudizi devono
essere riuniti, per essere definiti
con unica sentenza, dovendosi in particolare esaminare con priorità, per ragioni di ordine logico, le questioni di
legittimità costituzionale sollevate, in riferimento agli articoli 76 e 77
Cost., nei confronti dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010, con
particolare riguardo al carattere obbligatorio che detta norma, in asserita violazione della legge delega,
attribuisce al preliminare esperimento della procedura di mediazione.
1. L’art. 5, comma 1, d.lgs.
n, 28 del 2010.
In forza di tale norma, la parte che intende agire in giudizio per una
delle azioni specificamente indicate, è tenuta, in via preliminare, ad esperire
la procedura di conciliazione, disciplinata come condizione di procedibilità
della domanda giudiziale. Il carattere obbligatorio così attribuito a detta
procedura è censurato, per eccesso o difetto di delega, da quasi tutte le
ordinanze di rimessione sopra riassunte; e tali censure – illustra la Corte – sono
fondate.
2. La normativa e giurisprudenza
dell’Unione europea
Dato che sia la legge delega (art. 60, comma 2 e comma 3, lettera c,
della legge n. 69 del 2009), sia il d.lgs. n. 28 del 2010 (preambolo) si
richiamano al rispetto e alla coerenza con la normativa dell’Unione europea, la
corte procede ad una concisa ricognizione degli elementi desumibili da tale
normativa:
- direttiva 2008/52/CE;
- risoluzione del Parlamento
europeo del 25 ottobre 2011 (2011/2117-INI) sui metodi
alternativi di soluzione delle controversie in materia civile, commerciale e
familiare (ancorché priva di efficacia vincolante);
- risoluzione del Parlamento
europeo del 13 settembre 2011
(2011/2026-INI), relativa all’attuazione della direttiva sulla mediazione negli
Stati membri, impatto della stessa sulla mediazione e sua adozione da parte dei
tribunali.
- sentenza della Corte di
giustizia dell’Unione europea in data 18 marzo 2010, Sezione quarta, pronunciata nelle cause riunite C-317/08, C-318/08, C-319/08 e C-320/08.
La Corte osserva al riguardo che “dai richiamati atti dell’Unione europea non
si desume alcuna esplicita o implicita opzione a favore del carattere
obbligatorio dell’istituto della mediazione”.
Dunque, “la disciplina dell’UE si
rivela neutrale in ordine alla
scelta del modello di mediazione da adottare”, con la conseguenza che l’opzione
a favore del modello di mediazione obbligatoria, operata dalla normativa
censurata, non può trovare fondamento nella disciplina UE: infatti – conclude sul
punto la Corte – “una volta raggiunta
tale conclusione, si deve per conseguenza escludere che il contenuto della
legge delega, richiamando la direttiva comunitaria, possa essere interpretato
come scelta a favore del modello di mediazione obbligatoria”.
3. La legge delega (art. 60
della legge n. 69 del 2009).
La Corte passa poi a verificare il rispetto dei principi dettati dalla
legge delega posti in sede di emanazione del d.lgs. n. 28 del 2010.
I Giudici osservano al riguardo che la
legge delega non esplicita in alcun modo la previsione del carattere
obbligatorio della mediazione, con la conseguenza che sussiste, in relazione al
carattere obbligatorio dell’istituto di conciliazione, il denunciato eccesso di
delega.
Sul punto la sentenza in parola precisa, tra l’altro, che:
- tale vizio non potrebbe essere superato considerando la norma introdotta
dal legislatore delegato come un coerente sviluppo e completamento delle scelte
espresse dal delegante, perché in realtà con il censurato art. 5, comma 1, si è
posto in essere un istituto “che non
soltanto è privo di riferimenti ai principi e criteri della delega ma, almeno
in due punti, contrasta con la concezione della mediazione come imposta dalla normativa
delegata”;
- il carattere dell’obbligatorietà per la mediazione non trova alcun
ancoraggio nella legge delega;
- non “varrebbe addurre che
l’ordinamento conosce varie procedure obbligatorie di conciliazione,
trattandosi di procedimenti specifici, per singoli settori, in relazione ai
quali nessun rapporto di derivazione è configurabile in riferimento all’istituto
in esame”.
- “quanto alla finalità ispiratrice
del detto istituto, consistente nell’esigenza di individuare misure alternative
per la definizione delle controversie civili e commerciali, anche al fine di
ridurre il contenzioso gravante sui giudici professionali, va rilevato che il
carattere obbligatorio della mediazione non è intrinseco alla sua ratio, come
agevolmente si desume dalla previsione di altri moduli procedimentali
(facoltativi o disposti su invito del giudice), del pari ritenuti idonei a perseguire
effetti deflattivi e quindi volti a semplificare e migliorare l’accesso alla
giustizia”.
4. La decisione
In definitiva la Corte dichiara l’illegittimità
costituzionale dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010, per violazione
degli artt. 76 e 77 Cost., declaratoria che deve essere estesa all’intero comma 1, perché gli ultimi tre
periodi sono strettamente collegati a quelli precedenti (oggetto delle
censure), sicché resterebbero privi di significato a seguito della caducazione
di questi. Pertanto la Corte:
D. Sull’effettività del diritto di accesso alla tutela
giurisdizionale (art. 24 Cost.)
La Corte non analizza, nello specifico, le censure mosse al riguardo alla
normativa sulla mediazione in quanto profilo assorbito dai precedenti rilievi.
(1) Si
rimanda al riguardo alla sezione “SPECIALE MEDIAZIONE OBBLIGATORIA
E CORTECOSTITUZIONALE” dell’Osservatorio Mediazione Civile.
(2) Si veda l’art. art. 5, comma III,
d.lgs. 4 marzo 2010 n. 28 Decreto legislativo n. 28 del 2010 aggiornato alla c.d.
manovra bis 2011, in Osservatorio Mediazione Civile n. 2/2011 (www.osservatoriomediazionecivile.blogspot.com).
(3) Ordinanze rispettivamente iscritte ai nn. 254 e
268 del registro ordinanze 2011 ed ai nn. 2, 19, 33, 51, 99 e 108 del registro
ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 51 e
54, prima serie speciale, dell’anno 2011 e nn. 5, 8, 11, 15, 22 e 23, prima
serie speciale, dell’anno 2012.
Fonte:
Osservatorio Mediazione Civile n. 128/2012
Corte Costituzionale
6 dicembre 2012 n. 272
Sentenza
Corte Costituzionale
Sentenza 24 ottobre - 6 dicembre 2012, n. 272
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai
signori:
- Alfonso
QUARANTA Presidente
- Franco GALLO
Giudice
- Luigi MAZZELLA
”
- Gaetano
SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE
”
- Giuseppe
TESAURO ”
- Paolo Maria
NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO
”
- Alessandro
CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio
LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA
”
- Sergio
MATTARELLA ”
- Mario Rosario
MORELLI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di
legittimità costituzionale degli articoli 5, comma 1, primo, secondo e terzo
periodo, e 16, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione dell'articolo 60 della
legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla
conciliazione delle controversie civili e commerciali), dell’articolo 2653,
primo comma, numero 1), del codice civile, dell’articolo 16 del decreto
ministeriale 18 ottobre 2010, n. 180, come modificato dal decreto ministeriale
6 luglio 2011, n. 145 (Regolamento recante la determinazione dei criteri e
delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di
mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione
delle indennità spettanti agli organismi, ai sensi dell’articolo 16 del decreto
legislativo 4 marzo 2010, n. 28), promossi dal Giudice di pace di Parma con
ordinanza del 1° agosto 2011, dal Tribunale amministrativo regionale per il
Lazio con ordinanza del 12 aprile 2011, dal Giudice di pace di Catanzaro con
due ordinanze del 1° settembre e del 3 novembre 2011, dal Giudice di pace di
Recco con ordinanza del 5 dicembre 2011, dal Giudice di pace di Salerno con
ordinanza del 19 novembre 2011, dal Tribunale di Torino con ordinanza del 24
gennaio 2012 e dal Tribunale di Genova con ordinanza del 18 novembre 2011,
rispettivamente iscritte ai nn. 254 e 268 del registro ordinanze 2011 ed ai nn.
2, 19, 33, 51, 99 e 108 del registro ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica nn. 51 e 54, prima serie speciale, dell’anno 2011 e
nn. 5, 8, 11, 15, 22 e 23, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visti gli atti
di costituzione dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura – OUA ed altri, della
«Associazione degli Avvocati Romani» ed altra, del Consiglio dell’Ordine degli
Avvocati di Firenze, dell’AIAF, Associazione italiana degli avvocati per la
famiglia e per i minori, dell’Unione Nazionale delle Camere Civili,
dell’Organismo di mediazione ADR Center s.p.a., nonché gli atti di intervento
della Associazione nazionale mediatori e conciliatori, della Società italiana
conciliazione mediazione e arbitrato s.r.l. (SIC&A), del Consiglio
dell’Ordine degli Avvocati di Milano, di Assomediazione – Associazione italiana
organismi privati di mediazione e di formazione per la mediazione, di
Unioncamere – Unione Italiana delle Camere di commercio, industria, artigianato
e agricoltura ed altri, del Consiglio Nazionale Forense, della ADR Accorditalia
s.r.l. e del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito
nell’udienza pubblica del 23 ottobre 2012 e nella camera di consiglio del 24
ottobre 2012 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;
uditi gli
avvocati Marilisa D’Amico e Lotario Dittrich per il Consiglio dell’Ordine degli
avvocati di Milano, Maria Cristina Stravaganti per la Società italiana
conciliazione mediazione e arbitrato s.r.l. (SIC&A), Francesco Franzese per
l’Assomediazione – Associazione italiana. organismi privati di mediazione e di
formazione per la mediazione, Beniamino Caravita di Toritto per la Unioncamere
– Unione Italiana delle Camere di commercio, industria, artigianato e
agricoltura ed altri, Massimo Luciani per il Consiglio Nazionale Forense,
Giorgio Orsoni per l’Organismo Unitario dell’Avvocatura – OUA ed altri e per il
Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Firenze, Giuliano Scarselli per l’AIAF
– Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori,
Giampiero Amorelli per «l’Associazione degli Avvocati Romani» ed altra, Antonio
De Notaristefani Di Vastogirardi per l’Unione Nazionale delle Camere civili,
Rodolfo Cicchetti per l’Organismo di mediazione ADR Center s.p.a. e l’avvocato
dello Stato Maurizio Di Carlo per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.— Il Tribunale
amministrativo regionale per il Lazio (d’ora in avanti, TAR), con ordinanza del
12 aprile 2011 (r.o. n. 268 del 2011), ha sollevato, in riferimento agli
articoli 24 e 77 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale
dell’articolo 5, comma 1, primo, secondo e terzo periodo, e dell’articolo 16,
comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione dell’articolo
60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla
conciliazione delle controversie civili e commerciali).
Il TAR premette
che l’ordinanza in questione è stata emessa nell’ambito del procedimento
relativo ai ricorsi, successivamente riuniti, promossi entrambi contro il
Ministro della giustizia e il Ministro dello sviluppo economico; che il primo
ricorso è stato proposto dall’Organismo unitario dell’avvocatura italiana –
OUA, in persona del presidente avv. Maurizio de Tilla, il quale agisce anche in
proprio, dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli, in persona del
presidente avv. Francesco Caia, il quale agisce anche in proprio; dal Consiglio
dell’Ordine degli Avvocati di Torre Annunziata, in persona del presidente avv.
Francesco Torrese, il quale agisce anche in proprio; dall’Unione Regionale dei
Consigli dell’Ordine degli Avvocati della Campania, in persona del presidente
avv. Franco Tortorano, il quale agisce anche in proprio; dal Consiglio
dell’Ordine degli Avvocati di Lagonegro, in persona del presidente avv. Rosa
Marino; dal Consiglio dell’ordine degli avvocati di Larino, in persona del
presidente avv. Marco d’Errico, il quale agisce anche in proprio; dal Consiglio
dell’Ordine degli Avvocati di Campobasso, in persona del presidente avv.
Demetrio Rivellino, il quale agisce anche in proprio; da Mario Pietrunti, da
AIAF – Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori, in
persona del presidente avv. Milena Pin; da Filippo Pucino, Paola Pucino, Angelo
Pucino, Carmelo Maurizio Sergi, Federica Eminente, Sabrina Sifo, Salvatore
Walter Pompeo, Eugenio Bisceglia, Vitangelo Mongelli, Vincenzo Papaleo,
Salvatore Di Cristofalo, Giovanni Zambelli, Giuseppe Di Girolamo, Agostino
Maione, Claudio Acampora, Luigi Ernesto Zanoni; che nel giudizio a quo, ad
adiuvandum, sono intervenuti l’Associazione degli avvocati romani,
l’Associazione agire e informare, i Consigli dell’Ordine degli Avvocati di
Firenze e di Salerno mentre, ad opponendum, sono intervenuti l’Associazione
avvocati per la mediazione, Lorenza Morello e Alberto Mascia, ADR Center
s.p.a., l’Associazione italiana dei dottori commercialisti ed esperti contabili
e l’Unione nazionale giovani dottori commercialisti; che il secondo ricorso è
stato proposto dalla Unione Nazionale delle Camere civili (UNCC); che oggetto
dei ricorsi è la domanda di annullamento del decreto del Ministro della
giustizia, adottato di concerto con il Ministro per lo sviluppo economico, n.
180 del 2010, avente ad oggetto il «Regolamento recante la determinazione dei
criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di
mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione
delle indennità spettanti agli organismi, ai sensi dell’articolo 16 del decreto
legislativo n. 28 del 2010», e «la dichiarazione della non manifesta
infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli articoli 5 e
16 del d.lgs. n. 28 del 2010, in riferimento agli art. 24, 76 e 77 Cost.».
In particolare,
il rimettente, dopo essersi soffermato sulla possibilità della diretta
impugnabilità del regolamento innanzi al giudice amministrativo e sul quadro
normativo di riferimento, espone i motivi dei ricorsi.
1.1.— Con
riguardo al primo ricorso, il giudice a quo riferisce che i ricorrenti
lamentano l’assenza, nel d.m. n. 180 del 2010, di criteri volti ad individuare
ed a selezionare gli organismi di mediazione in ragione dell’attività
squisitamente giuridica che essi andrebbero a svolgere, e che sarebbe richiesta
sia dalla normativa comunitaria, sia dalla legge delega 18 giugno 2009, n. 69
(Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività
nonché in materia di processo civile). Sul punto i ricorrenti pongono in
rilievo che, a livello comunitario, l’art. 4 della direttiva 21 maggio 2008, n.
2008/52/CE (Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio relativa a
determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale), dispone
che la mediazione «sia gestita in maniera efficace, imparziale e competente in
relazione alle parti», mentre l’art. 60, lettera b), della legge delega citata,
tra i principi e criteri direttivi, richiede di prevedere che la mediazione sia
svolta da organismi professionali ed indipendenti, stabilmente destinati
all’erogazione del servizio di conciliazione.
A sostegno della
censura i ricorrenti osservano che l’art. 4 del regolamento, nel disciplinare
l’iscrizione, a domanda, degli organismi di mediazione che possono essere
costituiti sia da enti pubblici che da enti privati, si limita a prevedere, al
comma 2, una serie di parametri di tipo amministrativo-economico-finanziario,
tra cui la capacità finanziaria ed organizzativa, il possesso di polizza
assicurativa, la trasparenza amministrativa e contabile e, poi, a prescrivere,
al comma 3, una verificazione di tipo «aggiuntivo» sui requisiti di
qualificazione dei mediatori, che viene demandata al responsabile del
procedimento, senza essere correlata alle competenze giuridiche che sarebbero
oggettivamente richieste dall’attività di mediazione.
Sotto tale
profilo, i ricorrenti escludono che il criterio selettivo, di cui lamentano la
carenza, possa essere costituito dalla previsione di cui all’art. 4, comma 3,
del regolamento impugnato il quale prevede, alla lettera a), che il mediatore
debba essere in possesso di un titolo di studio non inferiore al diploma di
laurea universitaria triennale, oppure debba essere iscritto ad un ordine o ad
un collegio professionale e, alla lettera b), che il mediatore abbia una
specifica formazione ed uno specifico aggiornamento almeno biennale, acquisiti
presso gli enti di formazione regolati dal successivo art. 18 del d.m. citato.
Tali elementi, essendo sprovvisti di una specifica professionalità,
delineerebbero un’area generica attinente al solo ambito della formazione culturale,
che risulterebbe priva di quegli agganci ad una precipua qualificazione e
perizia nell’ambito giuridico professionale, invece necessaria in ragione della
tipologia della prestazione che deve essere resa.
Ciò, ad avviso
dei ricorrenti, varrebbe ancor di più alla luce dell’art. 5 del d.lgs. n. 28
del 2010 e delle materie ivi previste, in relazione alle quali l’esperimento
del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda
giudiziale, ovvero si pone come alternativa al sistema giudiziale o quale
funzione stragiudiziale di soddisfazione di pretese giuridiche. L’assunto, per
cui il procedimento di mediazione dovrebbe essere gestito con l’ausilio di
persone svolgenti la professione legale, si fonderebbe sui seguenti dati: il
procedimento di mediazione non conclusosi positivamente incide, ai sensi
dell’art. 13 del d.lgs. n. 28 del 2010 ed ai sensi dell’art. 60, lettera p),
della legge n. 69 del 2009, sulle spese del successivo giudizio; l’art. 13 del
d.lgs. citato intitolato «spese processuali» prevede, infatti, che quando il
provvedimento che definisce il giudizio corrisponda interamente al contenuto
della proposta conciliativa, alla quale la parte vincitrice non abbia aderito,
il giudice è obbligato ad escludere la ripetizione delle spese sostenute ed a
condannarla, invece, al rimborso delle spese sopportate dal soccombente; il
verbale dell’accordo conclusivo del procedimento di mediazione, non contrario
all’ordine pubblico o a norme imperative, e sottoposto ad omologazione, ha efficacia
di titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma
specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale, ai sensi dell’art. 12 del
d.lgs. citato; l’avvocato ha l’obbligo, all’atto del conferimento
dell’incarico, di informare il proprio assistito della possibilità di avvalersi
della mediazione, ciò ai sensi dell’art. 4, comma 3, del d.lgs. citato e
dell’art. 60, lettera p), della legge n. 69 del 2009, nonostante lo svolgimento
della relativa attività sia demandato ad altre categorie professionali.
