=> Corte di Cassazione, 25 marzo 2024, n. 7974
Alla luce della sentenza n. 10 del 2022 della Corte costituzionale va affermato il diritto del difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato alla percezione del proprio compenso anche nei casi di mediazione obbligatoria che non sia successivamente sfociata in una lite giudiziaria. Ne deriva che va cassata la decisione di merito che ha escluso, con riferimento ad un caso di mediazione obbligatoria sine iudicio conclusasi positivamente col raggiungimento dell’accordo conciliativo, la liquidazione del compenso all’avvocato di parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato (I) (II).
(I) Si veda il d.lgs. n. 28/2010 (come novellato dalla c.d. riforma Cartabia), in Osservatorio Mediazione Civile n. 28/2023.
(II) Si veda Corte Costituzionale, 20 gennaio 2022, n. 10, in Osservatorio Mediazione Civile n.1/2022.
Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 14/2024
(www.osservatoriomediazionecivile.blogspot.com)
Cote di cassazione
sezione II
ordinanza n. 7974
25 marzo 2024
Omissis
1. MM riceveva mandato di assistenza legale da --- nel procedimento di
mediazione obbligatoria n. 2300/2020 dinanzi all’Organismo di Conciliazione di
Firenze, promosso ai sensi dell’art. 5, co. I bis, d.lgs. 28/2010, nei
confronti di XX, avente ad oggetto la divisione giudiziale di un immobile
facente parte del compendio ereditario di XX, coniuge defunto dell’istante nonché
padre dei chiamati alla mediazione.
Con delibera n. 2520 del 2 dicembre 2020, il Consiglio dell’Ordine
degli Avvocati di Firenze ammetteva Hlukhenka Zhanna Panteleimonivna al
patrocinio a spese dello Stato. Incardinata la mediazione, all’esito di alcuni
incontri, le parti pervenivano ad un accordo col quale concludevano
positivamente la procedura, sottoscrivendo un verbale di conciliazione in data
28 maggio 2021.
L’avv. MM depositava, quindi, presso il Tribunale di Firenze istanza di
liquidazione del compenso maturato in relazione all’attività professionale
espletata, che veniva respinta con decreto n. 2592 del 15 ottobre 2021, in base
alla motivazione secondo cui alla corresponsione del compenso in favore del
predetto difensore osterebbe l’art. 75 d.P.R. 115/2002 (T.U. spese di
giustizia), il quale, facendo riferimento ad “ogni grado e fase del processo o
ad eventuali procedure che nel processo si innestino”, escluderebbe
l’applicazione della normativa sul patrocinio a spese dello Stato alle procedure
stragiudiziali che non sfociano in una lite giudiziaria, ovvero che, quando
questa è già pendente, non si inseriscono all’interno di essa, come è nel caso
della mediazione obbligatoria conclusasi con esito positivo. L’avv. MM
proponeva opposizione ex art. 702 bis cod. proc. civ. avverso il decreto di
rigetto, chiedendo la liquidazione, in proprio favore, di un compenso pari ad
euro 5.760,00 oltre spese generali ed accessori di legge.
Ai fini della riforma della decisione gravata richiamava un precedente
del medesimo Tribunale (ordinanza 31 maggio 2021, R.G. n. 8356/2020) che,
analogamente a quanto previsto dall’art. 10 d.lgs. 116/2005 per le controversie
transfontaliere, concludeva per l’estensione del patrocinio a spese dello Stato
ai procedimenti stragiudiziali obbligatori ex lege; ciò a prescindere dal
successivo svolgimento della fase giurisdizionale, che i procedimenti di
mediazione hanno proprio la finalità di evitare.
In prossimità della decisione, la ricorrente produceva in giudizio la
sentenza n. 10/2022 della Corte costituzionale, con cui ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale degli artt. 74, co. II e 75, co. I, d.P.R.