Il TAR riferisce
ancora che i ricorrenti pervengono alla conclusione secondo cui la mancata
previsione di idonei criteri di valutazione della competenza degli organismi di
mediazione porrebbe il regolamento impugnato in palese contrasto «non tanto con
l’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, ma piuttosto con i principi generali e
l’insieme delle disposizioni dell’intero impianto legislativo considerato».
Aggiunge che, ad
avviso dei ricorrenti, gli artt. 5 e 16 del d.lgs. citato non sfuggirebbero a
censure di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 77 e 24 Cost.
In particolare
l’art. 5, nel prevedere che l’esperimento del procedimento di mediazione sia
condizione di procedibilità, rilevabile anche di ufficio, della domanda giudiziale
in riferimento alle controversie in esso indicate, precluderebbe l’accesso
diretto alla giustizia, disattendendo le previsioni del principio e criterio
direttivo di cui all’art. 60, comma 3, lettera a), della legge-delega, che lo
tutela. L’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, ponendo quali criteri di selezione
degli organismi abilitati alla mediazione la «serietà ed efficienza»,
liberalizzerebbe il settore, contravvenendo sia all’art. 4 della direttiva
2008/52/CE, sia all’art. 60, comma 3, lettera b), della legge citata, che fanno
riferimento ai criteri della competenza e della professionalità.
1.2.— Con
riferimento, invece, al ricorso n. 11235 del 2010, il rimettente si sofferma
sui tre motivi di impugnazione e sulle eccezioni di illegittimità costituzionale,
ritenendo rilevante soltanto quella sollevata con riferimento al primo motivo
(illegittimità derivata dalla illegittimità degli artt. 5 e 17 – recte: 16 –
del d.lgs. n. 28 del 2010, in relazione agli artt. 24, 76 e 77 Cost.); anche la
ricorrente UNCC sostiene che il legislatore sia incorso in eccesso di delega là
dove ha previsto l’obbligatorietà del procedimento di mediazione e
l’improcedibilità del giudizio introdotto senza il previo esperimento della
mediazione, entrambi non previsti dalla legge delega.
Ciò premesso, il
TAR osserva come punto centrale della rilevanza della questione di legittimità
costituzionale, «nonché qualificante espressione dell’interesse sostanziale
dedotto in giudizio, alla luce delle prime due doglianze di cui al ricorso», sia
la «dedotta omissione, da parte dell’art. 4 dell’impugnato regolamento, dei
criteri volti a delineare i requisiti attinenti alla specifica professionalità
giuridico-processuale del mediatore».
L’illegittimità
di tale omissione – ad avviso del rimettente – andrebbe apprezzata alla luce
delle previsioni contenute nell’art. 4 della direttiva 2008/52/CE e nell’art.
60 della legge n. 69 del 2009.
L’art. 16 del
citato decreto legislativo, di cui il regolamento costituisce attuazione,
avrebbe trascurato la valenza di detti requisiti, quelli appunto di competenza
e professionalità, sostituendoli con altri, quelli di serietà ed efficienza,
che il regolamento impugnato ha fatto propri, ma che non soddisferebbero le
esigenze considerate dal legislatore comunitario e da quello nazionale
delegante.
Osserva il
rimettente come i requisiti di competenza e professionalità sarebbero, invece,
insopprimibili, soprattutto se si considera che, per un vasto ventaglio di
materie, l’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, anch’esso sospettato di
illegittimità costituzionale, rende l’esperimento della mediazione condizione
di procedibilità della domanda giudiziale.
Il giudice a
quo, poi, al fine di risolvere in via ermeneutica il problema della
sovrapponibilità dei concetti di competenza e professionalità, nonché serietà
ed efficienza, non trascura il tentativo di sottoporre l’art. 60 della legge n.
69 del 2009 e l’art. 16 del d.lgs. citato ad una interpretazione
costituzionalmente orientata, tenendo conto della necessità di una stretta continuità
e coerenza delle disposizioni, anche in relazione all’art. 4 della direttiva
2008/52/CE.
Il TAR, però,
ritiene tale interpretazione non praticabile, in quanto essa «non esaurirebbe
che in misura molto limitata l’ambito delle questioni sottoposte a giudizio,
lasciando aperto l’interrogativo circa il ruolo che l’ordinamento giuridico
nazionale intenda effettivamente affidare alla mediazione, là dove è proprio la
puntuale individuazione di tale ruolo ad essere imprescindibilmente
pregiudiziale all’apprezzamento dei requisiti che è legittimo richiedere al
mediatore o da cui è legittimamente consentito prescindere».
Secondo il
rimettente, infatti, «una cosa è la costruzione della mediazione come strumento
cui lo Stato in un vasto ambito di materie obbligatoriamente e preventivamente
rimandi per l’esercizio del diritto di difesa in giudizio; altra cosa è la
costruzione della mediazione come strumento generale normativamente
predisposto, di cui lo Stato incoraggi o favorisca l’utilizzo, lasciando pur
tuttavia impregiudicata la libertà nell’apprezzamento dell’interesse del
privato ad adirla ed a sopportare i relativi effetti e costi».
Ad avviso del
rimettente, dunque, l’esame delle doglianze proposte in relazione al
regolamento n. 180 del 2010 non potrebbe prescindere dall’accertamento della
correttezza, in raffronto ai criteri della legge-delega e ai precetti
costituzionali, tenuto conto delle disposizioni comunitarie, delle scelte
operate dal legislatore delegato, e in particolare dalla verifica della correttezza
delle seguenti disposizioni: dell’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, il quale
ha conformato gli organismi di conciliazione a qualità che attengono
essenzialmente all’aspetto della funzionalità generica e che sono scevri da
qualsiasi riferimento a canoni tipologici o professionali di carattere
qualificatorio, ovvero strutturale; dell’art. 5 del d.lgs. ora citato, che ha
configurato, per le materie ivi previste, l’attività dei mediatori come
insopprimibile fase processuale, cui altre norme del decreto assicurano effetti
rinforzati e in quanto tale suscettibile in ogni suo sviluppo o di conformare
definitivamente i diritti soggettivi da essa coinvolti, o di incidervi anche là
dove ne residui la giustiziabilità nelle sedi istituzionali e si intenda adire la
giustizia ordinaria; dell’intero d.lgs. n. 28 del 2010 nel quale si rinvengono,
ad avviso del rimettente, elementi che farebbero emergere due scelte di fondo:
l’una, mirante alla de-istituzionalizzazione e de-tecnicizzazione della
giustizia civile e commerciale nelle materie stesse, e l’altra alla
enfatizzazione di un procedimento para-volontario di componimento delle
controversie.
Tali scelte,
poi, non risulterebbero in armonia con un’altra opzione fatta propria dal
decreto delegato: è, infatti, previsto che l’atto, il quale conclude la
mediazione, sottoposto ad omologazione, possa acquistare efficacia di titolo
esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e
per l’iscrizione di ipoteca giudiziale (art. 12 del d.lgs. citato), rientrando
a pieno titolo tra gli atti aventi gli stessi effetti giuridici tipici delle
statuizioni giurisdizionali, là dove nel corso della mediazione, ed ai sensi
del decreto legislativo stesso, il profilo della competenza tecnica del
mediatore sbiadisce e anche il diritto positivo viene in evidenza solo sullo
sfondo, come cornice esterna ovvero come generale limite alla convenienza delle
posizioni giuridiche in essa coinvolte (divieto di omologare accordi contrari
all’ordine pubblico o a norme imperative, art. 12 del d.lgs.).
Il rimettente
ritiene necessario che l’interpretazione dell’art. 16 del d.lgs. n. 28 del
2010, propedeutica all’esame dell’impugnata disposizione di cui all’art. 4 del
regolamento, sia correlata con quanto previsto dall’art. 5 dello stesso
decreto, «il cui combinato disposto costituisce il vero perno della regolazione
delegata».
Il Collegio
ritiene, dunque, che le prime tre disposizioni dell’art. 5 del d.lgs. citato si
porrebbero in contrasto con l’art. 77 Cost., in quanto non possono essere
ascritte all’art. 60 della legge delega, atteso che non è possibile rilevare
alcun elemento che consenta di ritenere che la regolazione della materia
andasse effettuata nei sensi delle dette previsioni; e questo per i motivi di
seguito indicati: a) nessuno dei criteri e principi direttivi previsti e
nessun’altra disposizione di detto articolo assumerebbe espressamente l’intento
deflattivo del contenzioso giurisdizionale; b) nessuno dei criteri o principi
configurerebbe l’istituto della mediazione quale fase pre-processuale
obbligatoria: detto tema non potrebbe ritenersi rientrare nell’ambito di
libertà, ovvero nell’area di discrezionalità connessa alla legislazione
delegata, in quanto non costituirebbe né un mero sviluppo delle scelte
effettuate in sede di delega, né una fisiologica attività di riempimento o di
coordinamento normativo, e ciò sia che si tratti di recepire la direttiva
comunitaria n. 2008/52/CE, sia che si tratti della riforma del diritto civile.
Inoltre, il
rimettente osserva come, tenuto conto del silenzio serbato dal legislatore
delegante sullo specifico tema, sarebbe stato necessario che l’art. 60 della
legge citata avesse lasciato trasparire elementi in tal senso univoci e
concludenti.
Secondo il
rimettente, poi, si dovrebbe escludere che l’art. 60 della legge n. 69 del 2009
con la locuzione di cui al comma 2, ovvero regolare la riforma «nel rispetto e
in coerenza con la normativa comunitaria», e con il principio e criterio
direttivo posto alla lettera c) del comma 3, ovvero «disciplinare la
mediazione, nel rispetto della normativa comunitaria», possa essere inteso
quale delega al Governo a compiere qualsiasi scelta occasionata dalla direttiva
più volte citata, che il Governo non è stato neanche chiamato a recepire.
Il TAR si
sofferma, poi, sul rapporto tra la direttiva 2008/52/CE e la norma di delega,
ponendo in rilievo le seguenti disposizioni: in primo luogo, la scelta compiuta
dall’art. 60 della legge citata, ossia quella di estendere le normative
comunitarie sulla mediazione anche ai procedimenti ricadenti nell’ordinamento
nazionale (ciò alla luce dell’ottavo Considerando) non limitandola solo alle
controversie transfrontaliere; la disposizione di cui all’art. 3, lettera a),
della direttiva stessa, secondo cui gli Stati devono valutare se il
procedimento di mediazione debba essere «avviato dalle parti, suggerito od
ordinato da un organo giurisdizionale o prescritto dal diritto di uno Stato
membro»; l’art. 5, paragrafo 2, secondo cui la direttiva lascia «impregiudicata
la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio
oppure soggetto a incentivi o sanzioni, sia prima che dopo l’inizio del
procedimento giudiziario», tenendo conto del limite costituito dalla necessità
che «non impedisca alle parti di esercitare il diritto di accesso al sistema
giudiziario» (art. 5, comma 2, della direttiva citata).
Pertanto,
osserva il rimettente, le ricadute della scelta estensiva dell’istituto della
mediazione, consistente nel prevederne l’applicazione anche alle controversie
oggetto dei procedimenti interamente ricadenti nell’ordinamento interno, sono
molteplici ed attengono alle varie modalità con cui tale estensione,
salvaguardando l’accesso alla giustizia, può essere effettuata nei singoli
ordinamenti ed in primis all’opzione di rendere il ricorso alla mediazione
«prescritto dal diritto», quindi obbligatorio e «soggetto a sanzioni».
Ad avviso del
TAR, se anche l’art. 60 della legge delega avesse avuto un intento
integralmente recettivo della direttiva n. 2008/52/CE, il silenzio del
legislatore delegante su tali ultime opzioni non potrebbe avere, alla luce
della doverosa interpretazione della delega ai sensi degli artt. 24 e 77 Cost.,
«il significato di assentire la meccanica introduzione nell’ordinamento statale
delle opzioni comunitarie che, rispetto al diritto di difesa, appaiono le più
estreme, ovvero la “prescrizione di diritto” per talune materie
dell’obbligatorietà del ricorso alla mediazione e la predisposizione della
“massima sanzione” per il suo eventuale inadempimento, qual è l’improcedibilità
rilevabile anche di ufficio come, al contempo, ha fatto l’art. 5 del decreto
delegato».
Il rimettente
osserva, ancora, come nessun elemento decisivo possa trarsi dal principio e
criterio direttivo previsto dalla lettera a) del comma 3, dell’art.60, della
legge delega, là dove dispone che la mediazione, finalizzata alla
conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili «senza
precludere l’accesso alla giustizia», in quanto il legislatore, utilizzando
tale ultima espressione, avrebbe inteso soltanto rispettare un principio
assoluto e primario dell’ordinamento nazionale (art. 24 Cost.) e di quello
comunitario.
Il giudice a quo
ritiene, infatti, che, se da un lato sia vero che potrebbe non ritenersi
precluso ex se l’accesso alla giustizia dalla previsione di una fase
pre-processuale obbligatoria, perché, anche se così conformata, essa lascerebbe
aperta la facoltà di adire la via giurisdizionale, sarebbe altresì vero che
«non tutto ciò che è in via generale permesso all’autorità delegante può
ritenersi anche consentito alla sede delegata».
Ciò premesso, ad
avviso del rimettente, pur potendosi ammettere che le prime tre disposizioni
dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. citato, isolatamente considerate, non siano in
contrasto con l’art. 24 Cost., alla stessa conclusione potrebbe non pervenirsi
tenendo conto degli effetti derivanti dal loro coordinamento con altre
disposizioni dello stesso decreto legislativo ed in particolare con l’art. 16
di esso.
Posto, dunque,
che i criteri e principi direttivi finora considerati appaiano neutrali al fine
di verificare la rispondenza dell’art. 5 del d.lgs. alla legge delega, il
rimettente osserva come ben due principi e criteri direttivi depongano, invece,
a favore proprio della previsione della facoltatività della procedura.
È, in primo
luogo, posta in rilievo la lettera c) del comma 3, dell’art. 60, della legge
delega, la quale prevede che la mediazione sia disciplinata anche attraverso
l’estensione delle disposizioni di cui al decreto legislativo 17 gennaio 2003,
n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di
intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in
attuazione dell’articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366).
Il richiamo al
d.lgs. n. 5 del 2003, ad avviso del giudice a quo, farebbe escludere che la
scelta del carattere obbligatorio della mediazione possa essere ascritta alla
legge-delega; l’art. 40, comma 6, del d.lgs. n. 5 del 2003 (ora abrogato
dall’art. 23 d.lgs. n. 28 del 2010), infatti, solo se «il contratto ovvero lo
statuto della società prevedano una clausola di conciliazione e il tentativo
non risulti esperito» stabiliva che «il giudice su istanza della parte
interessata proposta nella prima difesa dispone la sospensione del procedimento
pendente davanti a lui fissando un termine di durata compresa tra trenta e
sessanta giorni per il deposito dell’istanza di conciliazione davanti ad un
organismo ovvero a quello indicato dal contratto o dallo statuto».
Da ciò
conseguirebbe che il modello legale valorizzato dall’art. 60 della legge
delega, mediante il richiamo al d.lgs. n. 5 del 2003, sarebbe quello delineato
da norme di fonte volontaria privata, contratto o statuto sociale, nel senso
che sarebbe rimesso ad un momento volontario privato, cioè alla facoltà della
parte che vi ha interesse e non alla forza cogente della legge, far constatare
nel giudizio già avviato, ed entro termini stabiliti, la sussistenza di una
clausola conciliativa ed il mancato esperimento della conciliazione.
Il rimettente
osserva che nulla muta considerando che il decreto delegato n. 28 del 2010, al
comma 2 dello stesso art. 5, affianca al meccanismo sospetto di illegittimità
costituzionale un meccanismo coincidente con quello di cui al d.lgs. n. 5 del
2003, in forza del quale è il giudice adito, anche in sede di appello, che,
valutati una serie di elementi, invita le parti a procedere alla mediazione e
differisce la decisione giurisdizionale: tale disposizione, infatti, tiene
comunque «fermo quanto previsto dal comma 1».
Ad avviso del
TAR, il comma 2 ora menzionato farebbe rilevare maggiormente la incisività
della diversa scelta compiuta dal legislatore delegato al comma 1 dello stesso
articolo, di subordinare, nelle materie ivi previste, il diritto di difesa in
giudizio all’esperimento della mediazione, rendendo ancora più pressante
l’esigenza che di una siffatta scelta si individui il preciso fondamento nella
legge delega.
In secondo
luogo, il rimettente pone in rilievo la lettera n) del più volte citato art. 60
della legge delega; tale disposizione prevede il dovere dell’avvocato di
informare il cliente, prima della instaurazione del giudizio, della
«possibilità» e non dell’obbligo di avvalersi della conciliazione.
Al riguardo il
giudice a quo rileva che la possibilità è, ovviamente, diversa dalla
obbligatorietà e l’accentuazione di tale differenza non sarebbe superflua,
vertendo nel campo della deontologia professionale, ovvero in un complesso di
obblighi e doveri la cui inosservanza può determinare conseguenze
pregiudizievoli in base all’ordinamento civile (risarcimento del danno),
amministrativo (sanzioni disciplinari) e pubblicistico (art. 4, comma 4, del
d.lgs. n. 28 del 2010), che richiedono l’esatta individuazione del precetto
presidiato dalle sanzioni.
Infatti, l’art.
4 del d.lgs. citato differenzia, al comma 3, l’ipotesi in cui l’avvocato omette
di informare il cliente della «possibilità» di avvalersi della mediazione, da
quella in cui l’omissione informativa concerne i casi in cui l’espletamento del
procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda
giudiziale; ciò anche se, poi, il medesimo comma 3 dell’art. 4 non diversifichi
la sanzione concernente le due ipotesi, entrambe ricondotte all’unica categoria
della «violazione degli obblighi di informazione» e all’annullabilità del
contratto intercorso tra l’avvocato e l’assistito «nonostante la maggiore
pregiudizievolezza della seconda».
Il TAR si
sofferma, poi, sulle difese formulate dalle amministrazioni resistenti, secondo
cui lo schema procedimentale seguito sarebbe quello dell’art. 46 della legge 3
maggio 1982, n. 203 (Norme sui contratti agrari), in tema di controversie
agrarie.
Al riguardo, il
Collegio ritiene che tale argomentazione non sia da condividere, in quanto la
risalente legge ora citata, che configura un meccanismo in forza del quale il
previo esperimento del tentativo di conciliazione assume la condizione di
presupposto processuale, la cui carenza preclude al giudice adito di
pronunciare nel merito della domanda, oltre a concernere le limitatissime
(rispetto alle materie di cui all’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010)
ipotesi di contratti agrari, non è menzionata in alcuna parte della legge
delega che invece, come più volte rilevato, richiama la diversa fattispecie del
già citato d.lgs. n. 5 del 2003.
Alla luce di
quanto argomentato, il TAR rimettente ritiene che l’art. 5, comma 1, e
segnatamente il primo, il secondo ed il terzo periodo, nonché l’art. 16, comma
1, del d.lgs. citato, là dove dispone che abilitati a costituire organismi
deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il procedimento di
mediazione debbano essere gli enti pubblici e privati che diano garanzie di
serietà ed efficienza, siano in contrasto con gli artt. 24 e 77 Cost.
In particolare,
la violazione dell’art. 24 Cost. sussisterebbe «nella misura in cui [dette
disposizioni] determinano, nelle considerate materie, una incisiva influenza da
parte di situazioni preliminari e pregiudiziali sull’azionabilità in giudizio
di diritti soggettivi e sulla successiva funzione giurisdizionale, su cui lo
svolgimento della mediazione variamente influisce. Ciò in quanto esse non
garantiscono, mediante un’adeguata conformazione della figura del mediatore,
che i privati non subiscano irreversibili pregiudizi derivanti dalla non
coincidenza degli elementi loro offerti in valutazione per assentire o
rifiutare l’accordo conciliativo, rispetto a quelli suscettibili, nel
prosieguo, di essere evocati in giudizio».
Sussisterebbe il
contrasto anche con l’art. 77 Cost., atteso il silenzio serbato dal legislatore
delegante in tema di obbligatorietà del previo esperimento della mediazione al
fine dell’esercizio della tutela giudiziale in determinate materie, nonché
tenuto conto del grado di specificità di alcuni principi e criteri direttivi
fissati dall’art. 60 della legge n. 69 del 2009, che risultano in contrasto con
le disposizioni stesse.
I principi e
criteri direttivi di cui alle lettere c) e n) del comma 3, dell’art. 60 della
legge citata, ad avviso del rimettente, porterebbero ad escludere che
l’obbligatorietà del previo esperimento della mediazione, al fine
dell’esercizio della tutela giudiziale in determinate materie, possa rientrare
nella discrezionalità affidata alla legislazione delegata, quale mero sviluppo
o fisiologica attività di riempimento della delega, anche tenendo conto della
sua ratio e della sua finalità, nonché del contesto normativo comunitario al
quale è ricollegabile.
2.— Con atto
depositato in data 20 dicembre 2011, si sono costituiti nel giudizio di
legittimità costituzionale l’Organismo Unitario dell’Avvocatura Italiana – OUA,
il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli, il Consiglio dell’Ordine
degli Avvocati di Torre Annunziata, l’Unione Regionale dei Consigli dell’Ordine
degli Avvocati della Campania, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di
Lagonegro, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Larino, il Consiglio
dell’Ordine degli Avvocati di Campobasso, in persona dei rispettivi presidenti
pro tempore, i quali agiscono anche in proprio, chiedendo che la questione sia
dichiarata fondata.
Gli esponenti,
nel ribadire le argomentazioni del TAR, rilevano, con riferimento alla
violazione dell’art. 77 Cost., che l’art. 60 della legge delega al comma 3,
lettera a), nel prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione,
abbia per oggetto controversie su diritti disponibili «senza precludere
l’accesso alla giustizia», non introdurrebbe un aspetto neutrale (come sembra,
invece, affermare il TAR), ma piuttosto avrebbe richiesto che il procedimento
di mediazione non fosse costruito quale condizione di procedibilità della
domanda giudiziale, pena una pesante limitazione alla immediata accessibilità
alla giustizia ed una altrettanto incisiva compromissione dell’effettività e
tempestività della tutela giudiziale.
Al di là della
stessa previsione della legge-delega, nell’ambito dell’ordinamento comunitario,
la direttiva 2008/52/CE, nel disciplinare alcuni aspetti della mediazione
civile e commerciale, al quattordicesimo Considerando, ha stabilito che
l’istituto della mediazione non debba essere configurato in modo da impedire
alle parti «di esercitare il loro diritto di accesso al sistema giudiziario».
La previsione dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, pertanto, non troverebbe
aderenza non solo nel contesto normativo nazionale, ma anche in quello
comunitario.
Quanto al contrasto
con l’art. 24 Cost., le parti osservano come la Corte costituzionale, sin dagli
anni ’50, abbia ritenuto che detta norma vada intesa non solo nel senso di
apprestare la possibilità, in capo ai cittadini, di far valere le proprie
ragioni in un giudizio, ma ancor più di garantire la difesa tecnica (a tal fine
è richiamata la sentenza n. 46 del 1957).
Ebbene, tale
difesa non sarebbe assicurata nel caso di specie, in cui l’accesso alla
giustizia non resterebbe soltanto subordinato e, dunque, ritardato dall’esperimento
obbligatorio di un tentativo di conciliazione, ma sarebbe gestito da soggetti
non adeguatamente formati e privi della necessaria competenza
tecnico-giuridica, mentre l’intero procedimento di mediazione sarebbe, invece,
costruito sul presupposto della piena conoscenza, competenza e perizia nelle
discipline giuridiche.
In tal senso
rileverebbero non solo gli artt. 12 e 13 del d.lgs. n. 28 del 2010, ma anche
l’art. 8, comma 5, del medesimo decreto, nella parte in cui prevede che la
mancata partecipazione al procedimento possa valere come argomento di prova nel
successivo eventuale processo. Sarebbe evidente, dunque, che le parti debbano
essere rese edotte da un soggetto competente ed esperto delle conseguenze
processuali delle loro scelte; ne consegue che tale soggetto non potrebbe che
essere un avvocato.
Secondo gli
esponenti, poiché l’istituto della mediazione si pone l’obiettivo di addivenire
ad una composizione delle rispettive posizioni giuridiche, al pari del sistema
giurisdizionale dovrebbe consentire ai cittadini di fruire delle medesime
garanzie di tutela.
3.— Con atto
depositato in data 12 gennaio 2012, si sono costituite in giudizio
«l’Associazione degli Avvocati Romani» e l’Associazione «Agire e informare»,
parti intervenute ad adiuvandum nel giudizio a quo.
Dette
associazioni, nel riservarsi di presentare memorie illustrative e nel fare
integralmente proprie le motivazioni poste a sostegno dell’ordinanza di
rimessione, rappresentano che, dopo tale ordinanza, con risoluzione del
Parlamento europeo in data 13 settembre 2011, circa l’attuazione della
direttiva sulla mediazione negli Stati membri, pur apprezzando lo sforzo
intrapreso in ambito nazionale per introdurre una disciplina dell’istituto, si
è «ciò nonostante sottolinea[to] che la mediazione dovrebbe essere promossa
come una forma di giustizia alternativa praticabile, a basso costo e rapida,
piuttosto che come un elemento obbligatorio della procedura giudiziaria».
Ad avviso delle
intervenienti, ciò confermerebbe il dubbio di legittimità costituzionale delle
disposizioni censurate, le quali in concreto rendono la mediazione «elemento
obbligatorio» della procedura giudiziaria, però sottoposta a modalità
liberalizzate, nei sensi dell’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, contrastanti
con l’art. 24 Cost. e non conformi ai principi e ai criteri direttivi fissati
dalla legge delega.
4.— Con atto
depositato in data 12 gennaio 2012, si è costituita nel giudizio di legittimità
costituzionale l’Organismo di mediazione ADR Center s.p.a., parte intervenuta
ad opponendum nel giudizio a quo la quale, riservandosi di presentare memorie e
produrre documenti, ha chiesto di voler dichiarare manifestamente infondata ed
inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata con
ordinanza del 12 aprile 2011 dal TAR Lazio.
5.— Con atto
depositato in data 13 gennaio 2012, si è costituita nel giudizio di legittimità
costituzionale l’Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i
minori, chiedendo che la questione sia dichiarata fondata.
Ad avviso
dell’esponente la legge delega, nell’indicare che la mediazione non avrebbe
dovuto precludere l’accesso alla giustizia, intendeva far riferimento non alla
possibilità di adire il giudice dopo la mediazione, «cosa scontata e ovvia»,
bensì alla necessità che essa non condizionasse il diritto di azione e, quindi,
non fosse costruita come condizione di procedibilità. Si osserva come sia
circostanza del tutto evidente che, dopo il procedimento di mediazione, la
parte possa adire il giudice, poiché sarebbe impensabile che nell’ordinamento,
dopo una condizione di procedibilità, non si dia alla parte il diritto alla
tutela giurisdizionale.
Né, in senso
contrario, potrebbe obiettarsi che il problema non si pone in considerazione
della brevità del termine di quattro mesi, cosicché la condizione di
procedibilità sarebbe compensata dal termine breve fissato nell’art. 6 del
d.lgs. n. 28 del 2010; il termine di quattro mesi era già stato fissato nella
lettera q) del comma 3, dell’art. 60 della legge delega, la quale al tempo
stesso richiedeva che la mediazione fosse tale da non precludere l’accesso alla
giustizia.
Per quanto
concerne l’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010, l’AIAF osserva come l’art. 24
Cost. non possa dirsi rispettato, in quanto la figura del mediatore non è stata
conformata in modo da garantire alle parti una adeguata informazione.
6.— Con atto
depositato in data 13 gennaio 2012, è intervenuto nel presente giudizio di
costituzionalità il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Firenze,
interveniente ad adiuvandum nel giudizio a quo, il quale nel ribadire e far
proprie le argomentazioni formulate dal TAR rimettente, ha chiesto che la
questione sia dichiarata fondata.
7.— Con atto
depositato in data 13 gennaio 2012, si è costituita nel giudizio di legittimità
costituzionale l’Unione Nazionale delle Camere Civili la quale, svolgendo
argomentazioni analoghe a quelle del TAR, ha chiesto che la questione sia
dichiarata fondata.
8.— Con atto
depositato in data 17 gennaio 2012, si sono costituiti nel presente giudizio il
Ministro della giustizia e il Ministro dello sviluppo economico, chiedendo che
le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate non fondate.
I detti ministri
rilevano come la mediazione obbligatoria sia prevista e ammessa dalla direttiva
comunitaria, alla quale dà attuazione il d.lgs. n. 28 del 2010 in forza della
delega di cui all’art. 60 della legge n. 69 del 2009, norma che richiama
espressamente tale normativa comunitaria; deve, pertanto, escludersi che il
legislatore sia incorso nel denunciato vizio di eccesso di delega.
A tal fine è
evocata la sentenza n. 276 del 2000 in materia di tentativo obbligatorio di
conciliazione nelle controversie di lavoro.
In detta
occasione la Corte costituzionale affermò l’insussistenza del vizio di eccesso
di delega, benché la legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il
conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma
della pubblica amministrazione e per la semplificazione amministrativa), non
prevedesse l’obbligatorietà della conciliazione. La Corte costituzionale
affermò, altresì, l’assenza di contrasto con l’art. 24 Cost. in virtù del
principio per cui «la tutela del diritto di azione non comporta l’assoluta
immediatezza del suo esperimento, ben potendo la legge imporre oneri finalizzati
a salvaguardare interessi generali, con le dilazioni conseguenti». In quel
caso, osservano i resistenti nel giudizio a quo, la Corte individuò tali
«interessi generali» sia nell’evitare che l’incremento delle controversie
attribuite al giudice ordinario in materia di lavoro provocasse un sovraccarico
dell’apparato giudiziario, sia nel favorire «la composizione preventiva della
lite che assicura alle situazioni sostanziali un soddisfacimento più immediato
rispetto a quelle conseguite attraverso il processo».
Ciò posto, la
difesa dello Stato ritiene che «gli interessi generali» devono ritenersi
perseguiti anche dalla norma in esame, specialmente con riferimento al secondo
di detti «interessi», ove si consideri che l’elemento che caratterizza la
mediazione è dato dalla finalità di assistenza delle parti nella ricerca di una
composizione non giudiziale del conflitto, basata sul rendere complementari gli
interessi e non sul distribuire torti e ragioni.
Anche per quanto
concerne la violazione dell’art. 24 Cost., l’Avvocatura osserva come detta
censura sveli un approccio non corretto all’istituto in esame.
La mediazione ed
il processo ordinario di cognizione, ad avviso dell’esponente, si muovono su
piani completamente diversi che non interferiscono tra loro (se non sotto il
profilo della disciplina delle spese giudiziali e degli argomenti di prova che
il giudice può desumere dalla mancata partecipazione, senza giustificato
motivo, al procedimento di mediazione) ed è errato confondere il piano del
diritto di azione garantito dall’art. 24 Cost. (così come dal diritto
sovranazionale), con il piano della mediazione che non è «rinuncia alla
giurisdizione», ma semplicemente un modo attraverso il quale le parti, in
presenza di una lite insorta o che sta per insorgere, risolvono la stessa
cercando un punto di equilibrio tra i contrapposti interessi. Ne consegue che
imporre il tentativo di conciliazione non significa né rinunciare alla
giurisdizione, né ostacolarla: le parti non sono tenute ad accordarsi, mentre i
tempi contenuti entro i quali il tentativo di conciliazione deve svolgersi non
possono pacificamente rappresentare un ostacolo alla giurisdizione.
Quanto al timore
che i diritti «siano definitivamente conformati», l’Avvocatura precisa che il
mediatore, sentite le diverse prospettazioni del conflitto, ha il compito di
avviare il dialogo che la conflittualità può avere impedito e ciò allo scopo di
aiutare a trovare un accordo che non costituisce accertamento della verità, ma
individuazione di un punto di equilibrio soddisfacente per entrambe le parti.
La circostanza,
poi, che l’accordo sia anche titolo esecutivo e titolo per l’iscrizione di
ipoteca giudiziale non può indurre a concludere che detto accordo non possa
essere equiparato, come si è ora fatto, a qualsiasi altro contratto o negozio.
L’accordo è titolo esecutivo così come lo sono la cambiale, l’assegno bancario,
gli altri titoli stragiudiziali che non presuppongono necessariamente un
accertamento di verità.
Quanto alla
questione di legittimità costituzionale che attiene all’art. 16 del d.lgs. n.
28 del 2010, l’Avvocatura osserva, in via preliminare, che la censura deve
ritenersi superata per effetto dell’entrata in vigore del decreto del Ministro
della giustizia 6 luglio 2011, n. 145 (Regolamento recante modifica al decreto
del Ministro della giustizia 18 ottobre 2010, n. 180, sulla determinazione dei
criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di
mediazione e dell'elenco dei formatori per la mediazione, nonché
sull'approvazione delle indennità spettanti agli organismi, ai sensi
dell'articolo 16 del decreto legislativo n. 28 del 2010), il quale ha
modificato il decreto n. 180 del 2010, per cui gli atti devono essere rimessi
al giudice a quo per una nuova valutazione della rilevanza della questione di
legittimità costituzionale.
In ogni caso,
l’Avvocatura afferma che se anche non fosse stato introdotto il correttivo
citato la censura sarebbe comunque infondata. Premesso che la norma denunciata
[recte: art. 18 del d.m. n. 180 del 2010] prevede per il mediatore «un percorso
formativo non inferiore a cinquanta ore» e un percorso di aggiornamento «non
inferiore a diciotto ore», modulando l’iter formativo in modo da assicurare
«elevati livelli di formazione», si osserva come l’accordo al quale mira la
mediazione sia una sistemazione negoziale, che può anche avere la veste di una
transazione, con la quale le parti dettano una regola per disciplinare il loro
rapporto e con la quale superano il conflitto a prescindere dal riconoscimento
di torti e ragioni.
Al mediatore,
quindi, non sarebbe richiesto di pronunciarsi sulla fondatezza di una pretesa
in forza di una norma da applicare; costui potrà formulare una proposta, ma
saranno, poi, le parti a realizzare l’atto dispositivo espressione della loro
autonomia negoziale. Al mediatore non sarebbe richiesta necessariamente una
specifica preparazione tecnico-giuridica, così come è lasciata alla libera
determinazione delle parti la stipulazione di contratti in materia di diritti
disponibili, per la cui conclusione non è richiesta alcuna assistenza tecnica.
Ad avviso
dell’Avvocatura, infine, «professionalità dell’organismo» (efficiente
organizzazione e servizio) e «competenza del mediatore» sono aspetti del tutto
diversi che non possono essere confusi, come invece sembra fare il rimettente.
9.— Il Tribunale
di Genova, con ordinanza del 18 novembre 2011 (r.o. n. 108 del 2012), ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., questione di legittimità
costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 2653, primo
comma, numero 1), del codice civile; nonché questione di legittimità
costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 16 del d.m. n.
180 del 2010.
Con
provvedimento del 4 ottobre 2012 la discussione del presente giudizio, già
prevista per la camera di consiglio del 24 ottobre 2012, è stata anticipata
all’udienza del 23 ottobre 2012.
In punto di
fatto il rimettente espone di essere investito di una controversia in tema di
servitù prediali.
Ciò premesso, il
rimettente, dopo aver rilevato la mancata instaurazione del procedimento di
mediazione e dopo aver analiticamente riportato le eccezioni di illegittimità
costituzionale proposte dall’attrice, solleva il dubbio di costituzionalità nei
termini di seguito indicati.
Per quanto
attiene alla questione dedotta con riferimento all’art. 2653, cod. civ., il
rimettente osserva che le domande giudiziali concernenti i diritti reali
possono essere trascritte, ai sensi dell’art. 2653, primo comma, numero 1),
cod. civ. La sentenza pronunciata contro il convenuto indicato nella
trascrizione ha effetto anche contro coloro che hanno acquistato diritti dal
medesimo in base ad un atto trascritto dopo la trascrizione della domanda.
Nel caso di
specie, i ricorrenti hanno formulato una domanda diretta all’accertamento
dell’esistenza, in favore del loro fondo ed a carico di quello dei convenuti,
di una servitù di passaggio, nonché all’accertamento della violazione del
diritto a loro spettante in base ad essa ed alla eliminazione degli effetti del
denunciato abuso. Si tratterebbe, dunque, di un’azione rientrante nell’art.
1079 cod. civ., in relazione alla quale, a sensi dell’art. 2653, primo comma,
numero 1), cod. civ., è richiesta la trascrizione.
Il Tribunale
osserva, altresì, come la mancata trascrizione della domanda giudiziale, a
prescindere dalla trascrizione del titolo costitutivo della servitù,
importerebbe l’inopponibilità della sentenza nei confronti di chi acquisti il
fondo servente nel corso del processo e che abbia trascritto il suo titolo
«senza che possa rilevare che a suo tempo sia stato regolarmente trascritto
l’atto costitutivo della servitù, con la conseguenza che il terzo acquirente è
legittimato a proporre contro la detta sentenza pronunciata in giudizio, a cui
è rimasto estraneo, l’opposizione di terzo ex art. 404 cod. proc. civ.» (è
evocata la sentenza della Corte di cassazione del 23 maggio 1991, n. 5852).
Ciò posto, il
rimettente, in punto di non manifesta infondatezza, osserva che non è possibile
trascrivere la domanda di mediazione in quanto l’art. 2653 cod. civ. contiene
un elenco tassativo ed ha riguardo, unicamente, alle domande giudiziali; né
sarebbe possibile trascrivere il verbale di mediazione, essendo prevista unicamente
la possibilità di trascrivere l’accordo conclusivo, previa autenticazione delle
sottoscrizioni da parte di un pubblico ufficiale a tanto autorizzato.
Da ciò
conseguirebbe, ad avviso del Collegio, che per i diritti reali la mediazione
dovrebbe essere sempre doppiata dal giudizio ordinario, nella forma
tradizionale o nelle forme dell’art. 702-bis cod. proc. civ., atteso che, in
caso contrario, l’attore vittorioso non potrebbe comunque trascrivere
direttamente né il verbale di avvenuta positiva mediazione, se non previa
autenticazione delle sottoscrizioni da parte di un pubblico ufficiale a ciò
abilitato, né soprattutto giovarsi dell’effetto cosiddetto prenotativo della
domanda di mediazione, non trascrivibile.
Da ciò
conseguirebbe, inoltre, che l’attore dovrebbe presentare istanza di mediazione,
a pena di improcedibilità della domanda, iniziare comunque un giudizio
trascrivendo la domanda giudiziale, ed a prescindere dall’esito della
mediazione, chiedere una pronunzia giurisdizionale di merito; ciò perché non
potrebbe né trascrivere direttamente il verbale di mediazione, né soprattutto
giovarsi dell’effetto prenotativo della domanda, in quanto tale effetto sarebbe
limitato ai casi in cui la trascrizione della domanda stessa sia seguita dalla
pronuncia di una sentenza o di un provvedimento giurisdizionale analogo alla
stessa, come appunto l’ordinanza ai sensi dell’art. 702-ter cod. proc. civ.
La conseguenza
in questi casi sarebbe che il soggetto procedente si troverebbe costretto a
sopportare sia i costi della mediazione, sia il pagamento del contributo
unificato per l’instaurazione del giudizio, senza in ogni caso potersi giovare
dell’effetto deflattivo della procedura di mediazione.
Il rimettente,
poi, si sofferma sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 5 del
d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 16 del d.m. n. 180 del 2010, con riferimento
agli artt. 3 e 24 Cost. per avere essi previsto una mediazione obbligatoria di
tipo oneroso. Il carattere oneroso, quale risultante dal combinato disposto
delle norme indicate, contrasterebbe con l’art. 24 Cost. in quanto
condizionerebbe al pagamento di una somma di denaro l’accesso al giudice.
La conclusione,
secondo cui la previsione della mediazione obbligatoria onerosa sia in
contrasto con l’art. 24 Cost., troverebbe conferma nel principio espresso nella
sentenza n. 67 del 1960, secondo cui la difesa è un diritto inviolabile in ogni
stato del procedimento, indipendentemente da ogni differenza di condizioni
personali e sociali.
Il giudice a quo
ritiene non manifestamente infondata anche la censura rivolta nei confronti
dell’art. 5 del d.lgs. citato e dell’art. 16 del d.m., là dove prevedono «che
il solo convenuto possa non aderire al procedimento di mediazione» in quanto
introducono una disparità di trattamento tra attore e convenuto, atteso che per
l’attore non è prevista la possibilità di rinunciare ad avvalersi del servizio,
incorrendo sempre nel pagamento sia delle spese di avvio, sia delle spese di
mediazione.
Il rimettente,
infine, ritiene la sussistenza di un altro profilo di illegittimità dell’art. 5
del d.lgs. nella parte in cui prevede la mediazione obbligatoria solo per
alcuni gruppi di materie e non per altre, sia pure caratterizzate dalla
disponibilità dei diritti sottostanti.
Sarebbe il caso
della mediazione immobiliare, sottratta alle materie per le quali è prevista la
mediazione obbligatoria o, con riferimento al caso di specie, alla domanda
volta a dichiarare la nullità o pronunciare l’annullamento di un contratto
costitutivo di servitù.
Tale domanda,
non rientrando nei blocchi di materie di cui all’art. 5 del d.lgs. citato,
potrebbe essere direttamente azionata in giudizio, attenendo ad un contratto
per il quale non è prevista la mediazione obbligatoria (questa, infatti, è
prevista solo per i contratti assicurativi, bancari e finanziari); al
contrario, la domanda di accertamento o declaratoria di servitù, involgendo
diritti reali, rientrerebbe appieno nelle materie soggette a mediazione
obbligatoria. Il rimettente ritiene che tale differenziazione non sia
giustificata da alcuna ragionevole scelta di politica legislativa.
10.— Con atto
del 26 giugno 2012, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.
In primo luogo,
la difesa statale eccepisce l’inammissibilità, per difetto di rilevanza, della
questione di legittimità costituzionale concernente l’art. 5 del d.lgs. n. 28
del 2010, nella parte in cui prevede l’obbligatorietà della mediazione solo in
relazione a determinate controversie, in quanto la causa oggetto del giudizio
principale concerne una domanda di accertamento di servitù, senza dubbio
rientrante tra quelle per le quali l’art. 5 del d.lgs. citato prevede la
mediazione come obbligatoria.
In ogni caso, si
osserva come la questione sia, altresì, non fondata versandosi in tema di
scelte discrezionali del legislatore, che possono essere non condivisibili, ma
non viziate da irragionevolezza.
Ciò posto, la
difesa dello Stato ritiene non fondate le censure relative all’art. 5 del d.lgs.
citato e all’art. 2653 cod. civ., in quanto le finalità cui mirano i due
istituti sono diverse; pertanto il soggetto che vuole conseguire gli effetti
della trascrizione della sua domanda, ovvero l’efficacia cosiddetta prenotativa
della stessa, deve necessariamente anche iscrivere la causa a ruolo per
trascrivere detta domanda, ma non per questo la norma deve essere ritenuta
affetta da illegittimità costituzionale.
Per quel che
concerne la doglianza mossa con riferimento al carattere oneroso della mediazione,
la difesa dello Stato ne deduce la non fondatezza, richiamando il principio,
affermato nella decisione di questa Corte n. 114 del 2004, secondo cui non può
ragionevolmente ritenersi estraneo alla finalità del miglior andamento della
giustizia un costo avente la funzione di fornire al cittadino un servizio
finalizzato alla soluzione della lite e che persegue l’interesse pubblico di
restituire alla decisione dell’autorità giudiziaria il ruolo di extrema ratio.
La mediazione –
ad avviso dell’Avvocatura – mira ad evitare che ogni controversia si trasformi
in contenzioso giudiziario e ciò in ossequio al principio di proporzionalità
nell’utilizzo delle risorse giudiziarie che ha una ricaduta sia sui costi a
carico della collettività, sia sul principio costituzionale della ragionevole
durata del processo.
La difesa dello
Stato, poi, non condivide l’opinione secondo cui, nel caso della mediazione, vi
sarebbe un esborso non destinato allo Stato, ma ad un organismo anche di natura
privata; al riguardo, l’Avvocatura rileva che il nostro sistema giudiziario si
basa sulla pressoché totale obbligatorietà della difesa tecnica in giudizio e
non conosce forme di difesa «pubblica» ed, ancora, che i due termini
«obbligatoria e onerosa» riferiti alla mediazione possono convivere non solo
nel nostro sistema costituzionale, ma anche in quello comunitario.
È, altresì,
richiamata la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea nella
quale, dopo avere qualificato «legittimi obiettivi di interesse generale […]
una definizione spedita delle controversie nonché un decongestionamento dei
tribunali», si è affermato che rispetto a questi obiettivi «non esiste
un’alternativa meno vincolante alla predisposizione di una procedura
obbligatoria, dato che la introduzione di una procedura meramente facoltativa
non costituisce uno strumento altrettanto efficace per la realizzazione di
detti obiettivi» (sentenza del 28 marzo 2010 nelle cause riunite da C-317 a
C-320/08).
Tutto ciò,
peraltro, non esime il legislatore dallo strutturare l’onere economico di cui
si tratta in termini di ragionevolezza ed al riguardo la difesa dello Stato
ritiene che il canone di ragionevolezza sia stato rispettato. In proposito, la
difesa dello Stato osserva che gli importi minimi delle indennità per ciascuno scaglione
di riferimento non solo sono derogabili (art. 16 del d.m. n. 180 del 2010, come
modificato dal decreto ministeriale n. 145 del 2011), ma nei casi di mediazione
prevista come condizione di procedibilità l’importo massimo delle spese di
mediazione deve essere ridotto di un terzo per i primi sei scaglioni e fino
alla metà per i restanti quattro. Sono previsti, inoltre, degli incentivi:
tutti gli atti, documenti e provvedimenti sono esenti da bollo, spese, tasse
e/o diritti, mentre il verbale di accordo è esente da imposta di registro sino
al valore di 50.000,00 euro.
In caso di
successo, inoltre, vi è un credito di imposta per entrambe le parti sino a
500,00 euro, credito che si riduce alla metà in caso di insuccesso (art. 20).
Infine, ad
avviso della difesa dello Stato, il costo di un procedimento giudiziario è
molto più elevato, anche senza considerare la possibilità di tre gradi di
giudizio.
Con riferimento
alla censura sollevata in relazione alla violazione dell’art. 3 Cost., in
quanto si introdurrebbe una disparità di trattamento tra attore e convenuto, la
difesa dello Stato ritiene che la circostanza secondo cui l’onere economico
dell’avvio e della mediazione rimangono a carico del solo attore, in caso di
mancata comparizione del chiamato, è «la naturale conseguenza di condotte
processuali diverse: né potrebbe prevedersi un obbligo per il chiamato in
mediazione di comparire alla stessa, così come non potrebbe prevedersi
l’obbligo per il convenuto di costituirsi in giudizio».
Peraltro, la
mancata partecipazione del chiamato senza giustificato motivo, ad avviso
dell’Avvocatura, non rimarrebbe priva di conseguenze, anche di rilievo
economico, posto che tale condotta sarebbe valutata dal giudice ai sensi
dell’art. 116 cod. proc. civ., così come stabilito dall’art. 8, comma 5, del
d.lgs. n. 28 del 2010.
11.— Il Giudice
di pace di Parma, con ordinanza del 1° agosto 2011 (r.o. n. 254 del 2011), ha
sollevato, in riferimento agli artt. 24 e 77 Cost., questione di legittimità
costituzionale dell’art. 5, comma 1, primo, secondo e terzo periodo, e
dell’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010.
Il rimettente
premette di dover giudicare in una causa civile avente ad oggetto una «domanda
di pagamento in materia di locazione di beni mobili, rientrante nella previsione
normativa di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, per la quale è previsto
il preliminare procedimento di mediazione a pena di improcedibilità».
II giudice a quo
dà atto che l’attrice ha omesso di svolgere il detto procedimento ed ha
eccepito alcune questioni di legittimità costituzionale di cui dà conto
nell’ordinanza.
Ciò premesso, il
rimettente, dopo aver riepilogato il quadro normativo di riferimento, ritiene
che le disposizioni sopra indicate risultino in contrasto con l’art. 24 Cost.,
«in quanto realizzano un meccanismo di determinante influenza di situazioni
preliminari sulla tutela giudiziale dei diritti, posto che l’art. 5 in discorso
ha configurato, nelle materie previste, l’attività degli organismi di
conciliazione come imprescindibile e per ciò stesso, idonea a conformare
definitivamente i diritti soggettivi coinvolti».
In particolare,
l’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010 «ha delineato gli organismi di
conciliazione con riferimento a qualità nell’ottica della mera funzionalità
degli stessi, omettendo qualsiasi riferimento a criteri di qualificazione
tecnica o professionale»; sicché, «in difetto di una adeguata definizione della
figura del mediatore, le norme in discorso potrebbero essere fonte di
pregiudizi a danno dei privati, i quali in sede giudiziale potrebbero usufruire
di elementi di valutazione diversi da quelli a loro offerti nella fase
preliminare del procedimento di mediazione».
Il rimettente
ritiene, inoltre, che dette disposizioni siano in contrasto anche con l’art. 77
Cost., posto che «il legislatore delegante non ha formulato alcuna indicazione
circa l’obbligatorietà del previo esperimento del procedimento di mediazione»;
ed anzi alla luce dei principi e criteri direttivi della legge delega, di cui
alle lettere c) e n) del comma 3 dell’art. 60, dovrebbe escludersi che
l’obbligatorietà del procedimento di mediazione possa rientrare nella
discrezionalità tipica della legislazione delegata «quale attività di
attuazione e sviluppo della delega, nella debita considerazione del contesto
normativo comunitario di riferimento».
12.— Con atto
depositato in data 23 dicembre 2011, è intervenuto in giudizio il Presidente
del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale
dello Stato, il quale ha formulato argomentazioni identiche a quelle esposte
nell’atto di intervento, da parte del Ministro della giustizia e del Ministro
dello sviluppo economico, in relazione alla questione sollevata con r.o. n. 268
del 2011.
13.— Il Giudice
di pace di Recco, con ordinanza del 5 dicembre 2011 (r.o. n. 33 del 2012), ha
sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., questione di
legittimità costituzionale «dell’art. 5 del decreto legislativo n. 28 del 2010
e art. 16 D.M. n. 180/10, da soli ed anche in combinato disposto, nelle parti e
per il motivo che creano ostacoli all’esercizio dell’azione, che eliminano la tutela
giudiziaria per i meno abbienti, che ledono il principio di ragionevole durata
del processo e che creano disparità di trattamento per situazioni analoghe».
In punto di
fatto, il rimettente riferisce che deve pronunziare in «una controversia non
priva di interesse e nemmeno di agevole soluzione che tuttavia in quanto basata
su risultanze documentali sarebbe stata decisa in quindici giorni».
Ciò premesso, il
giudice a quo ritiene che le disposizioni indicate siano in contrasto con
l’art. 24 Cost. «in relazione ai tempi del processo», in quanto il termine di
quattro mesi «appare decisamente al di fuori della soglia di tollerabilità»,
ciò ancor più se si prendono in considerazione altri procedimenti concernenti
tentativi obbligatori di conciliazione, prevedenti termini di espletamento più
brevi: 30 giorni in materia di subfornitura e telecomunicazione, 60 giorni in
materia di lavoro e contratti agrari, 90 giorni in tema di diritto d’autore;
nonché in relazione alla disciplina dei costi della mediazione, sottolineando
come «tra l’esigenza di non rendere economicamente troppo gravoso ai cittadini
l’accesso alla tutela giurisdizionale e l’esigenza, pur particolarmente
avvertita, di individuare strumenti idonei a decongestionare gli uffici
giudiziari attraverso lo sfoltimento del carico di lavoro, prevalenza debba
avere la prima».
Dette
disposizioni sarebbero, altresì, in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto la
disciplina dei costi della mediazione introdurrebbe una disparità di
trattamento tra meno abbienti ed abbienti; infatti, sebbene sia stato previsto
il beneficio del patrocinio a spese dello Stato, la disparità di trattamento,
comunque, rimarrebbe in relazione a quei soggetti che, pur non rientrando tra
coloro che possono beneficiare del patrocinio, versano in condizioni economiche
non agiate per cui, dopo aver già sostenuto un costo per una causa, un
ulteriore costo per una mediazione dall’esito incerto diverrebbe insostenibile
e finirebbe per costituire un deterrente dall’agire in giudizio.
Ad avviso del
rimettente, ancora, sussisterebbe il contrasto con l’art. 111 Cost. sotto il
profilo della ragionevole durata del processo, in quanto l’esperimento della
mediazione dilaterebbe i tempi di esso senza che ciò sia giustificato da
esigenze specifiche ed anche perché l’esperimento obbligatorio della mediazione
dovrebbe effettuarsi non solo con riferimento alla domanda principale, ma anche
in relazione ad ogni singola azione proposta nel corso del processo.
Dette
disposizioni, infine, violerebbero l’art. 3 Cost., per irragionevolezza della
previsione della obbligatorietà della mediazione avente ad oggetto le
controversie di competenza del Giudice di pace, dal momento che, nel
procedimento avanti al detto giudice, è già previsto il tentativo obbligatorio
di conciliazione.
14.— Con atto
depositato in data 3 aprile 2012, è intervenuto in giudizio il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.
La difesa dello
Stato, dopo avere riassunto il quadro normativo di riferimento, si sofferma
sulle censure del rimettente, ponendo in rilievo come l’elemento che
caratterizza la mediazione sia dato dalla finalità di assistenza delle parti
nella ricerca di una composizione non giudiziale del conflitto, basata sul
rendere complementari gli interessi e non sul distribuire torti o ragioni.
Per quanto
attiene alle doglianze concernenti l’onerosità della mediazione, la difesa
dello Stato invoca la sentenza di questa Corte n. 114 del 2004, la quale
richiama principi già illustrati nelle pronunce n. 522 del 2002 e n. 333 del
2001, ribadendo le argomentazioni precedentemente svolte.
In ogni caso,
l’Avvocatura rileva che la mediazione non può definirsi «onerosa» per le parti
se raffrontata con il costo di un giudizio ordinario e con la speditezza
nell’esercizio dell’azione; si tratterebbe, peraltro, di costi estremamente
contenuti soprattutto se si considera che il procedimento consente di
realizzare un ben maggiore risparmio ed, inoltre, che è gratuito per i
cittadini i quali possono usufruire del patrocinio a spese dello Stato.
15.— Il Giudice
di pace di Catanzaro, con ordinanza del 1° settembre 2011 (r.o. n. 2 del 2012),
ha sollevato, in riferimento agli artt. 24, 76 e 77 Cost., questione di
legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella parte
in cui prevede che l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di
procedibilità della domanda giudiziale, in ordine alle controversie nelle materie
ivi indicate, e dell’art. 16 del d.m. n. 180 del 2010, in relazione all’art. 3
Cost.
In punto di
fatto, il rimettente premette di essere investito del procedimento civile
promosso al fine di accertare il diritto ad ottenere la restituzione di due libri
concessi in comodato e nel quale la convenuta ha eccepito, in via preliminare,
la improcedibilità della domanda per omesso esperimento del tentativo
obbligatorio di conciliazione, ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010.
Ciò posto, il
rimettente riferisce che la controversia riguarda un contratto di comodato,
sicché rientra nelle ipotesi previste dall’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 ed
in relazione alle quali il previo esperimento del tentativo di conciliazione è
condizione di procedibilità; che la proposizione della domanda è successiva
all’entrata in vigore della predetta disposizione ed, inoltre, che il convenuto
ha tempestivamente sollevato l’improcedibilità della domanda stessa.
In punto di non
manifesta infondatezza, il rimettente osserva come l’art. 5 del d.lgs. n. 28
del 2010, concependo il procedimento di mediazione come condizione di
procedibilità, rischierebbe di compromettere l’effettività della tutela
giudiziale; né si potrebbe argomentare che non vi è preclusione ad accedere
alla giustizia dal momento che, una volta attivato il procedimento di
mediazione e trascorso il termine di quattro mesi, l’accesso alla giustizia
sarebbe possibile, in quanto «è cosa ovvia» che dopo il procedimento di
mediazione la parte possa adire il giudice perché «nel nostro sistema è
impensabile che non si dia alla parte il diritto alla tutela giurisdizionale».
Il giudice a quo
prosegue osservando come l’art. 60 della legge delega, con la formula «senza
precludere l’accesso alla giustizia», farebbe riferimento alla necessità che la
mediazione non condizioni il diritto di azione e che quindi non sia costruita
come condizione di procedibilità. Né la brevità del termine potrebbe indurre a
conclusioni diverse, visto che detto termine era già stato fissato nella legge
delega ed in particolare alla lettera q) del comma 3 dell’art. 60.
Ad avviso del
rimettente, dunque, l’obbligatorietà del procedimento di mediazione, nelle
ipotesi di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, violerebbe l’art. 60 della
legge delega n. 69 del 2009.
Inoltre, il
giudice a quo solleva la questione di legittimità costituzionale in riferimento
all’art. 24 Cost., in quanto se il tentativo obbligatorio di conciliazione ha
un costo e questo costo non è meramente simbolico, come appunto previsto dalla
disposizione indicata, ciò significa che l’esercizio della funzione
giurisdizionale è subordinato al pagamento di una somma di denaro.
Vi sarebbe,
dunque, il contrasto con i principi affermati nella sentenza n. 67 del 1960 di
questa Corte, nella quale è stato stabilito che tutti possono agire in giudizio
per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi e che la difesa è
diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, il quale deve
trovare attuazione uguale per tutti, indipendentemente da ogni differenza di
condizioni personali e sociali.
Il giudice
rimettente richiama, poi, il noto orientamento della giurisprudenza
costituzionale che distingue tra oneri «razionalmente collegati alla pretesa
dedotta in giudizio, allo scopo di assicurare al processo uno svolgimento
meglio conforme alla sua funzione», da ritenere consentiti, e quelli che,
invece, «tendono alla soddisfazione di interessi del tutto estranei alle
finalità predette» i quali, conducendo al risultato «di precludere od ostacolare
gravemente l’esperimento della tutela giurisdizionale», incorrono «nella
sanzione dell’incostituzionalità» (sono richiamate le sentenze n. 522 del 2002
e n. 333 del 2001).
Secondo il
rimettente, dunque, l’art. 5 del d.lgs. si porrebbe in contrasto con l’art. 24
Cost. e con «tutti i parametri di costituzionalità», in quanto prevede un
esborso che non può essere ricondotto né al tributo giudiziario, né alla
cauzione; che non è di modestissima, né di modesta, entità; che non va allo
Stato, bensì ad un organismo che potrebbe avere anche natura privata. Si
tratterebbe, poi, di un esborso che non potrebbe considerarsi nemmeno
«razionalmente collegato alla pretesa dedotta in giudizio, allo scopo di
assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione»,
poiché questi esborsi sarebbero da rinvenire solo nelle cauzioni e nei tributi
giudiziari, non in altre cause di pagamento.
Il giudice a quo
ritiene non manifestamente infondata anche la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 16, comma 4, del d.m. n. 180 del 2010, concernente i
criteri di determinazione dell’indennità, nella parte in cui consente «solo
alla parte convenuta di non aderire al procedimento, ma non anche alla parte
attrice, che si vedrebbe, comunque, obbligata al procedimento di mediazione per
poter far valere in giudizio un suo diritto»; ciò sarebbe in violazione
dell’art. 3 Cost., sotto il profilo del principio di uguaglianza, perché «pone
su piani diversi, e tratta diversamente, la parte attrice».
Le dette
disposizioni, inoltre, si porrebbero in contrasto anche con gli artt. 76 e 77
Cost. in quanto violerebbero i principi e criteri direttivi di cui alla lettera
a) del comma 3 dell’art. 60 della legge n. 69 del 2009, secondo cui il Governo
nell’esercizio della delega doveva prevedere «che la mediazione, finalizzata
alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti disponibili,
senza precludere l’accesso alla giustizia».
16.— Con atto
depositato in data 21 febbraio 2012, è intervenuto in giudizio il Presidente del
Consiglio dei ministri, il quale ha formulato argomentazioni identiche a quelle
esposte nei precedenti atti di intervento.
17.— Il Giudice
di pace di Salerno, con ordinanza del 19 novembre 2011 (r.o. n. 51 del 2012),
ha sollevato, in riferimento agli articoli 24, 70, 76 e 77 Cost., questione di
legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella parte
in cui prevede che l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di
procedibilità della domanda giudiziale.
Il rimettente riferisce
che, con atto del 7 novembre 2011, l’attrice ha citato in giudizio una società
di assicurazioni, al fine di ottenere il risarcimento delle lesioni subite ed
il rimborso delle spese mediche sostenute a seguito di un sinistro stradale,
verificatosi il 17 gennaio 2011. In particolare, l’attrice ha affermato di aver
stipulato con la convenuta una polizza infortuni avente ad oggetto la copertura
di eventuali danni subiti dal conducente a seguito di sinistro stradale e ha
concluso per la condanna della detta compagnia di assicurazioni al pagamento
delle somme quantificate nell’atto introduttivo del giudizio. La convenuta si è
costituita in giudizio ed ha eccepito l’improponibilità della domanda per
violazione delle disposizioni di cui all’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010,
assumendo che non era stato esperito il tentativo obbligatorio di
conciliazione.
Ciò premesso, il
rimettente ritiene che «una condizione di procedibilità di una domanda
giudiziaria, ex art. 24 Cost., può essere introdotta in maniera esclusiva dal
legislatore e non da un organo governativo che avrebbe potuto farlo soltanto se
ne fosse stato autorizzato dalla legge di delega».
Secondo il
giudice a quo l’eccesso si configurerebbe «là dove non è stata recepita la
parte in cui [la legge delega] escludeva che il procedimento potesse costituire
condizione di procedibilità della domanda ovvero fosse in grado di precludere,
per tutta la sua durata, l’accesso alla giustizia ordinaria», ciò in quanto
«unico intento» della legge di delega era quello di creare un «organismo
deflattivo per la giustizia e non certamente di favorire la creazione di un elemento
ostativo al suo accesso».
Il rimettente
osserva, ancora, che «tutto quanto previsto dal decreto in più rispetto al
portato della legge delega potrebbe aprire ad una gestione della giustizia ad
opera dei privati, come tali non legittimati dalla Costituzione a svolgere
detta alta funzione e soprattutto non dotati del rigoroso tecnicismo
richiesto».
Al riguardo, è
richiamato l’orientamento della giurisprudenza costituzionale secondo cui il
sistema di giustizia «condizionata» è ammissibile solo nel caso in cui
l’eccezione al principio «dell’accesso immediato alla giurisdizione» si
presenti come ragionevole e risponda ad un interesse generale, purché non
vengano imposti oneri tali da rendere impossibile o eccessivamente difficile
far valere le proprie ragioni; oneri che, ad avviso del rimettente, sarebbero
anche quelli di carattere economico.
L’art. 5 del
d.lgs. n. 28 del 2010, pertanto, si porrebbe in contrasto con l’art. 24 Cost.
in quanto «ha reso la mediazione una condizione di procedibilità della domanda
giudiziaria, negando per tutto il tempo della sua durata l’accesso alla
giustizia e soprattutto non prevedendo alcun mezzo per i meno abbienti per
attivare il procedimento della media conciliazione»; inoltre, «in caso di
fallimento del procedimento di media-conciliazione le spese sostenute per adire
l’organismo definito deflattivo non potranno essere ripetute e rimarranno
esclusivamente a carico delle parti, con evidenti conseguenze economiche
afflittive per le classi sociali meno agiate».
18.— Il Giudice
di pace di Catanzaro, con ordinanza del 3 novembre 2011 (r.o. n. 19 del 2012),
ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 77 Cost., questione di
legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 16
del d.m. n. 180 del 2010.
In punto di
fatto, il rimettente riferisce che la materia oggetto della domanda concerne
una richiesta di indennizzo derivante da contratto assicurativo e che,
pertanto, rientra nelle ipotesi in cui l’esperimento della mediazione è
condizione di procedibilità.
Ciò posto, il
giudicante ritiene che l’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nel prevedere che
l’esperimento del procedimento di mediazione sia condizione di procedibilità
della domanda giudiziale, si ponga in contrasto con gli artt. 24 e 77 Cost. in
quanto, mentre l’art. 60 della legge n. 69 del 2009, al comma 3, lettera a),
prescrive che nell’esercizio della delega il Governo si attenga, tra gli altri,
al seguente criterio e principio direttivo «[…] a) prevedere che la mediazione,
finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto controversie su diritti
disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia», l’art. 5 del d.lgs.
citato concepisce il procedimento di mediazione quale momento propedeutico alla
domanda giudiziale, «rischiando di compromettere l’effettività della stessa
tutela giudiziale e condizionando in concreto il diritto di azione».
Il giudice a quo
ritiene, altresì, che l’art. 16 del d.m. n. 180 del 2010, nel prevedere che il
tentativo di conciliazione abbia un costo non meramente simbolico, sia in
contrasto con l’art. 24 Cost., in quanto subordina l’esercizio della funzione
giurisdizionale al pagamento di una somma di denaro, così contravvenendo a
quanto affermato dalla sentenza n. 67 del 2 novembre 1960 di questa Corte,
secondo cui lo Stato non può pretendere somme di denaro per la funzione
giurisdizionale civile, se non nel caso di tributi giudiziari o cauzioni.
Detta
disposizione, prevedendo, inoltre, che l’esborso di denaro non è destinato allo
Stato, ma ad un organismo anche di natura privata, contrasterebbe con il
principio fissato nelle sentenze n. 522 del 2002 e n. 333 del 2001 della Corte
costituzionale, secondo cui l’esborso deve essere «razionalmente collegato alla
pretesa dedotta in giudizio, allo scopo di assicurare al processo uno
svolgimento meglio conforme alla sua funzione».
Sussisterebbe
anche il contrasto con l’art. 3 Cost. in quanto, prevedendo espressamente che
la parte convenuta possa non aderire al procedimento e non anche la parte
attrice, si introdurrebbe una disparità di trattamento.
19.— Con atto
depositato in data 13 marzo 2012, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale
ha formulato argomentazioni identiche a quelle esposte nell’atto di intervento
nel giudizio di legittimità costituzionale originato dall’ordinanza del Giudice
di pace di Catanzaro n. 2 del 2012, ed ha chiesto che la questione sia
dichiarata non fondata.
20.— Il
Tribunale di Torino, con ordinanza del 24 gennaio 2012 (r.o. n. 99 del 2012),
ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt.
3, 24, 76, 77, 101 e 102 Cost., dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella
parte in cui prevede che chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa
alle materie ivi indicate «è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento
di mediazione ai sensi del presente decreto», anziché «può esperire il
procedimento di mediazione ai sensi del presente decreto»; inoltre, nella parte
in cui prevede che «l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione
di procedibilità della domanda giudiziale», nonché nella parte in cui prevede
che «l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza,
o rilevata di ufficio dal giudice non oltre la prima udienza».
In punto di
fatto, il rimettente riferisce che, con atto di citazione dell’11 luglio 2011,
gli attori hanno citato in giudizio M.A. per ottenerne la condanna al pagamento
di una somma di denaro pari ad euro 7.304,47 quale corrispettivo di spese di
riscaldamento per gli anni 2005–2010 e «di risarcimento dei danni conseguenti
ad un contratto di locazione» intrattenuto tra la loro dante causa con la
convenuta, relativo ad un immobile situato in Torino.
La convenuta,
costituitasi in giudizio, ha eccepito l’improcedibilità della domanda
giudiziale ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, perché vertente in
materia di locazione.
Ciò posto, il
rimettente ritiene di dover sollevare, di ufficio, la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010.
In primo luogo,
egli assume che detta disposizione si porrebbe in contrasto con gli articoli 76
e 77 Cost. Al riguardo osserva che l’art. 60 della legge n. 69 del 2009, in
conformità a quanto prescritto dalla direttiva europea, aveva stabilito che
dovesse essere introdotto un meccanismo di conciliazione, ma non ne aveva
previsto la obbligatorietà, né aveva consentito che essa potesse essere
considerata come condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
L’art. 60 della
legge delega, al comma 3, lettera a), prescrive che nell’esercizio della delega
il Governo debba attenersi, tra gli altri, al principio consistente «nel
prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto
controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla
giustizia».
Secondo il
rimettente, quindi, «il procedimento di media conciliazione è paragonabile ad
un arbitrato irrituale imposto per legge in una ampia serie di materie
giuridiche, tra cui questa della locazione, che va ad influenzare sia nei
tempi, sia nella sostanza il processo che per dettato costituzionale dovrebbe
essere tenuto dai giudici ordinari».
Si sarebbe
perciò in presenza di uno straripamento dei poteri del legislatore delegato,
che avrebbe imposto ai giudici, con grave spesa per i cittadini, almeno tre
intralci alla funzione giurisdizionale, cioè quello di sospendere o comunque
rinviare i processi in attesa dell’esito della media-conciliazione, che
potrebbe pure non essere più attivata, denegando così giustizia ai cittadini
stessi; quello derivante dall’art. 8, comma 5, del d.lgs. n. 28 del 2010, che
prescrive al giudice di tener conto, ai sensi dell’art. 116 cod. proc. civ.,
come argomento di prova negativa, del contegno di chi non si presenta davanti
al mediatore per partecipare alla conciliazione; e, ancora, quello derivante
dall’art. 13 del decreto delegato che impone al giudice di tener conto della
proposta formulata dal mediatore, quando deve procedere alla liquidazione delle
spese giudiziali ai sensi degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ.
Secondo il
rimettente la disposizione censurata si porrebbe in contrasto anche con gli
artt. 3, 101 e 102 Cost., in quanto il ricorso al procedimento obbligatorio di
media-conciliazione graverebbe, con i detti «irragionevoli intralci», sul
potere-dovere del giudice, soggetto solo alla legge, di conduzione e di
decisione della causa, e porrebbe «gli utenti della giustizia su un piano di
diversità perché la scelta delle materie, in cui è obbligatoria la media-conciliazione,
appare del tutto irragionevole rispetto agli interessi meritevoli della tutela
giurisdizionale».
Sussisterebbe,
altresì, la violazione degli artt. 3 e 24 Cost., in quanto la mediazione
avrebbe un costo destinato a ricadere sul cittadino il quale deve adire il
giudice statuale, peso che nella maggior parte dei casi si rivelerebbe inutile.
Il giudicante
osserva, altresì, che la disciplina della mediazione non prevede criteri di
competenza territoriale, con la conseguenza che il chiamato potrebbe essere
posto nella irragionevole svantaggiosa posizione di andare a difendersi anche
in luoghi molto distanti dalla sua residenza; e l’eventuale «contumacia» del
chiamato davanti al mediatore potrebbe essere valutata negativamente dal
giudice.
21.— Con atto
depositato in data 19 giugno 2012, è intervenuto in giudizio il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, il quale ha svolto argomentazioni identiche a quelle esposte in
relazione all’intervento nel giudizio originato dall’ordinanza r.o. n. 33 del
2012.
22.— In
prossimità dell’udienza e della camera di consiglio, l’OUA, il Consiglio
dell’Ordine degli Avvocati di Napoli, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati
di Torre Annunziata, l’Unione regionale dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati
della Campania, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lagonegro, il
Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Larino, il Consiglio dell’Ordine degli
Avvocati di Campobasso, l’AIAF, l’Organismo di mediazione ADR Center s.p.a.,
l’Unione Nazionale delle Camere Civili, hanno depositato memorie con le quali
ribadiscono e sviluppano le argomentazioni già svolte nell’atto di
costituzione.
Considerato in
diritto
1.— Il Tribunale
amministrativo regionale per il Lazio (d’ora in avanti, TAR), con l’ordinanza
del 12 aprile 2011 (r.o. n. 268 del 2011), dubita – in riferimento agli
articoli 24 e 77 della Costituzione – della legittimità costituzionale
dell’articolo 5 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione dell’articolo
60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla
conciliazione delle controversie civili e commerciali). In particolare, il TAR
censura il comma 1, primo periodo (che introduce, a carico di chi intende
esercitare in giudizio un’azione relativa alle controversie nelle materie
espressamente elencate, l’obbligo del previo esperimento del procedimento di
mediazione), secondo periodo (il quale prevede che l’esperimento della
mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale) e terzo
periodo (alla stregua del quale l’improcedibilità deve essere eccepita dal
convenuto o rilevata d’ufficio dal giudice); inoltre il TAR dubita, in
riferimento ai medesimi artt. 24 e 77 Cost., della legittimità costituzionale dell’art.
16 del citato d.lgs. n. 28 del 2010, «laddove dispone che abilitati a
costituire organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il
procedimento di mediazione sono gli enti pubblici e privati, che diano garanzie
di serietà ed efficienza».
1.1.— Il TAR
premette di essere chiamato a pronunziare in due procedimenti, relativi a
ricorsi recanti i numeri 10937 e 11235 del 2010, poi riuniti, promossi entrambi
nei confronti del Ministro della giustizia e del Ministro dello sviluppo
economico, il primo da numerosi soggetti, indicati in epigrafe e in narrativa,
il secondo dall’Unione Nazionale delle Camere Civili (UNCC), con l’intervento,
ad adiuvandum e ad opponendum, di altri soggetti, del pari indicati in epigrafe
e in narrativa.
Oggetto dei
ricorsi è la domanda di annullamento del decreto adottato dal Ministro della
giustizia, di concerto col Ministro dello sviluppo economico, in data 18
ottobre 2010, n. 180, con richiesta di ritenere non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 16 del d.lgs. n. 28 del
2010, in riferimento agli artt. 24, 76 e 77 Cost. I ricorrenti affermano che il
menzionato d.m. non soltanto sarebbe lesivo degli interessi della categoria
forense, ma sarebbe anche illegittimo perché in contrasto col suddetto d.lgs. e
con la relativa legge delega e affetto da eccesso di potere sotto vari profili.
Ciò posto, il
rimettente si sofferma sul quadro normativo rilevante e sui motivi dei ricorsi,
con particolare riguardo alle ragioni attinenti alle sollevate questioni di
legittimità costituzionale.
Dopo avere
argomentato sulla rilevanza di tali questioni, il rimettente ritiene che le
prime tre disposizioni dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 si porrebbero in
contrasto con l’art. 77 Cost., perché non potrebbero essere ascritte all’art.
60 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico,
la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), non
essendo rilevabile alcun elemento da cui desumere che la regolazione della
materia contenuta nella normativa censurata sia conforme ai precetti della
detta legge delega.
Infatti: 1)
nessuno dei criteri e principi direttivi previsti rivelerebbe in modo espresso
la finalità di perseguire un intento deflattivo del contenzioso
giurisdizionale; 2) nessuno dei criteri o principi configurerebbe l’istituto
della mediazione come fase pre-processuale obbligatoria; 3) avuto riguardo al
silenzio serbato dal legislatore delegante sullo specifico tema, sarebbe stato
almeno necessario che il citato art. 60 lasciasse trasparire sul punto elementi
univoci e concludenti, ma ciò non sarebbe avvenuto; 4) si dovrebbe escludere
che la norma ora menzionata, con il richiamo alla normativa comunitaria, possa
essere intesa come delega al Governo a compiere qualsiasi scelta occasionata
dalla direttiva 21 maggio 2008, n. 2008/52/CE (Direttiva del Parlamento europeo
e del Consiglio relativa a determinati aspetti della mediazione in materia
civile e commerciale); 5) inoltre, tale direttiva lascerebbe «impregiudicata la
legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure
soggetto a incentivi o sanzioni, sia prima che dopo il procedimento
giudiziario»; 6) nessun elemento decisivo potrebbe trarsi dal principio
previsto dall’art. 60, comma 3, lettera a), della legge-delega, nella parte in
cui dispone che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per
oggetto controversie su diritti disponibili, «senza precludere l’accesso alla
giustizia», perché il legislatore, utilizzando tale espressione, avrebbe inteso
soltanto rispettare un principio assoluto dell’ordinamento nazionale (art. 24
Cost.) e di quello comunitario.
I criteri e
principi direttivi fissati dalla legge delega, dunque, sarebbero neutrali al
fine di verificare la rispondenza a tale legge dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del
2010. Invece, due dei criteri direttivi previsti dal legislatore delegante
deporrebbero a favore della previsione del carattere facoltativo che si sarebbe
inteso attribuire alla procedura di mediazione.
Il primo sarebbe
desumibile dall’art. 60, comma 3, lettera c), della legge delega, in forza del
quale la mediazione sarebbe disciplinata anche mediante estensione delle
disposizioni di cui al decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione
dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione
finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’art.
12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366). Orbene, la clausola di conciliazione
prevista dal d.lgs. n. 5 del 2003 (normativa ora abrogata proprio dal d.lgs. n.
28 del 2010) nasceva da norme di fonte volontaria e non obbligatoria.
Il secondo
andrebbe tratto dall’art. 60, comma 3, lettera n), della legge delega, che
prevede il dovere dell’avvocato di informare il cliente, prima
dell’instaurazione del giudizio, della possibilità di avvalersi dell’istituto
della conciliazione, nonché di ricorrere agli organismi di conciliazione. Il
rimettente rileva che la possibilità è, ovviamente, cosa diversa dalla
obbligatorietà; e, infatti, l’art. 4 del d.lgs. n. 28 del 2010 differenzierebbe
al comma 3 l’ipotesi in cui l’avvocato omette di informare il cliente della
«possibilità» di avvalersi della mediazione da quella in cui l’omissione
informativa concerne i casi nei quali l’espletamento del procedimento di
mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
Quanto all’art.
16 del d.lgs. n. 28 del 2010, esso avrebbe «conformato gli organismi di
conciliazione a parametri, o meglio a qualità, che attengono esclusivamente ed
essenzialmente all’aspetto della funzionalità generica, e che, per contro, sono
scevri da qualsiasi riferimento a canoni tipologici tecnici o professionali di
carattere qualificatorio ovvero strutturale».
2.— Il Giudice
di pace di Parma, con ordinanza depositata il 1° agosto 2011 (r.o. n. 254 del
2011), ha sollevato, in riferimento agli artt. 24 e 77 Cost., questioni di
legittimità costituzionale degli artt. 5, comma 1, primo, secondo e terzo
periodo, e 16, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010.
Il rimettente,
premesso di essere chiamato a giudicare in una causa civile avente ad oggetto
una domanda di pagamento in materia di locazione, rientrante nell’ambito
applicativo dell’art. 5 del d.lgs. ora citato, ritiene che le norme censurate siano
in contrasto: a) con l’art. 24 Cost., «in quanto realizzano un meccanismo di
determinante influenza di situazioni preliminari sulla tutela giudiziale dei
diritti, posto che l’art. 5 in discorso ha configurato, nelle materie previste,
l’attività degli organismi di conciliazione come imprescindibile e, per ciò
stesso, idonea a conformare definitivamente i diritti soggettivi coinvolti». In
particolare, l’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010 «ha delineato gli organismi di
conciliazione con riferimento a qualità nell’ottica della mera funzionalità
degli stessi, omettendo qualsiasi riferimento a criteri di qualificazione
tecnica o professionale»; sicché «in difetto di una adeguata definizione della
figura del mediatore, le norme in discorso potrebbero essere fonte di
pregiudizi a danno dei privati, i quali in sede giudiziale potrebbero usufruire
di elementi di valutazione diversi da quelli a loro offerti nella fase
preliminare del procedimento di mediazione»; b) con l’art. 77 Cost., posto che
«il legislatore delegante non ha formulato alcuna indicazione circa
l’obbligatorietà del previo esperimento del procedimento di mediazione»; ed
anzi, alla luce dei principi e criteri direttivi della legge delega, di cui
alle lettere c) ed n) del comma 3 dell’art. 60, si deve escludere che
l’obbligatorietà di detto procedimento possa rientrare nella discrezionalità
tipica della legislazione delegata «quale attività di attuazione e sviluppo
della delega, nella debita considerazione del contesto normativo comunitario di
riferimento».
3.— Il Giudice
di pace di Recco, con l’ordinanza depositata il 5 dicembre 2011 (r.o. n. 33 del
2012), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost. – questioni
di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art.
16 del d.m. n. 180 del 2010, «da soli o in combinato disposto».
Le suddette
disposizioni, ad avviso del rimettente, sarebbero in contrasto con: a) l’art.
24 Cost., in relazione ai tempi del processo, in quanto il termine di quattro
mesi «appare decisamente al di fuori della soglia di tollerabilità», ancor più
se si prendono in considerazione altri procedimenti concernenti tentativi
obbligatori di conciliazione, ma con termini di espletamento più brevi; b)
ancora con l’art. 24 Cost., in relazione alla disciplina dei costi della
mediazione, assumendo che «Tra l’esigenza di non rendere economicamente troppo
gravoso ai cittadini l’accesso alla tutela giurisdizionale e l’esigenza, pur
particolarmente avvertita, di individuare strumenti idonei a decongestionare
gli uffici giudiziari attraverso lo sfoltimento del carico di lavoro,
prevalenza debba avere la prima»; c) con l’art. 3 Cost., in quanto la
disciplina dei costi di mediazione introduce una disparità di trattamento tra i
meno abbienti e gli abbienti. Infatti, benché sia stato previsto il beneficio
del patrocinio a spese dello Stato, la citata disparità comunque resterebbe in
relazione ai soggetti che, pur non rientrando nel novero di coloro che possono
avvalersi del detto patrocinio, versano in condizioni economiche non agiate; d)
con l’art. 111 Cost., sotto il profilo della ragionevole durata del processo,
in quanto l’espletamento della mediazione allunga i tempi di esso in assenza di
una idonea giustificazione; e) ancora con l’art. 111 Cost., sempre sotto il
profilo della ragionevole durata del processo, in quanto l’espletamento
obbligatorio del tentativo di mediazione si deve effettuare non soltanto con
riguardo alla domanda principale, ma anche in relazione ad ogni singola azione
proposta nel corso del giudizio; f) di nuovo con l’art. 3 Cost., per
irragionevolezza correlata al carattere obbligatorio della mediazione avente ad
oggetto le controversie di competenza del Giudice di pace, in quanto nel
processo avanti al detto giudice il tentativo obbligatorio di conciliazione è
già previsto.
4.— Il Giudice
di pace di Catanzaro, con l’ordinanza depositata il 1° settembre 2011 (r.o. n.
2 del 2012), dubita – in riferimento agli artt. 24, 76 e 77 Cost. – della
legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella parte
in cui prevede che lo svolgimento della procedura di mediazione sia condizione
di procedibilità della domanda giudiziale in relazione alle controversie nelle
materie in esso indicate.
Il rimettente
riferisce di dover pronunziare in un giudizio promosso dall’attore per
accertare il suo diritto ad ottenere la restituzione di due libri dati in
comodato. La convenuta ha eccepito, in via preliminare, l’improcedibilità della
domanda per omesso espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione, ai
sensi del censurato art. 5.
Ad avviso del
giudicante, detta norma violerebbe: a) gli artt. 76 e 77 Cost., ponendosi in
contrasto con i principi e criteri direttivi di cui all’art. 60, comma 3,
lettera a), della legge n. 69 del 2009, secondo cui il Governo, nell’esercizio
della delega, doveva prevedere che la mediazione, finalizzata alla
conciliazione, avesse per oggetto controversie su diritti disponibili, senza
precludere l’accesso alla giustizia; b) l’art. 24 Cost. perché il tentativo
obbligatorio di conciliazione avrebbe un costo non meramente simbolico, sicché
l’esercizio della funzione giurisdizionale sarebbe subordinato al pagamento di
una somma di denaro.
Inoltre, il
giudice a quo censura, in riferimento all’art. 3 Cost., l’art. 16, comma 4, del
d.m. n. 180 del 2010, nella parte in cui consente «solo alla parte convenuta di
non aderire al procedimento, ma non anche alla parte attrice, che si vedrebbe,
comunque, obbligata al procedimento di mediazione per poter far valere in
giudizio un suo diritto». Al riguardo, il rimettente ritiene che detta
disposizione sia in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo del
principio di uguaglianza, perché «pone su piani diversi, e tratta diversamente,
la parte attrice rispetto a quella convenuta».
5.— Il Tribunale
di Genova, con ordinanza depositata il 18 novembre 2011 (r.o. n. 108 del 2012),
ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. – questioni di
legittimità costituzionale: 1) dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella
parte in cui prevede l’esperimento del procedimento di mediazione quale
condizione di procedibilità della domanda giudiziale solo per le materie
espressamente elencate nel comma primo; 2) dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del
2010 e dell’art. 2653, primo comma, numero 1), del codice civile, nella parte
in cui non prevedono, per le domande dirette all’accertamento di diritti reali,
la possibilità di trascrivere la domanda di mediazione e direttamente il
verbale di mediazione, con efficacia prenotativa della prima anche rispetto al
provvedimento giurisdizionale conclusivo del giudizio; 3) dell’art. 5 del
d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 16 del d.m n. 180 del 2010, nella parte in
cui prevedono l’espletamento della procedura di mediazione quale condizione di
procedibilità della domanda giudiziale, stabilendone, altresì, il carattere
oneroso; 4) in riferimento al solo art. 3 Cost., del combinato disposto degli
artt. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e 16 del d.m. n. 180 del 2010, nella parte in
cui prevedono che solo il convenuto possa non aderire al procedimento di
mediazione.
Il rimettente,
quanto al punto sub 1), ritiene violati gli artt. 3 e 24 Cost., in quanto la
limitazione della procedura di mediazione solo ad alcune materie darebbe luogo
ad una differenza non giustificata da alcuna ragionevole scelta di politica
legislativa; in ordine al punto sub 2), i citati parametri costituzionali
sarebbero violati perché l’attore si vedrebbe costretto a presentare istanza di
mediazione (a pena d’improcedibilità), ad iniziare un giudizio trascrivendo la
relativa domanda, a prescindere dall’esito della mediazione stessa, a chiedere
in ogni caso una pronunzia giurisdizionale di merito, con la irragionevole
conseguenza che l’attore dovrebbe sopportare sia i costi della mediazione, sia
il pagamento del contributo unificato per l’instaurazione del giudizio, senza
potersi giovare dell’effetto deflattivo della procedura di mediazione. Quanto
al punto sub 3), le disposizioni in esso menzionate si porrebbero in contrasto
con gli artt. 3 e 24 Cost. perché l’accesso alla giurisdizione resterebbe
condizionato al pagamento di una somma di denaro; infine, in relazione al punto
4) le norme censurate si porrebbero in contrasto con l’art. 3 Cost., perché
esse darebbero luogo ad una disparità di trattamento tra attore e convenuto,
dal momento che per il primo non sarebbe prevista la possibilità di rinunziare
ad avvalersi del servizio, incorrendo sempre nel pagamento sia delle spese di
avvio sia di quelle di mediazione.
6.— Il Giudice
di pace di Catanzaro, con l’ordinanza depositata il 3 novembre 2011 (r.o. n. 19
del 2012), ha sollevato, in riferimento agli artt. 24 e 77 Cost., questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 16
del d.m. n. 180 del 2010.
Ad avviso del
rimettente, chiamato a decidere su una domanda diretta ad ottenere il pagamento
di un indennizzo derivante da contratto assicurativo, l’art. 5 del d.lgs. n. 28
del 2010, nel prevedere che l’espletamento della procedura di mediazione sia
condizione di procedibilità della domanda giudiziale, violerebbe l’art. 77
Cost. Infatti, sussisterebbe contrasto «tra la legge delega ed il decreto
legislativo 28/10, nella misura in cui, mentre l’art. 60 L. 69/09 (legge
delega) al terzo comma lett. a prescrive che nell’esercizio della delega il
Governo si attenga, tra gli altri, al seguente principio e criterio direttivo
“a) prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per
oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla
giustizia”, l’art. 5 d.lgs. n. 28/10 concepisce invece il procedimento di
mediazione quale momento propedeutico alla domanda giudiziale, rischiando di
compromettere l’effettività della stessa tutela giudiziale e condizionando in
concreto il diritto di azione».
Inoltre, l’art.
16 del d.m. n. 180 del 2010 si porrebbe in evidente contrasto con l’art. 24
Cost., perché, nel prevedere che il tentativo di conciliazione abbia un costo,
non meramente simbolico, subordinerebbe l’esercizio della funzione
giurisdizionale al pagamento di una somma di denaro, così discostandosi anche
dalla sentenza di questa Corte n. 67 del 1960.
Infine, sarebbe
ravvisabile anche violazione dell’art. 3 Cost., perché l’art. 16 ora citato,
concernente i criteri di determinazione delle indennità, prevedendo che
soltanto il convenuto, e non l’attore, possa non aderire alla procedura di
mediazione, introdurrebbe una disparità di trattamento.
7.— Il Giudice
di pace di Salerno, con l’ordinanza depositata il 19 dicembre 2011 (r.o. n. 51
del 2012), ha sollevato – in riferimento agli artt. 24, 70, 76 e 77 Cost. –
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010.
Il rimettente,
chiamato a pronunciarsi in un giudizio promosso contro una società di
assicurazioni al fine di ottenere un indennizzo per lesioni subite e per spese
mediche sostenute a seguito di un incidente stradale, ritiene che la norma
censurata, nella parte in cui prevede che l’esperimento della procedura di
mediazione costituisca condizione di procedibilità della domanda giudiziale, si
riveli in contrasto con gli artt. 70, 76 e 77 Cost., in quanto «analizzando il
rapporto tra legge delega e decreto legislativo n. 28/2010 emerge chiaramente
che l’art. 26 (recte: 76) attribuisce la delega al Governo “esclusivamente” per
recepire la disposizione prevista dall’art. 69/09 ed in particolare l’eccesso
si configura laddove non è stata recepita la parte in cui escludeva che il
procedimento potesse costituire condizione di procedibilità della domanda
ovvero fosse in grado di precludere, per tutta la sua durata, l’accesso alla
giustizia ordinaria». Ciò perché unico intento della legge delega sarebbe stato
quello di creare esclusivamente «un organismo deflattivo per la giustizia e non
certamente di favorire la creazione di un elemento ostativo al suo accesso».
Inoltre, sarebbe
violato l’art. 24 Cost. perché la norma denunziata avrebbe reso «la mediazione
una condizione di procedibilità della domanda giudiziaria, negando per tutto il
tempo della sua durata l’accesso alla giustizia e soprattutto non prevedendo
alcun mezzo per i meno abbienti per attivare il procedimento della media
conciliazione». Inoltre, «in caso di fallimento del procedimento di media
conciliazione le spese sostenute per adire l’organismo definito deflattivo non
potranno essere ripetute e rimarranno esclusivamente a carico delle parti, con
evidenti conseguenze economiche afflittive per le classi sociali meno agiate».