115/2002, nella parte in cui non prevedono che il patrocinio a spese dello
Stato sia applicabile anche all’attività difensiva svolta nell’ambito del
procedimento di mediazione disciplinato dall’art. 5, co. I bis, d.lgs. 28/2010,
quando nel corso dello stesso sia stato raggiunto un accordo per la
composizione bonaria della lite, nonché del successivo art. 83, co. II, ove non
prevede che alla liquidazione in favore del difensore provveda l’autorità
giudiziaria che sarebbe stata competente a decidere la controversia.
Il Tribunale di Firenze con ordinanza del 13 aprile 2022 rigettava
l’opposizione, ritenendo che la Corte costituzionale, pur avendo accolto la
questione di costituzionalità delle norme censurate, avesse tuttavia inteso
condividere un precedente in materia di questa Corte (cfr. Cass. Civ., sentenza
n. 18123/2020).
Nella decisione de qua, proprio perché chiamato a pronunciarsi prima
dell’intervento demolitorio della Consulta, questa Corte aveva statuito che il
limite posto dalle disposizioni di legge richiamate – che ad oggi non
consentirebbero la liquidazione dell’attività professionale svolta in sede di
mediazione, quando non abbia avuto luogo la lite giudiziale – non poteva essere
superato in via interpretativa, pena lo sconfinare della decisione nell’ambito
della vera e propria produzione normativa.
2. Per la cassazione di tale ordinanza ha proposto ricorso MM sulla
base di due motivi, illustrati da memorie. Il Ministero della Giustizia, a
favore del quale è stata rinnovata la notifica del ricorso ai sensi dell’art.
377, u.c., cod. proc. civ., si è costituito in giudizio ai soli fini della
eventuale discussione orale della causa.
L’altra intimata non ha svolto difese in questa fase.
3. Con il primo motivo viene dedotto, ex art. 360, co. I, n. 5, cod.
proc. civ, un vizio della motivazione dell’ordinanza impugnata per omesso esame
di un fatto decisivo per la controversia che è stato oggetto di discussione fra
le parti, rinvenuto nella sentenza n. 10/2022 della Corte costituzionale,
pubblicata il 20 gennaio 2022, quindi prima dell’emissione dell’ordinanza de
qua, avvenuta in data 13 aprile 2022.
Come già ricordato, con tale pronuncia è stata dichiarata
l’illegittimità costituzionale degli artt. 74, co. II, e 75, co. I, d.P.R.
115/2002, nella parte in cui escludono che il patrocinio a spese dello Stato
sia applicabile all’attività difensiva svolta nell’ambito dei procedimenti di
mediazione di cui all’art. 5, co. 1 bis, d.lgs. 28/2010, quando nel corso degli
stessi è stato raggiunto un accordo fra le parti, nonché dell’art. 83, co. II
del medesimo d.P.R. 115/2002, nella parte in cui non prevede che, in tali fattispecie,
alla liquidazione in favore del difensore provveda l’autorità giudiziaria che
sarebbe stata competente a decidere la controversia.
Dalla declaratoria di incostituzionalità delle disposizioni citate
discenderebbe, secondo la ricorrente, l’erroneità del rigetto del ricorso in
opposizione, ed in particolare la contraddittorietà ed illogicità della
motivazione posta a fondamento di esso, che invero valorizza a tal fine la
citata sentenza n. 18123/2020 di questa Suprema Corte – che adotta, come detto,
una soluzione sfavorevole alla ricorrente – nonostante sia cronologicamente
anteriore alla pronuncia di inconstituzionalità in parola e, quindi, da essa
superata. Invero, la sentenza della Consulta, pur demandando al legislatore una
compiuta e specifica disciplina della materia, afferma il diritto del difensore
della parte ammessa al gratuito patrocinio alla percezione del proprio compenso
anche nei casi di mediazione obbligatoria che non sia successivamente sfociata
in una lite giudiziaria. Rileva la ricorrente, dunque, come la pronuncia del
giudice delle leggi abbia travolto gli argomenti a suo tempo spesi dalla
giurisprudenza di legittimità per escludere l’applicazione del beneficio in
relazione a tali ipotesi, e ai quali il Tribunale di Firenze si richiama onde
motivare il diniego di liquidazione, relativi al rischio di sconfinamento nella
produzione normativa, all’esigenza di contenimento della spesa pubblica in
materia di giustizia e, in generale, degli oneri economici statuali.
Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione di legge (art. 360,
co. I, n. 3, cod. proc. civ.) in cui sarebbe incorsa l’ordinanza impugnata per
avere deciso la controversia in senso opposto a quanto statuito dalla Corte
costituzionale nella sentenza n. 10/2022, la quale ha enunciato un principio
già esistente nell’ordinamento per necessità imposta dalla Costituzione, ma la
cui applicazione veniva concretamente ostacolata da una illegittima
limitazione/esclusione imputabile al legislatore ordinario, che è stata in tal
modo rimossa.
Deduce quindi la ricorrente che il Tribunale di Firenze ha violato gli
artt. 74, co. II, 75, co. I e 83, co. II, d.P.R. 115/2002, per avere dato una
lettura delle norme in questione contraria all’interpretazione costituzionalmente
imposta.
4. I due motivi, che possono essere congiuntamente esaminati in ragione
della loro connessione, sono fondati.
Quanto al primo, l’interpretazione che il giudice a quo ha offerto
della sentenza n. 10/2022 della Corte costituzionale, alla luce della
precedente decisione di questa Corte n. 18123/2020, è priva d’ogni fondamento
logico. Invero la Corte Costituzionale, dopo l’emissione di quest’ultima
sentenza, e diversi mesi prima che fosse decisa in primo grado la causa in
esame, ha preso in analisi una fattispecie analoga a quella oggetto del
presente giudizio e l’ha decisa nel senso prospettato dalla ricorrente, ossia
reputando non conformi a Costituzione gli artt. 74, co. II, 75, co. I e 83, co.
II, d.P.R. 115/2002, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., poiché
circoscrivono il diritto del difensore della parte ammessa al patrocinio a
spese dello Stato a ricevere il compenso per l’attività difensiva svolta solo
quando questa abbia natura giudiziale. Ne consegue che, dal 21 gennaio 2022
(giorno successivo alla pubblicazione della sentenza de qua), in armonia con
l’art. 136 Cost. – che prevede l’espunzione dall’ordinamento e la conseguente
cessazione dell’efficacia delle norme giudicate incostituzionali a partire dal
giorno successivo alla pubblicazione del provvedimento ricognitivo del vizio –
la norma che limitava il riferimento della disciplina sul patrocinio a spese
dello Stato ai soli procedimenti giudiziali ha cessato di avere vigore e,
pertanto, la decisione giudiziale che continui, ciononostante, a farne
applicazione deve qualificarsi illegittima.
Plurimi sono i principi di rango costituzionale che la Corte ha
ritenuto violati dalla normativa censurata.
In primo luogo, il principio di ragionevolezza, desumibile dall’art. 3,
co. I, Cost., che impone il riconoscimento al difensore del compenso per
l’attività stragiudiziale espletata, specialmente nei casi in cui essa ha
consentito, anche grazie all’impegno dello stesso, lo scopo deflattivo
perseguito dal legislatore. Invero, a detta della Consulta, “il nesso di
strumentalità necessaria con il processo e la riconducibilità della mediazione
alle forme di giurisdizione condizionata aventi finalità deflattive
costituiscono elementi che rendono del tutto distonica e priva di alcuna
ragionevole giustificazione l’esclusione del patrocinio a spese dello Stato
quando la medesima mediazione si sia conclusa con successo e non sia stata in
concreto seguita dalla proposizione giudiziale della domanda. In tal modo,
infatti, il suddetto patrocinio risulta contraddittoriamente escluso proprio
nei casi in cui il procedimento de quo ha raggiunto – in ipotesi anche grazie all’impegno
dei difensori – lo scopo deflattivo prefissato dal legislatore”.