A sostegno della
tesi propugnata, il giudice a quo richiama il principio affermato da questa
Corte, secondo il quale «un sistema di giustizia “condizionata” è ammissibile
solo nel caso in cui l’eccezione al principio dell’accesso immediato alla
giurisdizione si presenti come ragionevole e risponda ad un interesse generale,
purché non vengano imposti oneri tali da rendere impossibile o eccessivamente
difficile far valere le proprie ragioni».
8.— Il Tribunale
di Torino, in composizione monocratica, con l’ordinanza depositata il 24
gennaio 2012 (r.o. n. 99 del 2012), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3,
24, 76, 77, 101 e 102 Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art.
5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella parte in cui prevede che chi intende
esercitare in giudizio un’azione relativa alle materie ivi indicate «è tenuto
preliminarmente ad esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente
decreto», anziché «può esperire il procedimento di mediazione ai sensi del
presente decreto»; inoltre, nella parte in cui prevede che «l’esperimento del
procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda
giudiziale», nonché nella parte in cui prevede che «l’improcedibilità deve
essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal
giudice, non oltre la prima udienza».
Il rimettente
riferisce di essere investito di un giudizio di pagamento di somme relative ad
un contratto di locazione. In prima udienza la convenuta ha eccepito
l’improcedibilità della domanda, non essendo stata attivata la procedura di
mediazione.
Ciò posto, il
giudice a quo ritiene che la norma censurata si porrebbe in contrasto con gli
artt. 76 e 77 Cost., in quanto, configurando il procedimento di mediazione come
obbligatorio e condizione di procedibilità della domanda, violerebbe il
principio e criterio direttivo di cui all’art. 60, comma 3, lettera a), della
legge n. 69 del 2009, secondo cui il Governo, nell’esercizio della delega, deve
prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto
controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia.
Il procedimento di media-conciliazione sarebbe «paragonabile ad un arbitrato
irrituale imposto per legge in un’ampia serie di materie giuridiche», tra cui
la locazione, procedimento che «va ad influenzare sia nei tempi sia nella
sostanza il processo che per dettato costituzionale dovrebbe essere tenuto dai
giudici ordinari».
Ad avviso del
rimettente, sarebbero poi violati gli artt. 101 e 102 Cost., perché «lo
straripamento dei poteri del legislatore delegato» avrebbe imposto ai giudici,
nel corso dei processi, almeno tre intralci alla funzione giurisdizionale: 1)
quello derivante dall’imporre al giudice di sospendere o comunque rinviare i
processi in attesa dell’esito della media-conciliazione, che potrebbe pure non
essere più attivata, così denegando giustizia ai cittadini; 2) quello derivante
dall’art. 8, comma 5, del d.lgs. n. 28 del 2010, che prescrive al giudice di
tener conto, ai sensi dell’art. 116 del codice di procedura civile, come
argomento di prova negativa, del comportamento di chi non si presenta davanti
al mediatore per partecipare alla conciliazione; 3) quello derivante dall’art.
13 del decreto delegato, che impone al giudice di tenere conto della proposta
formulata dal mediatore, quando deve procedere alla liquidazione delle spese
processuali, ai sensi degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ.
Ancora,
sarebbero violati gli artt. 3 e 24 Cost., perché la scelta delle materie, nelle
quali la mediazione è obbligatoria, apparirebbe del tutto irragionevole rispetto
agli interessi meritevoli della tutela giurisdizionale, in quanto –
introducendo un costo a carico dei cittadini ed a favore degli uffici privati
della media-conciliazione – si porrebbe in contrasto con i principi dettati da
questa Corte nella sentenza n. 67 del 1960; non prevedendo criteri di
competenza territoriale, porrebbe il privato nella irragionevole posizione di
doversi difendere anche in luoghi molto distanti dalla sua residenza, scelti
dall’attore; l’eventuale «contumacia» del chiamato davanti al mediatore
potrebbe essere valutata negativamente dal giudice.
9.— Le otto
ordinanze di rimessione, qui riassunte, pongono questioni identiche, o tra loro
strettamente connesse, in relazione alla normativa censurata. Pertanto, i
relativi giudizi devono essere riuniti, per essere definiti con unica sentenza.
10.— In via
preliminare deve essere confermata l’ordinanza, adottata nel corso dell’udienza
pubblica ed allegata alla presente sentenza, con la quale sono stati dichiarati
inammissibili gli interventi spiegati nel giudizio di cui all’ordinanza n. 268
del 2011 dai seguenti soggetti: il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di
Milano; la Società Italiana Conciliazione Mediazione ed Arbitrato (SIC & A)
s.r.l.; l’Associazione Nazionale Mediatori e Conciliatori; l’Unioncamere –
Unione Italiana delle Camere di commercio, industria, artigianato e
agricoltura; la Camera di commercio di Cagliari; la Camera di commercio di
Firenze; la Camera di commercio di Milano; la Camera di commercio di Palermo;
la Camera di commercio di Potenza; la Camera di commercio di Roma; la Camera di
commercio di Torino; la Camera di commercio di Venezia; Assomediazione –
Associazione italiana organismi privati di mediazione e di formazione per la
mediazione; nonché l’intervento spiegato dal Consiglio Nazionale Forense nel
giudizio di legittimità costituzionale introdotto con ordinanza del Tribunale
di Genova r.o. n. 108 del 2012.
Invero, i
soggetti e gli enti sopra indicati non sono stati parti nei giudizi a quibus.
Per
giurisprudenza di questa Corte, ormai costante, sono ammessi a intervenire nel
giudizio incidentale di legittimità costituzionale (oltre al Presidente del
Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della
Giunta regionale) le sole parti del giudizio principale, mentre l’intervento di
soggetti estranei a questo è ammissibile soltanto per i terzi titolari di un
interesse qualificato, inerente in modo diretto ed immediato al rapporto
sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni
altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (ex plurimis: ordinanza
letta all’udienza del 23 marzo 2010, confermata con sentenza n. 138 del 2010;
ordinanza letta all’udienza del 31 marzo 2009, confermata con sentenza n. 151
del 2009; sentenze n. 94 del 2009, n. 96 del 2008 e n. 245 del 2007).
Orbene, nei
giudizi da cui traggono origine le questioni di legittimità costituzionale in
discussione, i rapporti sostanziali dedotti in causa concernono profili
attinenti alla mediazione nel processo civile, che possono anche riguardare
interessi professionali della classe forense o delle Camere di commercio, ma
concernono più in generale le posizioni che le parti intendono azionare nel
processo e non mettono in gioco le prerogative del Consiglio Nazionale Forense,
dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati o delle dette Camere di commercio,
nonché, a maggior ragione, degli altri soggetti sopra indicati.
Sotto altro
profilo, l’ammissibilità d’interventi ad opera di terzi, titolari di interessi
soltanto analoghi a quelli dedotti nel giudizio principale, contrasterebbe con
il carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale, in quanto
l’accesso delle parti al detto giudizio avverrebbe senza la previa verifica
della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione da parte del
giudice a quo.
Considerazioni
identiche valgono in ordine alla posizione di ADR Accorditalia s.r.l. Tale
società ha spiegato intervento ad opponendum nel giudizio incidentale di
legittimità costituzionale, relativo alla questione sollevata dal Giudice di
pace di Salerno (r.o. n. 51 del 2012), pur non rivestendo la qualità di parte
nel giudizio a quo.
Ne deriva la
declaratoria d’inammissibilità dei suddetti interventi.
11.— La
questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Giudice di pace di
Recco, deve essere dichiarata inammissibile.
Infatti, il
rimettente omette qualsiasi descrizione della fattispecie sottoposta al suo
esame, limitandosi a rilevare che si tratta di controversia «non priva di
interesse e nemmeno di agevole soluzione, che tuttavia, essendo matura per la
decisione in quanto basata esclusivamente su risultanze documentali, sarebbe
stata decisa in quindici giorni». In particolare, il giudice a quo trascura di
fornire elementi idonei a stabilire se la vertenza, nella quale è chiamato a
pronunciare, rientri o meno nel catalogo delle cause per le quali l’art. 5,
comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010 impone il preliminare esperimento del
procedimento di mediazione, così precludendo alla Corte il necessario controllo
in punto di rilevanza.
Né la rilevata
omissione potrebbe essere sanata con l’esame del fascicolo relativo al giudizio
di merito, perché ciò si tradurrebbe in violazione del principio di
autosufficienza dell’ordinanza di rimessione.
12.— Devono
essere esaminate con priorità, per ragioni di ordine logico, le questioni di
legittimità costituzionale sollevate, in riferimento agli articoli 76 e 77
Cost., nei confronti dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010, con
particolare riguardo al carattere obbligatorio che detta norma, in asserita
violazione della legge delega, attribuisce al preliminare esperimento della
procedura di mediazione.
Al riguardo, è
il caso di osservare che l’ordinanza di rimessione del TAR menziona
esplicitamente tra i parametri costituzionali, oltre all’art. 24, soltanto
l’art. 77 Cost. Tuttavia, poiché dalla motivazione della detta ordinanza si
desume con chiarezza il richiamo anche alla violazione dell’art. 76 Cost., lo
scrutinio di legittimità costituzionale va condotto pure in riferimento
all’eccesso di delega, peraltro evocato da altre ordinanze di rimessione.
Il citato art.
5, comma 1, sotto la rubrica «Condizione di procedibilità e rapporti con il
processo», così dispone: «1. Chi intende esercitare in giudizio un’azione
relativa ad una controversia in materia di condominio, diritti reali,
divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato,
affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di
veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo
della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e
finanziari, è tenuto preliminarmente ad esperire il procedimento di mediazione
ai sensi del presente decreto ovvero il procedimento di conciliazione previsto
dal decreto legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, ovvero il procedimento
istituito in attuazione dell’articolo 128-bis del testo unico delle leggi in
materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993,
n. 385, e successive modificazioni, per le materie ivi regolate. L’esperimento
del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda
giudiziale. L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di
decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il
giudice, ove rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa,
fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6.
Allo stesso modo provvede quando la mediazione non è stata esperita, assegnando
contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione
della domanda di mediazione. Il presente comma non si applica alle azioni
previste dagli articoli 37, 140 e 140-bis del codice del consumo di cui al
decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni».
In forza di tale
norma, la parte che intende agire in giudizio per una delle azioni
specificamente indicate, è tenuta, in via preliminare, ad esperire la procedura
di conciliazione, disciplinata come condizione di procedibilità della domanda
giudiziale. Il carattere obbligatorio così attribuito a detta procedura è
censurato, per eccesso o difetto di delega, da quasi tutte le ordinanze di
rimessione sopra riassunte; e tali censure sono fondate.
12.1.— Si deve
premettere che, come questa Corte ha più volte affermato, «Il controllo della
conformità della norma delegata alla norma delegante richiede un confronto tra
gli esiti di due processi ermeneutici paralleli, l’uno relativo alla norma che
determina l’oggetto, i principi e i criteri direttivi della delega; l’altro
relativo alla norma delegata da interpretare nel significato compatibile con
questi ultimi. Il contenuto della delega deve essere identificato tenendo conto
del complessivo contesto normativo nel quale si inseriscono la legge delega e i
relativi principi e criteri direttivi, nonché delle finalità che la ispirano,
che costituiscono non solo base e limite delle norme delegate, ma anche
strumenti per l’interpretazione della loro portata. La delega legislativa non
esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato, che può essere più o
meno ampia, in relazione al grado di specificità dei criteri fissati nella
legge delega: pertanto, per valutare se il legislatore abbia ecceduto tali
margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega, per
verificare se la norma delegata sia con questa coerente» (ex plurimis: sentenze
n. 230 del 2010, n. 98 del 2008, nn. 340 e 170 del 2007).
In particolare,
circa i requisiti che devono fungere da cerniera tra i due atti normativi, «i
principi e i criteri direttivi della legge di delegazione devono essere
interpretati sia tenendo conto delle finalità ispiratrici della delega, sia
verificando, nel silenzio del legislatore delegante sullo specifico tema, che
le scelte del legislatore delegato non siano in contrasto con gli indirizzi
generali della stessa legge delega» (sentenza n. 341 del 2007, ordinanza n. 228
del 2005).
Ciò posto, si
deve osservare che sia la legge delega (art. 60, comma 2 e comma 3, lettera c,
della legge n. 69 del 2009), sia il d.lgs. n. 28 del 2010 (preambolo) si
richiamano al rispetto e alla coerenza con la normativa dell’Unione europea. È
necessaria, dunque, una ricognizione, sia pure concisa, degli elementi
desumibili da tale normativa.
L’indagine deve
prendere le mosse dalla direttiva 2008/52/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio in data 21 maggio 2008, «relativa a determinati aspetti della
mediazione in materia civile e commerciale». Essa risponde alla necessità – già
posta in rilievo dal Consiglio europeo nella riunione di Tampere del 15 e 16
ottobre 1999, nelle conclusioni adottate dal detto Consiglio nel maggio 2000,
nonché dal libro verde presentato dalla Commissione nell’aprile 2002 – di
garantire un migliore accesso alla giustizia, invitando gli Stati membri ad
istituire procedure extragiudiziali ed alternative di risoluzione delle
controversie civili e commerciali.
La direttiva
muove dal presupposto che la mediazione «può fornire una risoluzione extragiudiziale
conveniente e rapida delle controversie in materia civile e commerciale
attraverso procedure concepite in base alle esigenze delle parti. Gli accordi
risultanti dalla mediazione hanno maggiori probabilità di essere rispettati
volontariamente e preservano più facilmente una relazione amichevole e
sostenibile tra le parti. Tali benefici diventano anche più evidenti nelle
situazioni che mostrano elementi di portata transfrontaliera» (direttiva
citata, sesto Considerando).
Il
quattordicesimo Considerando afferma che «La presente direttiva dovrebbe
inoltre fare salva la legislazione nazionale che rende il ricorso alla
mediazione obbligatorio oppure soggetto ad incentivi o sanzioni, purché tale
legislazione non impedisca alle parti di esercitare il loro diritto di accesso
al sistema giudiziario. Del pari, la presente direttiva non dovrebbe
pregiudicare gli attuali sistemi di mediazione autoregolatori nella misura in
cui essi trattano aspetti non coperti dalla presente direttiva». Il principio,
poi, è ripreso e precisato nell’art. 3, lettera a), della direttiva medesima
che, dopo avere definito la mediazione come «un procedimento strutturato,
indipendentemente dalla denominazione, dove due o più parti di una controversia
tentano esse stesse, su base volontaria, di raggiungere un accordo sulla
risoluzione della medesima con l’assistenza di un mediatore», in ordine alle
modalità stabilisce che «Tale procedimento può essere avviato dalle parti,
suggerito od ordinato da un organo giurisdizionale o prescritto dal diritto di
uno Stato membro».
Infine, l’art.
5, comma 2, dispone che «La presente direttiva lascia impregiudicata la
legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure
soggetto a incentivi o sanzioni, sia prima che dopo l’inizio del procedimento
giudiziario, purché tale legislazione non impedisca alle parti di esercitare il
diritto di accesso al sistema giudiziario».
Merita, poi, di
essere menzionata la Risoluzione del Parlamento europeo in data 25 ottobre 2011
(2011/2117-INI) sui metodi alternativi di soluzione delle controversie in
materia civile, commerciale e familiare, ancorché priva di efficacia
vincolante.
Essa considera,
tra l’altro, che una soluzione alternativa delle controversie (Alternative
Dispute Resolution – ADR), che consenta alle parti di evitare le tradizionali
procedure arbitrali, può costituire un’alternativa rapida ed economica ai
contenziosi; e, al paragrafo 10, afferma che «al fine di non pregiudicare
l’accesso alla giustizia, si oppone a qualsiasi imposizione generalizzata di un
sistema obbligatorio di ADR a livello di UE, ma ritiene che si potrebbe
valutare un meccanismo obbligatorio per la presentazione dei reclami delle
parti al fine di esaminare le possibilità di ADR». Al paragrafo 31, sesto capoverso,
aggiunge (tra l’altro) che l’ADR deve avere un carattere facoltativo, fondato
sul rispetto della libera scelta delle parti durante l’intero arco del
processo, che lasci loro la possibilità di risolvere in qualsiasi istante la
controversia dinanzi ad un tribunale, e che esso non deve essere in alcun caso
una prima tappa obbligatoria preliminare all’azione in giudizio.
Da ultimo, va
ricordata, nei limiti in precedenza esposti, la risoluzione del Parlamento
europeo del 13 settembre 2011 (2011/2026-INI), relativa all’attuazione della
direttiva sulla mediazione negli Stati membri, impatto della stessa sulla
mediazione e sua adozione da parte dei tribunali. Tale risoluzione, nel passare
in rassegna le modalità con cui alcuni degli Stati membri hanno attuato la
direttiva citata, osserva nel paragrafo 10 che «nel sistema giuridico italiano
la mediazione obbligatoria sembra raggiungere l’obiettivo di diminuire la
congestione nei tribunali; ciononostante sottolinea che la mediazione dovrebbe
essere promossa come una forma di giustizia alternativa praticabile, a basso
costo e più rapida, piuttosto che come un elemento obbligatorio della procedura
giudiziaria».
Per completare
il quadro, è da considerare, nei limiti di seguito precisati, la sentenza della
Corte di giustizia dell’Unione europea in data 18 marzo 2010, Sezione quarta,
pronunciata nelle cause riunite C-317/08, C-318/08, C-319/08, C-320/08.
Con tale
pronuncia la Corte ha affermato i seguenti principi: a) l’art. 34 della
direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 7 marzo 2002, n. 2002/22/CE,
relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e
di servizi di comunicazione elettronica (direttiva servizio universale) deve
essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa di uno Stato
membro in forza della quale le controversie in materia di servizi di
comunicazione elettronica tra utenti finali e fornitori di tali servizi, che
riguardano diritti conferiti da tale direttiva, devono formare oggetto di un
tentativo obbligatorio di conciliazione extragiudiziale come condizione per la
ricevibilità dei ricorsi giurisdizionali; b) neanche i principi di equivalenza
e di effettività, nonché il principio della tutela giurisdizionale effettiva,
ostano ad una normativa nazionale che impone per siffatte controversie il
previo esperimento di una procedura di conciliazione extragiudiziale, a condizione
che tale procedura non conduca ad una decisione vincolante per le parti, non
comporti un ritardo sostanziale per la proposizione di un ricorso
giurisdizionale, sospenda la prescrizione dei diritti in questione e non generi
costi, ovvero questi non siano ingenti per le parti, e purché la via
elettronica non costituisca l’unica modalità di accesso a detta procedura di
conciliazione e sia possibile disporre provvedimenti provvisori nei casi
eccezionali in cui l’urgenza della situazione lo imponga.
Nella motivazione
della pronuncia si legge (punto 65) che, da un lato, non esiste un’alternativa
meno vincolante alla predisposizione di una procedura obbligatoria, dato che
l’introduzione di una procedura di risoluzione extragiudiziale meramente
facoltativa non costituisce uno strumento altrettanto efficace per la
realizzazione di detti obiettivi; dall’altro, non sussiste una sproporzione
manifesta tra tali obiettivi e gli eventuali inconvenienti causati dal
carattere obbligatorio della procedura di conciliazione extragiudiziale.
12.2.— Come
emerge dalla ricognizione che precede, dai richiamati atti dell’Unione europea
non si desume alcuna esplicita o implicita opzione a favore del carattere
obbligatorio dell’istituto della mediazione. Fermo il favor dimostrato verso
detto istituto, in quanto ritenuto idoneo a fornire una risoluzione
extragiudiziale conveniente e rapida delle controversie in materia civile e
commerciale, il diritto dell’Unione disciplina le modalità con le quali il
procedimento può essere strutturato («può essere avviato dalle parti, suggerito
od ordinato da un organo giurisdizionale o prescritto dal diritto di uno Stato
membro», ai sensi dell’art. 3, lettera a, della direttiva 2008/52/CE del 21
maggio 2008), ma non impone e nemmeno consiglia l’adozione del modello
obbligatorio, limitandosi a stabilire che resta impregiudicata la legislazione
nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio (art. 5, comma 2,
della direttiva citata).
Allo stesso
principio, come risulta dal dispositivo, s’ispira la sentenza della Corte di
giustizia richiamata nel paragrafo che precede. Vero è che, in un passaggio
argomentativo (punto 65 della motivazione) la Corte considera inesistente una
alternativa meno vincolante alla predisposizione di una procedura obbligatoria,
perché l’introduzione di una procedura di risoluzione extragiudiziale meramente
facoltativa non costituirebbe uno strumento altrettanto efficace per la
realizzazione degli obiettivi perseguiti. Ma tale rilievo non può costituire un
precedente, sia perché si tratta di un obiter dictum, sia perché la sentenza
citata interviene su una procedura conciliativa concernente un tipo ben
circoscritto di controversie (quelle in materia di servizi di comunicazioni
elettroniche tra utenti finali e fornitori di tali servizi), là dove la
mediazione di cui qui si discute riguarda un rilevante numero di vertenze, che
rende non comparabili le due procedure anche per le differenze strutturali che
le caratterizzano.
Pertanto, la
disciplina dell’UE si rivela neutrale in ordine alla scelta del modello di
mediazione da adottare, la quale resta demandata ai singoli Stati membri,
purché sia garantito il diritto di adire i giudici competenti per la
definizione giudiziaria delle controversie.
Ne deriva che
l’opzione a favore del modello di mediazione obbligatoria, operata dalla
normativa censurata, non può trovare fondamento nella citata disciplina.
Infatti, una
volta raggiunta tale conclusione, si deve per conseguenza escludere che il
contenuto della legge delega, richiamando la direttiva comunitaria, possa
essere interpretato come scelta a favore del modello di mediazione
obbligatoria.
13.— Si deve ora
procedere all’interpretazione della legge delega (art. 60 della legge n. 69 del
2009), al fine di verificare il rispetto dei principi da essa posti in sede di
emanazione del d.lgs. n. 28 del 2010 e, in particolare, delle disposizioni
oggetto di censure.
Orbene, la detta
legge delega, tra i principi e criteri direttivi di cui all’art. 60, comma 3,
non esplicita in alcun modo la previsione del carattere obbligatorio della
mediazione finalizzata alla conciliazione. Sul punto l’art. 60 della legge n.
69 del 2009, che per altri aspetti dell’istituto si rivela abbastanza
dettagliato, risulta del tutto silente. Eppure, non si può certo ritenere che
l’omissione riguardi un aspetto secondario o marginale. Al contrario, la scelta
del modello di mediazione costituisce un profilo centrale nella disciplina
dell’istituto, come risulta sia dall’ampio dibattito dottrinale svoltosi in
proposito, sia dai lavori parlamentari durante i quali il tema
dell’obbligatorietà o meno della mediazione fu più volte discusso.
Non si potrebbe
ritenere che il carattere obbligatorio sia implicitamente desumibile dall’art.
60 citato, comma 3, lettera a). Tale disposizione, nel prevedere che la
mediazione abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, aggiunge la
frase «senza precludere l’accesso alla giustizia». Si tratta, però, di
un’affermazione di carattere generale, non a caso collocata in apertura dell’elenco
dei principi e criteri direttivi e non necessariamente collegabile alla scelta
di un determinato modello procedurale, tanto più che nella norma di delega non
mancano spunti ben più espliciti che orientano l’interprete in senso contrario
rispetto alla volontà del legislatore delegante di introdurre una procedura a
carattere obbligatorio.
In particolare:
l’art. 60, comma 3, lettera c), dispone che la mediazione sia disciplinata
«anche attraverso l’estensione delle disposizioni di cui al decreto legislativo
17 gennaio 2003, n. 5», recante la definizione dei procedimenti in materia di
diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria
e creditizia. Gli articoli da 38 a 40 di tale decreto (poi abrogati dall’art.
23, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010) prevedevano un procedimento di
conciliazione stragiudiziale nel quale il ricorso alla mediazione trovava la
propria fonte in un accordo tra le parti (contratto o statuto). Il modulo
richiamato dal legislatore delegante era, dunque, di fonte volontaria, il che
non si concilia (pur volendo considerare quel richiamo come non vincolante) con
un’opzione a favore della mediazione obbligatoria.
Ancora, merita
di essere menzionato il disposto dell’art. 60, comma 3, lettera n), della norma
di delega, alla stregua del quale nell’esercizio della delega stessa il Governo
doveva attenersi (tra gli altri) al principio di «prevedere il dovere
dell’avvocato di informare il cliente, prima dell’instaurazione del giudizio,
della possibilità di avvalersi dell’istituto della conciliazione nonché di
ricorrere agli organismi di conciliazione». Orbene, «possibilità» di avvalersi
significa, evidentemente, facoltà, e non obbligo, di avvalersi («è tenuto
preliminarmente»), cui invece fa riferimento l’art. 5, comma 1, del decreto
delegato. Il che si evince con chiarezza dall’art. 4, comma 3, di quest’ultimo.
La disposizione
così stabilisce: «All’atto del conferimento dell’incarico, l’avvocato è tenuto
ad informare l’assistito della possibilità di avvalersi del procedimento di
mediazione disciplinato dal presente decreto e delle agevolazioni fiscali di
cui agli articoli 17 e 20»; poi, così prosegue: «L’avvocato informa altresì
l’assistito dei casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è
condizione di procedibilità della domanda giudiziale». Com’è palese, si tratta
di due disposizioni distinte, la prima riferibile alla mediazione facoltativa,
la seconda alla mediazione obbligatoria e perciò costituente condizione di
procedibilità della domanda. Tuttavia, soltanto il primo modello trova la
necessaria copertura nella norma di delega. Il secondo compare nel decreto
delegato, ma è privo di ancoraggio nella norma suddetta.
Il denunciato
eccesso di delega, dunque, sussiste, in relazione al carattere obbligatorio
dell’istituto di conciliazione e alla conseguente strutturazione della relativa
procedura come condizione di procedibilità della domanda giudiziale nelle
controversie di cui all’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010.
Tale vizio non
potrebbe essere superato considerando la norma introdotta dal legislatore
delegato come un coerente sviluppo e completamento delle scelte espresse dal
delegante, perché – come sopra messo in rilievo – in realtà con il censurato
art. 5, comma 1, si è posto in essere un istituto (la mediazione obbligatoria
in relazione alle controversie nella norma stessa elencate) che non soltanto è
privo di riferimenti ai principi e criteri della delega ma, almeno in due
punti, contrasta con la concezione della mediazione come imposta dalla normativa
delegata.
Né giova il
richiamo alla sentenza di questa Corte n. 276 del 2000.
Invero, con
quella pronuncia fu dichiarata (tra l’altro) non fondata la questione di
legittimità costituzionale degli artt. 410, 410-bis e 412-bis cod. proc. civ.,
come modificati, aggiunti o sostituiti dagli artt. 36, 37 e 39 del decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di
organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di
giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa,
emanate in attuazione dell’art. 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59),
e dall’art. 19 del decreto legislativo 29 ottobre 1998, n. 387 (Ulteriori
disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 3 febbraio 1993,
n. 29, e successive modificazioni, e del decreto legislativo 31 marzo 1998, n.
80).
La Corte
pervenne a tale decisione escludendo (tra l’altro) che le norme censurate
fossero viziate da eccesso di delega. A tal fine, essa, prendendo le mosse dalla
complessa riforma che aveva realizzato il passaggio dalla giurisdizione
amministrativa a quella ordinaria delle controversie sul rapporto di impiego
«privatizzato» con le pubbliche amministrazioni, sottolineò che la messa a
punto di strumenti idonei ad agevolare la composizione stragiudiziale delle
controversie, per limitare il ricorso al giudice ordinario alle sole ipotesi di
inutile sperimentazione del tentativo di conciliazione, appariva un momento
essenziale per la riuscita della riforma. Pose l’accento sul criterio direttivo
di cui all’art. 11, comma 4, lettera g), della legge 15 marzo 1997, n. 59
(Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle Regioni ed
enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione
amministrativa), rimarcando che detta norma, nel devolvere al giudice ordinario
tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle
pubbliche amministrazioni, prevedeva l’introduzione di «misure organizzative e
processuali anche di carattere generale, atte a prevenire disfunzioni relative
al sovraccarico del contenzioso», nonché di «procedure stragiudiziali di
conciliazione e arbitrato». Dopo avere ricostruito l’oggetto della delega,
osservò che «la lettera della delega del 1997 – riferendosi a “procedure
stragiudiziali di conciliazione e arbitrato” – non menziona il predicato
dell’obbligatorietà. Ma è anche vero che, quando la delega venne conferita,
l’articolo 410 del codice di procedura civile, nel testo allora vigente, già contemplava
un tentativo facoltativo di conciliazione per le controversie ex art. 409,
mentre l’art. 69 del decreto legislativo n. 29 del 1993 prevedeva – come si è
detto – un tentativo obbligatorio di conciliazione per le controversie di
pubblico impiego privatizzato. In siffatto contesto deve escludersi che la
delega si limitasse ad attribuire al legislatore delegato il potere di regolare
diversamente le mere modalità organizzative del tentativo di conciliazione
esistente, senza consentire (per le controversie ex art. 409 del codice di
procedura civile) l’introduzione dell’obbligatorietà».
Come si vede, la
sentenza n. 276 del 2000, per giungere alla conclusione secondo cui
«L’introduzione del tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie
ex art. 409 del codice di procedura civile ha dunque rispettato la delega»
(punto 2.5. quarto capoverso, del Considerato in diritto), fece leva sia sul
contesto della riforma attuata, senza dubbio di ampio respiro ma circoscritta
alle controversie nel settore del diritto del lavoro, sia sulla presenza in
tale settore di un tentativo facoltativo di conciliazione per le controversie
ai sensi dell’art. 409 cod. proc. civ., e di un tentativo obbligatorio di
conciliazione per le controversie di pubblico impiego privatizzato. Pertanto la
previsione dell’obbligatorietà, nel quadro delle «misure organizzative e
processuali anche di carattere generale atte a prevenire disfunzioni dovute al
sovraccarico del contenzioso» (art. 11, comma 4, lettera g, della citata norma
di delega) non appariva come un novum avulso da questa, ma costituiva piuttosto
il coerente sviluppo di un principio già presente nello specifico settore.
La fattispecie
qui in esame è, invece, diversa: a parte la differenza di contesto, essa
delinea un istituto a carattere generale, destinato ad operare per un numero
consistente di controversie, in relazione alle quali, però, alla stregua delle
considerazioni sopra svolte, il carattere dell’obbligatorietà per la mediazione
non trova alcun ancoraggio nella legge delega.
Né varrebbe
addurre che l’ordinamento conosce varie procedure obbligatorie di
conciliazione, trattandosi di procedimenti specifici, per singoli settori, in
relazione ai quali nessun rapporto di derivazione è configurabile in
riferimento all’istituto in esame.
Infine, quanto
alla finalità ispiratrice del detto istituto, consistente nell’esigenza di
individuare misure alternative per la definizione delle controversie civili e
commerciali, anche al fine di ridurre il contenzioso gravante sui giudici professionali,
va rilevato che il carattere obbligatorio della mediazione non è intrinseco
alla sua ratio, come agevolmente si desume dalla previsione di altri moduli
procedimentali (facoltativi o disposti su invito del giudice), del pari
ritenuti idonei a perseguire effetti deflattivi e quindi volti a semplificare e
migliorare l’accesso alla giustizia.
In definitiva,
alla stregua delle considerazioni fin qui esposte, deve essere dichiarata
l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010,
per violazione degli artt. 76 e 77 Cost. La declaratoria deve essere estesa
all’intero comma 1, perché gli ultimi tre periodi sono strettamente collegati a
quelli precedenti (oggetto delle censure), sicché resterebbero privi di
significato a seguito della caducazione di questi.
Ai sensi
dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, e quindi in via consequenziale
alla decisione adottata, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale:
a) dell’art. 4, comma 3, del decreto legislativo n. 28 del 2010, limitatamente
al secondo periodo («L’avvocato informa altresì l’assistito dei casi in cui
l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità
della domanda giudiziale») e al sesto periodo, limitatamente alla frase «se non
provvede ai sensi dell’articolo 5, comma 1»; b) dell’art. 5, comma 2, primo
periodo, del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «Fermo quanto
previsto dal comma 1 e», c) dell’art. 5, comma 4, del detto decreto
legislativo, limitatamente alle parole «I commi 1 e» ; d) dell’art. 5, comma 5,
del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «Fermo quanto previsto
dal comma 1 e»; e) dell’art. 6, comma 2, del detto decreto legislativo,
limitatamente alla frase «e, anche nei casi in cui il giudice dispone il rinvio
della causa ai sensi del quarto o del quinto periodo del comma 1 dell’articolo
cinque,»; f) dell’art. 7 del detto decreto legislativo, limitatamente alla
frase «e il periodo del rinvio disposto dal giudice ai sensi dell’art. 5, comma
1»; g) dello stesso articolo 7 nella parte in cui usa il verbo «computano»,
anziché «computa»; h) dell’art. 8, comma 5, del detto decreto legislativo; i)
dell’art. 11, comma 1, del detto decreto legislativo, limitatamente al periodo
«Prima della formulazione della proposta, il mediatore informa le parti delle
possibili conseguenze di cui all’art. 13»; l) dell’intero art. 13 del detto
decreto legislativo, escluso il periodo «resta ferma l’applicabilità degli
articoli 92 e 96 del codice di procedura civile»; m) dell’art. 17, comma 4,
lettera d), del detto decreto legislativo; n) dell’art. 17, comma 5, del detto
decreto legislativo; o) dell’art. 24 del detto decreto legislativo.
14.— Ogni altro
profilo resta assorbito.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi;
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n.
28 (Attuazione dell’articolo 60
della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla
conciliazione delle controversie civili e commerciali);
2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11
marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale), l’illegittimità costituzionale: a) dell’art. 4, comma 3, del decreto legislativo n. 28 del 2010,
limitatamente al secondo periodo («L’avvocato informa altresì l’assistito dei
casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di
procedibilità della domanda giudiziale») e al sesto periodo, limitatamente alla
frase «se non provvede ai sensi dell’articolo 5, comma 1»; b) dell’art. 5,
comma 2, primo periodo, del detto decreto legislativo, limitatamente alle
parole «Fermo quanto previsto dal comma 1 e», c) dell’art. 5, comma 4, del
detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «I commi 1 e»; d)
dell’art. 5, comma 5 del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole
«Fermo quanto previsto dal comma 1 e»; e) dell’art. 6, comma 2, del detto
decreto legislativo, limitatamente alla frase «e, anche nei casi in cui il
giudice dispone il rinvio della causa ai sensi del quarto o del quinto periodo
del comma 1 dell’articolo cinque,»; f) dell’art. 7 del detto decreto
legislativo, limitatamente alla frase «e il periodo del rinvio disposto dal
giudice ai sensi dell’art. 5, comma 1»; g) dello stesso articolo 7 nella parte
in cui usa il verbo «computano» anziché «computa»; h) dell’art. 8, comma 5, del
detto decreto legislativo; i) dell’art. 11, comma 1, del detto decreto
legislativo, limitatamente al periodo «Prima della formulazione della proposta,
il mediatore informa le parti delle possibili conseguenze di cui all’art. 13»;
l) dell’intero art. 13 del detto decreto legislativo, escluso il periodo «resta
ferma l’applicabilità degli articoli 92 e 96 del codice di procedura civile»;
m) dell’art. 17, comma 4, lettera d), del detto decreto legislativo; n)
dell’art. 17, comma 5, del detto decreto legislativo; o), dell’art. 24 del
detto decreto legislativo;
3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 5 del decreto
legislativo n. 28 del 2010 e
dell’art. 16 del decreto ministeriale adottato dal Ministro della giustizia, di
concerto col Ministro dello sviluppo economico, in data 18 ottobre 2010, n.
180, come modificato dal decreto ministeriale 6 luglio 2011, n. 145
(Regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità di
iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco
dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione delle indennità
spettanti agli organismi, ai sensi dell’articolo 16 del decreto legislativo 4
marzo 2010, n. 28), «da soli ed anche in combinato disposto», sollevata dal
Giudice di pace di Recco, in riferimento agli articoli 3, 24 e 111 Cost., con l’ordinanza
indicata in epigrafe.
Così deciso in
Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24
ottobre 2012.
F.to:
Alfonso
QUARANTA, Presidente
Alessandro
CRISCUOLO, Redattore
Gabriella
MELATTI, Cancelliere
Depositata in
Cancelleria il 6 dicembre 2012.
Allegato:
ordinanza letta
all’udienza del 23 ottobre 2012