La normativa censurata, nella sua formulazione originaria comprimeva
altresì il principio di eguaglianza sostanziale (art. 3, co. II, Cost.) in
relazione al diritto inviolabile di difesa (art. 24 Cost.), in quanto impediva
a quanti versano in condizione di non abbienza “l’effettività dell’accesso alla
giustizia, con conseguente sacrificio del nucleo intangibile del diritto alla
tutela giurisdizionale” (cfr. Corte cost., sentenza n. 157/2021).
Come sottolineato nella pronuncia di incostituzionalità, l’esigenza di
contenimento della spesa pubblica in materia di giustizia non può impedire
l’esercizio, da parte dei cittadini, di un diritto costituzionalmente garantito
ed inviolabile quale quello alla difesa in giudizio; sicché le spese erariali
volte a realizzarlo sono “costituzionalmente necessarie”, poiché inerenti
“all’erogazione di prestazioni sociali incomprimibili”.
Ne consegue che tanto l’argomento dell’equilibrio di bilancio quanto
quello dello sconfinamento nella produzione normativa – impiegati in passato
anche da questa Corte per escludere l’estendibilità del beneficio alla difesa
tecnica che non è stata esperita in ambito giudiziale – non sono più
invocabili, in quanto definitivamente e pacificamente superati dalla sentenza
della Consulta, che, quale decisione “additiva di principio”, consegna al
legislatore e agli interpreti, appunto, un principio di rango costituzionale
che è stato oggetto di riconoscimento anche da parte della più recente
giurisprudenza di legittimità. Nell’ordinanza n. 3888/2023 questa Corte ha
invero adeguato l’interpretazione della normativa censurata alla lettura che ne
è costituzionalmente imposta, per come precisata dalla Consulta: “[...] per
effetto dell’intervento del giudice delle leggi sussiste il diritto alla
liquidazione del compenso vantato dall’avvocato che abbia assistito la parte in
una procedura di mediazione, ma sul presupposto indefettibile che la mediazione
abbia carattere obbligatorio”.
La sentenza della Corte costituzionale, al paragrafo 11 ha poi aggiunto
che: “Rimane ferma, ovviamente, la facoltà del legislatore di valutare, nella
sua discrezionalità, eventualmente anche in sede di attuazione della legge
delega prima richiamata, l’opportunità di introdurre, nel rispetto dei suddetti
principi costituzionali, una più compiuta e specifica disciplina della
fattispecie oggetto dell’odierno scrutinio”.
Trattasi di affermazione che nell’immediato impone di dover riconoscere
il diritto alla liquidazione del compenso in favore del difensore della parte
beneficiaria del patrocinio a spese dello Stato che abbia positivamente
concluso una procedura di mediazione obbligatoria, ma che al tempo stesso non
preclude al legislatore di poter provvedere in futuro alla attività di
integrazione normativa ritenuta opportuna in quanto conseguente alla pronuncia
additiva.
Al riguardo proprio la Consulta ha recentemente ribadito nella sentenza
n. 88/2018 che questa in presenza di pronunce di accoglimento additive di
principio, da un lato è demandato “ai giudici comuni trarre dalla decisione i
necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti
ermeneutici a loro disposizione”; mentre al legislatore compete di “provvedere
eventualmente a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti
che apparissero bisognevoli di apposita regolamentazione”.
La giurisprudenza costituzionale radicalmente esclude che siffatto
meccanismo di “riparazione” alle omissioni normative sia lesivo delle
attribuzioni legislative, giacché l’integrazione da parte della giurisdizione
comune non si colloca sul piano della normazione generale e astratta, bensì̀ su
quello della regola del caso concreto: “La dichiarazione di illegittimità̀
costituzionale di una omissione legislativa – com’è quella ravvisata
nell’ipotesi di mancata previsione, da parte della norma regolatrice di un
diritto costituzionalmente garantito, di un meccanismo idoneo ad assicurare l’effettività̀
di questo – mentre lascia al legislatore, riconoscendone l’innegabile
competenza, di introdurre e di disciplinare anche retroattivamente tale
meccanismo in via di normazione astratta, somministra essa stessa un principio
cui il giudice comune è abilitato a fare riferimento per porre frattanto
rimedio all’omissione in via di individuazione della regola del caso concreto”
(cfr. Corte cost., sentenza n. 295/1991).
Dello stesso avviso è anche questa Suprema Corte, che nella sentenza
delle Sezioni Unite n. 1946/2017 ha chiarito i rapporti della giurisprudenza
costituzionale additiva con l’art. 136 Cost., proprio al fine di evitare che la
prassi giurisdizionale comune finisca col vanificare la regola posta da
quest’ultima previsione: “Trattandosi di una sentenza di illegittimità̀
costituzionale, essa produce gli effetti di cui agli artt. 136 Cost. e 30,
terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, sulla costituzione e sul
funzionamento della Corte costituzionale: la norma dichiarata costituzionalmente
illegittima […] cessa di avere efficacia e non [può] avere applicazione dal
giorno successivo alla pubblicazione della decisione”. Quindi, il fatto che la
pronuncia della Consulta si limiti a consegnare un principio, senza
contestualmente introdurre regole di dettaglio self-executing, “non esonera gli
organi giurisdizionali, in attesa che il legislatore adempia al suo compito,
dall’applicazione diretta di quel principio”. Ciò in quanto “l’affermazione di
principio contenuta nel dispositivo di incostituzionalità̀ non è semplice
espressione di orientamento di politica del diritto, destinata a trovare
realizzazione a condizione di un futuro intervento del legislatore che
trasformi la pronuncia della Corte costituzionale in regole di diritto
positivo. Essa è, invece, diritto vigente, capace di valere per forza propria,
in quanto derivante dalla Costituzione: la legge alla quale il giudice è
soggetto per il principio di legalità̀ nella giurisdizione (art. 101, secondo
comma, Cost.) è quella che risulta dalla addizione del principio ad opera
della sentenza di illegittimità̀ costituzionale”.
Di conseguenza questa Corte non può esimersi dall’osservare che, ove si
riconoscessero effetti vincolanti soltanto alla parte ablatoria della decisione
additiva, e invece valore meramente persuasivo al principio in essa formulato,
si verrebbe a negare la stessa funzione assolta dalle sentenze di accoglimento
del Giudice delle leggi, le quali apparrebbero come meramente dichiarative
dell’incostituzionalità̀ di omissioni legislative e, proprio perché non seguite
dall’applicazione concreta del principio da esse enunciato, non agevolmente
armonizzabili con il disposto dell’art. 136 Cost. e dell’art. 30 della l. n.
87/1953, che invece postulano l’espunzione e la cessazione dell’efficacia della
norma incostituzionale quale il necessario ed inevitabile effetto della
dichiarazione di incostituzionalità̀.
Ne deriva che è evidentemente fondata, per tutte le considerazioni
sinora svolte, la denunzia circa la violazione degli artt. 74, co. II, 75, co.
I e 83, co. II, d.P.R. 115/2002 da parte dell’ordinanza impugnata, che, avendo
concluso per l’esclusione ad un caso di mediazione obbligatoria sine iudicio
dell’applicazione dei principi ivi aggiunti per effetto del diritto alla
liquidazione del compenso, è incorsa in violazione di legge rilevante in questa
sede ai sensi dell’art. 360, co. I, n. 3, codice di rito.
5. I motivi vanno pertanto accolti, e l’ordinanza deve essere quindi
cassata, in relazione alle ragioni dell’accoglimento, con rinvio al Tribunale
di Firenze in persona di diverso magistrato, che provvederà anche sulle spese
del presente giudizio e di quelle della precedente fase di merito.
PQM
Accoglie il ricorso e cassa l’ordinanza impugnata in relazione ai
motivi accolti, con rinvio al Tribunale di Firenze, in persona di diverso
magistrato, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
AVVISO. Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità.