=> C. Cost. 6/12/2012, n. 272
Come noto, all’esito
dell’udienza del 23 ottobre scorso, la Corte Costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale
del d.lgs. 4 marzo 2010, n.28 nella parte in cui ha previsto il carattere
obbligatorio della mediazione. Da quanto appreso dal comunicato stampa di
Palazzo della Consulta del 24 ottobre 2012, il profilo di incostituzionalità
rilevato dalla Consulta è legato all’eccesso di delega legislativa (1)
(2).
La Corte ha reso note le
motivazioni di tale decisione con la sentenza 6 dicembre 2012 n. 272.
Di seguito si propongono gli aspetti
di maggiore interesse di tale pronuncia, soprattutto con riferimento ai futuri
sviluppi dell’istituto della mediazione.
A. L’ambito della decisione.
Giudizi di legittimità
costituzionale degli articoli 5, comma 1, primo, secondo e terzo periodo, e 16,
comma 1, del decreto legislativo 4 marzo
2010, n. 28 e dell’articolo 16 del decreto
ministeriale 18 ottobre 2010, n. 180, come modificato dal decreto ministeriale
6 luglio 2011, n. 145, promossi dal:
-
Giudice di
pace di Parma con ordinanza del 1° agosto 2011;
-
Tribunale
amministrativo regionale per il Lazio con ordinanza del 12 aprile 2011;
-
Giudice di
pace di Catanzaro con due ordinanze del 1° settembre e del 3 novembre 2011;
-
Giudice di
pace di Recco con ordinanza del 5 dicembre 2011;
-
Giudice di
pace di Salerno con ordinanza del 19 novembre 2011;
-
Tribunale
di Torino con ordinanza del 24 gennaio 2012;
-
Tribunale
di Genova con ordinanza del 18 novembre 2011 (3).
B. La decisione.
La Corte:
1) dichiara l’illegittimità costituzionale
dell’articolo 5, comma 1, del decreto
legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione
dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione
finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali);
2) dichiara, in via consequenziale, ai
sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e
sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale:
a) dell’art. 4, comma 3, del decreto legislativo n. 28 del 2010,
limitatamente al secondo periodo («L’avvocato informa altresì l’assistito dei
casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di
procedibilità della domanda giudiziale») e al sesto periodo, limitatamente alla
frase «se non provvede ai sensi dell’articolo 5, comma 1»;
b) dell’art. 5, comma 2, primo periodo,
del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «Fermo quanto previsto
dal comma 1 e»,
c) dell’art. 5, comma 4, del detto
decreto legislativo, limitatamente alle parole «I commi 1 e»;
d) dell’art. 5, comma 5 del detto
decreto legislativo, limitatamente alle parole «Fermo quanto previsto dal comma
1 e»;
e) dell’art. 6, comma 2, del detto
decreto legislativo, limitatamente alla frase «e, anche nei casi in cui il
giudice dispone il rinvio della causa ai sensi del quarto o del quinto periodo
del comma 1 dell’articolo cinque,»;
f) dell’art. 7 del detto decreto
legislativo, limitatamente alla frase «e il periodo del rinvio disposto dal
giudice ai sensi dell’art. 5, comma 1»;
g) dello stesso articolo 7 nella parte in cui
usa il verbo «computano» anziché «computa»;
h) dell’art. 8, comma 5, del detto
decreto legislativo;
i) dell’art. 11, comma 1, del detto
decreto legislativo, limitatamente al periodo «Prima della formulazione della proposta,
il mediatore informa le parti delle possibili conseguenze di cui all’art. 13»;
l) dell’intero art. 13 del detto
decreto legislativo, escluso il periodo «resta ferma l’applicabilità degli
articoli 92 e 96 del codice di procedura civile»;
m) dell’art. 17, comma 4, lettera d),
del detto decreto legislativo;
n) dell’art. 17, comma 5, del detto
decreto legislativo;
o), dell’art. 24 del detto decreto
legislativo.
3) dichiara inammissibile la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 5 del decreto legislativo n. 28 del 2010 e dell’art. 16
del decreto ministeriale adottato dal Ministro della giustizia, di concerto col
Ministro dello sviluppo economico, in data 18 ottobre 2010, n. 180, come
modificato dal decreto ministeriale 6 luglio 2011, n. 145 (Regolamento recante la determinazione dei
criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di
mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione
delle indennità spettanti agli organismi, ai sensi dell’articolo 16 del decreto
legislativo 4 marzo 2010, n. 28), «da soli ed anche in combinato disposto», sollevata
dal Giudice di pace di Recco, in riferimento agli articoli 3, 24 e 111
Cost., con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Ciò in quanto il rimettente omette qualsiasi
descrizione della fattispecie sottoposta al suo esame, trascurando di fornire
elementi idonei a stabilire se la vertenza, nella quale è chiamato a
pronunciare, rientri o meno nel catalogo delle cause per le quali l’art. 5,
comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010 impone il preliminare esperimento del
procedimento di mediazione, così precludendo alla Corte il necessario controllo
in punto di rilevanza.
C. Sull’eccesso di delega (artt. 76 e 77 Cost.)
Tali otto ordinanze di rimessione
pongono questioni identiche, o tra loro strettamente connesse, in relazione
alla normativa censurata. Pertanto, premette la Corte, i relativi giudizi devono
essere riuniti, per essere definiti
con unica sentenza, dovendosi in particolare esaminare con priorità, per ragioni di ordine logico, le questioni di
legittimità costituzionale sollevate, in riferimento agli articoli 76 e 77
Cost., nei confronti dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010, con
particolare riguardo al carattere obbligatorio che detta norma, in asserita violazione della legge delega,
attribuisce al preliminare esperimento della procedura di mediazione.
1. L’art. 5, comma 1, d.lgs.
n, 28 del 2010.
In forza di tale norma, la parte che intende agire in giudizio per una
delle azioni specificamente indicate, è tenuta, in via preliminare, ad esperire
la procedura di conciliazione, disciplinata come condizione di procedibilità
della domanda giudiziale. Il carattere obbligatorio così attribuito a detta
procedura è censurato, per eccesso o difetto di delega, da quasi tutte le
ordinanze di rimessione sopra riassunte; e tali censure – illustra la Corte – sono
fondate.
2. La normativa e giurisprudenza
dell’Unione europea
Dato che sia la legge delega (art. 60, comma 2 e comma 3, lettera c,
della legge n. 69 del 2009), sia il d.lgs. n. 28 del 2010 (preambolo) si
richiamano al rispetto e alla coerenza con la normativa dell’Unione europea, la
corte procede ad una concisa ricognizione degli elementi desumibili da tale
normativa:
- direttiva 2008/52/CE;
- risoluzione del Parlamento
europeo del 25 ottobre 2011 (2011/2117-INI) sui metodi
alternativi di soluzione delle controversie in materia civile, commerciale e
familiare (ancorché priva di efficacia vincolante);
- risoluzione del Parlamento
europeo del 13 settembre 2011
(2011/2026-INI), relativa all’attuazione della direttiva sulla mediazione negli
Stati membri, impatto della stessa sulla mediazione e sua adozione da parte dei
tribunali.
- sentenza della Corte di
giustizia dell’Unione europea in data 18 marzo 2010, Sezione quarta, pronunciata nelle cause riunite C-317/08, C-318/08, C-319/08 e C-320/08.
La Corte osserva al riguardo che “dai richiamati atti dell’Unione europea non
si desume alcuna esplicita o implicita opzione a favore del carattere
obbligatorio dell’istituto della mediazione”.
Dunque, “la disciplina dell’UE si
rivela neutrale in ordine alla
scelta del modello di mediazione da adottare”, con la conseguenza che l’opzione
a favore del modello di mediazione obbligatoria, operata dalla normativa
censurata, non può trovare fondamento nella disciplina UE: infatti – conclude sul
punto la Corte – “una volta raggiunta
tale conclusione, si deve per conseguenza escludere che il contenuto della
legge delega, richiamando la direttiva comunitaria, possa essere interpretato
come scelta a favore del modello di mediazione obbligatoria”.
3. La legge delega (art. 60
della legge n. 69 del 2009).
La Corte passa poi a verificare il rispetto dei principi dettati dalla
legge delega posti in sede di emanazione del d.lgs. n. 28 del 2010.
I Giudici osservano al riguardo che la
legge delega non esplicita in alcun modo la previsione del carattere
obbligatorio della mediazione, con la conseguenza che sussiste, in relazione al
carattere obbligatorio dell’istituto di conciliazione, il denunciato eccesso di
delega.
Sul punto la sentenza in parola precisa, tra l’altro, che:
- tale vizio non potrebbe essere superato considerando la norma introdotta
dal legislatore delegato come un coerente sviluppo e completamento delle scelte
espresse dal delegante, perché in realtà con il censurato art. 5, comma 1, si è
posto in essere un istituto “che non
soltanto è privo di riferimenti ai principi e criteri della delega ma, almeno
in due punti, contrasta con la concezione della mediazione come imposta dalla normativa
delegata”;
- il carattere dell’obbligatorietà per la mediazione non trova alcun
ancoraggio nella legge delega;
- non “varrebbe addurre che
l’ordinamento conosce varie procedure obbligatorie di conciliazione,
trattandosi di procedimenti specifici, per singoli settori, in relazione ai
quali nessun rapporto di derivazione è configurabile in riferimento all’istituto
in esame”.
- “quanto alla finalità ispiratrice
del detto istituto, consistente nell’esigenza di individuare misure alternative
per la definizione delle controversie civili e commerciali, anche al fine di
ridurre il contenzioso gravante sui giudici professionali, va rilevato che il
carattere obbligatorio della mediazione non è intrinseco alla sua ratio, come
agevolmente si desume dalla previsione di altri moduli procedimentali
(facoltativi o disposti su invito del giudice), del pari ritenuti idonei a perseguire
effetti deflattivi e quindi volti a semplificare e migliorare l’accesso alla
giustizia”.
4. La pronuncia di illegittimità costituzionale
In definitiva la Corte dichiara l’illegittimità
costituzionale dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010, per violazione
degli artt. 76 e 77 Cost., declaratoria che deve essere estesa all’intero comma 1, perché gli ultimi tre
periodi sono strettamente collegati a quelli precedenti (oggetto delle
censure), sicché resterebbero privi di significato a seguito della caducazione
di questi.
D. Sull’effettività del diritto di accesso alla tutela
giurisdizionale (art. 24 Cost.)
La Corte non analizza, nello specifico, le censure mosse al riguardo alla
normativa sulla mediazione in quanto profilo assorbito dai precedenti rilievi.
(1) Si
rimanda al riguardo alla sezione “SPECIALE MEDIAZIONE OBBLIGATORIA
E CORTECOSTITUZIONALE” dell’Osservatorio Mediazione Civile.
(2) Si veda l’art. art. 5, comma III,
d.lgs. 4 marzo 2010 n. 28 Decreto legislativo n. 28 del 2010 aggiornato alla c.d.
manovra bis 2011, in Osservatorio Mediazione Civile n. 2/2011 (www.osservatoriomediazionecivile.blogspot.com).
(3) Ordinanze rispettivamente iscritte ai nn. 254 e
268 del registro ordinanze 2011 ed ai nn. 2, 19, 33, 51, 99 e 108 del registro
ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 51 e
54, prima serie speciale, dell’anno 2011 e nn. 5, 8, 11, 15, 22 e 23, prima
serie speciale, dell’anno 2012.
Fonte:
Osservatorio Mediazione Civile n. 128/2012
Corte Costituzionale
6 dicembre 2012 n. 272
Sentenza
Corte Costituzionale
Sentenza 24 ottobre - 6 dicembre 2012, n. 272
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai
signori:
- Alfonso
QUARANTA Presidente
- Franco GALLO
Giudice
- Luigi MAZZELLA
”
- Gaetano
SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE
”
- Giuseppe
TESAURO ”
- Paolo Maria
NAPOLITANO ”
- Giuseppe FRIGO
”
- Alessandro
CRISCUOLO ”
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio
LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA
”
- Sergio
MATTARELLA ”
- Mario Rosario
MORELLI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di
legittimità costituzionale degli articoli 5, comma 1, primo, secondo e terzo
periodo, e 16, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione dell'articolo 60 della
legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla
conciliazione delle controversie civili e commerciali), dell’articolo 2653,
primo comma, numero 1), del codice civile, dell’articolo 16 del decreto
ministeriale 18 ottobre 2010, n. 180, come modificato dal decreto ministeriale
6 luglio 2011, n. 145 (Regolamento recante la determinazione dei criteri e
delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di
mediazione e dell’elenco dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione
delle indennità spettanti agli organismi, ai sensi dell’articolo 16 del decreto
legislativo 4 marzo 2010, n. 28), promossi dal Giudice di pace di Parma con
ordinanza del 1° agosto 2011, dal Tribunale amministrativo regionale per il
Lazio con ordinanza del 12 aprile 2011, dal Giudice di pace di Catanzaro con
due ordinanze del 1° settembre e del 3 novembre 2011, dal Giudice di pace di
Recco con ordinanza del 5 dicembre 2011, dal Giudice di pace di Salerno con
ordinanza del 19 novembre 2011, dal Tribunale di Torino con ordinanza del 24
gennaio 2012 e dal Tribunale di Genova con ordinanza del 18 novembre 2011,
rispettivamente iscritte ai nn. 254 e 268 del registro ordinanze 2011 ed ai nn.
2, 19, 33, 51, 99 e 108 del registro ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica nn. 51 e 54, prima serie speciale, dell’anno 2011 e
nn. 5, 8, 11, 15, 22 e 23, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visti gli atti
di costituzione dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura – OUA ed altri, della
«Associazione degli Avvocati Romani» ed altra, del Consiglio dell’Ordine degli
Avvocati di Firenze, dell’AIAF, Associazione italiana degli avvocati per la
famiglia e per i minori, dell’Unione Nazionale delle Camere Civili,
dell’Organismo di mediazione ADR Center s.p.a., nonché gli atti di intervento
della Associazione nazionale mediatori e conciliatori, della Società italiana
conciliazione mediazione e arbitrato s.r.l. (SIC&A), del Consiglio
dell’Ordine degli Avvocati di Milano, di Assomediazione – Associazione italiana
organismi privati di mediazione e di formazione per la mediazione, di
Unioncamere – Unione Italiana delle Camere di commercio, industria, artigianato
e agricoltura ed altri, del Consiglio Nazionale Forense, della ADR Accorditalia
s.r.l. e del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito
nell’udienza pubblica del 23 ottobre 2012 e nella camera di consiglio del 24
ottobre 2012 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;
uditi gli
avvocati Marilisa D’Amico e Lotario Dittrich per il Consiglio dell’Ordine degli
avvocati di Milano, Maria Cristina Stravaganti per la Società italiana
conciliazione mediazione e arbitrato s.r.l. (SIC&A), Francesco Franzese per
l’Assomediazione – Associazione italiana. organismi privati di mediazione e di
formazione per la mediazione, Beniamino Caravita di Toritto per la Unioncamere
– Unione Italiana delle Camere di commercio, industria, artigianato e
agricoltura ed altri, Massimo Luciani per il Consiglio Nazionale Forense,
Giorgio Orsoni per l’Organismo Unitario dell’Avvocatura – OUA ed altri e per il
Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Firenze, Giuliano Scarselli per l’AIAF
– Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori,
Giampiero Amorelli per «l’Associazione degli Avvocati Romani» ed altra, Antonio
De Notaristefani Di Vastogirardi per l’Unione Nazionale delle Camere civili,
Rodolfo Cicchetti per l’Organismo di mediazione ADR Center s.p.a. e l’avvocato
dello Stato Maurizio Di Carlo per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
...omissis...
Considerato in
diritto
1.— Il Tribunale
amministrativo regionale per il Lazio (d’ora in avanti, TAR), con l’ordinanza
del 12 aprile 2011 (r.o. n. 268 del 2011), dubita – in riferimento agli
articoli 24 e 77 della Costituzione – della legittimità costituzionale
dell’articolo 5 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 (Attuazione dell’articolo
60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla
conciliazione delle controversie civili e commerciali). In particolare, il TAR
censura il comma 1, primo periodo (che introduce, a carico di chi intende
esercitare in giudizio un’azione relativa alle controversie nelle materie
espressamente elencate, l’obbligo del previo esperimento del procedimento di
mediazione), secondo periodo (il quale prevede che l’esperimento della
mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale) e terzo
periodo (alla stregua del quale l’improcedibilità deve essere eccepita dal
convenuto o rilevata d’ufficio dal giudice); inoltre il TAR dubita, in
riferimento ai medesimi artt. 24 e 77 Cost., della legittimità costituzionale dell’art.
16 del citato d.lgs. n. 28 del 2010, «laddove dispone che abilitati a
costituire organismi deputati, su istanza della parte interessata, a gestire il
procedimento di mediazione sono gli enti pubblici e privati, che diano garanzie
di serietà ed efficienza».
1.1.— Il TAR
premette di essere chiamato a pronunziare in due procedimenti, relativi a
ricorsi recanti i numeri 10937 e 11235 del 2010, poi riuniti, promossi entrambi
nei confronti del Ministro della giustizia e del Ministro dello sviluppo
economico, il primo da numerosi soggetti, indicati in epigrafe e in narrativa,
il secondo dall’Unione Nazionale delle Camere Civili (UNCC), con l’intervento,
ad adiuvandum e ad opponendum, di altri soggetti, del pari indicati in epigrafe
e in narrativa.
Oggetto dei
ricorsi è la domanda di annullamento del decreto adottato dal Ministro della
giustizia, di concerto col Ministro dello sviluppo economico, in data 18
ottobre 2010, n. 180, con richiesta di ritenere non manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale degli artt. 5 e 16 del d.lgs. n. 28 del
2010, in riferimento agli artt. 24, 76 e 77 Cost. I ricorrenti affermano che il
menzionato d.m. non soltanto sarebbe lesivo degli interessi della categoria
forense, ma sarebbe anche illegittimo perché in contrasto col suddetto d.lgs. e
con la relativa legge delega e affetto da eccesso di potere sotto vari profili.
Ciò posto, il
rimettente si sofferma sul quadro normativo rilevante e sui motivi dei ricorsi,
con particolare riguardo alle ragioni attinenti alle sollevate questioni di
legittimità costituzionale.
Dopo avere
argomentato sulla rilevanza di tali questioni, il rimettente ritiene che le
prime tre disposizioni dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 si porrebbero in
contrasto con l’art. 77 Cost., perché non potrebbero essere ascritte all’art.
60 della legge 18 giugno 2009, n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico,
la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile), non
essendo rilevabile alcun elemento da cui desumere che la regolazione della
materia contenuta nella normativa censurata sia conforme ai precetti della
detta legge delega.
Infatti: 1)
nessuno dei criteri e principi direttivi previsti rivelerebbe in modo espresso
la finalità di perseguire un intento deflattivo del contenzioso
giurisdizionale; 2) nessuno dei criteri o principi configurerebbe l’istituto
della mediazione come fase pre-processuale obbligatoria; 3) avuto riguardo al
silenzio serbato dal legislatore delegante sullo specifico tema, sarebbe stato
almeno necessario che il citato art. 60 lasciasse trasparire sul punto elementi
univoci e concludenti, ma ciò non sarebbe avvenuto; 4) si dovrebbe escludere
che la norma ora menzionata, con il richiamo alla normativa comunitaria, possa
essere intesa come delega al Governo a compiere qualsiasi scelta occasionata
dalla direttiva 21 maggio 2008, n. 2008/52/CE (Direttiva del Parlamento europeo
e del Consiglio relativa a determinati aspetti della mediazione in materia
civile e commerciale); 5) inoltre, tale direttiva lascerebbe «impregiudicata la
legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure
soggetto a incentivi o sanzioni, sia prima che dopo il procedimento
giudiziario»; 6) nessun elemento decisivo potrebbe trarsi dal principio
previsto dall’art. 60, comma 3, lettera a), della legge-delega, nella parte in
cui dispone che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per
oggetto controversie su diritti disponibili, «senza precludere l’accesso alla
giustizia», perché il legislatore, utilizzando tale espressione, avrebbe inteso
soltanto rispettare un principio assoluto dell’ordinamento nazionale (art. 24
Cost.) e di quello comunitario.
I criteri e
principi direttivi fissati dalla legge delega, dunque, sarebbero neutrali al
fine di verificare la rispondenza a tale legge dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del
2010. Invece, due dei criteri direttivi previsti dal legislatore delegante
deporrebbero a favore della previsione del carattere facoltativo che si sarebbe
inteso attribuire alla procedura di mediazione.
Il primo sarebbe
desumibile dall’art. 60, comma 3, lettera c), della legge delega, in forza del
quale la mediazione sarebbe disciplinata anche mediante estensione delle
disposizioni di cui al decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione
dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione
finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’art.
12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366). Orbene, la clausola di conciliazione
prevista dal d.lgs. n. 5 del 2003 (normativa ora abrogata proprio dal d.lgs. n.
28 del 2010) nasceva da norme di fonte volontaria e non obbligatoria.
Il secondo
andrebbe tratto dall’art. 60, comma 3, lettera n), della legge delega, che
prevede il dovere dell’avvocato di informare il cliente, prima
dell’instaurazione del giudizio, della possibilità di avvalersi dell’istituto
della conciliazione, nonché di ricorrere agli organismi di conciliazione. Il
rimettente rileva che la possibilità è, ovviamente, cosa diversa dalla
obbligatorietà; e, infatti, l’art. 4 del d.lgs. n. 28 del 2010 differenzierebbe
al comma 3 l’ipotesi in cui l’avvocato omette di informare il cliente della
«possibilità» di avvalersi della mediazione da quella in cui l’omissione
informativa concerne i casi nei quali l’espletamento del procedimento di
mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale.
Quanto all’art.
16 del d.lgs. n. 28 del 2010, esso avrebbe «conformato gli organismi di
conciliazione a parametri, o meglio a qualità, che attengono esclusivamente ed
essenzialmente all’aspetto della funzionalità generica, e che, per contro, sono
scevri da qualsiasi riferimento a canoni tipologici tecnici o professionali di
carattere qualificatorio ovvero strutturale».
2.— Il Giudice
di pace di Parma, con ordinanza depositata il 1° agosto 2011 (r.o. n. 254 del
2011), ha sollevato, in riferimento agli artt. 24 e 77 Cost., questioni di
legittimità costituzionale degli artt. 5, comma 1, primo, secondo e terzo
periodo, e 16, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010.
Il rimettente,
premesso di essere chiamato a giudicare in una causa civile avente ad oggetto
una domanda di pagamento in materia di locazione, rientrante nell’ambito
applicativo dell’art. 5 del d.lgs. ora citato, ritiene che le norme censurate siano
in contrasto: a) con l’art. 24 Cost., «in quanto realizzano un meccanismo di
determinante influenza di situazioni preliminari sulla tutela giudiziale dei
diritti, posto che l’art. 5 in discorso ha configurato, nelle materie previste,
l’attività degli organismi di conciliazione come imprescindibile e, per ciò
stesso, idonea a conformare definitivamente i diritti soggettivi coinvolti». In
particolare, l’art. 16 del d.lgs. n. 28 del 2010 «ha delineato gli organismi di
conciliazione con riferimento a qualità nell’ottica della mera funzionalità
degli stessi, omettendo qualsiasi riferimento a criteri di qualificazione
tecnica o professionale»; sicché «in difetto di una adeguata definizione della
figura del mediatore, le norme in discorso potrebbero essere fonte di
pregiudizi a danno dei privati, i quali in sede giudiziale potrebbero usufruire
di elementi di valutazione diversi da quelli a loro offerti nella fase
preliminare del procedimento di mediazione»; b) con l’art. 77 Cost., posto che
«il legislatore delegante non ha formulato alcuna indicazione circa
l’obbligatorietà del previo esperimento del procedimento di mediazione»; ed
anzi, alla luce dei principi e criteri direttivi della legge delega, di cui
alle lettere c) ed n) del comma 3 dell’art. 60, si deve escludere che
l’obbligatorietà di detto procedimento possa rientrare nella discrezionalità
tipica della legislazione delegata «quale attività di attuazione e sviluppo
della delega, nella debita considerazione del contesto normativo comunitario di
riferimento».
3.— Il Giudice
di pace di Recco, con l’ordinanza depositata il 5 dicembre 2011 (r.o. n. 33 del
2012), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost. – questioni
di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art.
16 del d.m. n. 180 del 2010, «da soli o in combinato disposto».
Le suddette
disposizioni, ad avviso del rimettente, sarebbero in contrasto con: a) l’art.
24 Cost., in relazione ai tempi del processo, in quanto il termine di quattro
mesi «appare decisamente al di fuori della soglia di tollerabilità», ancor più
se si prendono in considerazione altri procedimenti concernenti tentativi
obbligatori di conciliazione, ma con termini di espletamento più brevi; b)
ancora con l’art. 24 Cost., in relazione alla disciplina dei costi della
mediazione, assumendo che «Tra l’esigenza di non rendere economicamente troppo
gravoso ai cittadini l’accesso alla tutela giurisdizionale e l’esigenza, pur
particolarmente avvertita, di individuare strumenti idonei a decongestionare
gli uffici giudiziari attraverso lo sfoltimento del carico di lavoro,
prevalenza debba avere la prima»; c) con l’art. 3 Cost., in quanto la
disciplina dei costi di mediazione introduce una disparità di trattamento tra i
meno abbienti e gli abbienti. Infatti, benché sia stato previsto il beneficio
del patrocinio a spese dello Stato, la citata disparità comunque resterebbe in
relazione ai soggetti che, pur non rientrando nel novero di coloro che possono
avvalersi del detto patrocinio, versano in condizioni economiche non agiate; d)
con l’art. 111 Cost., sotto il profilo della ragionevole durata del processo,
in quanto l’espletamento della mediazione allunga i tempi di esso in assenza di
una idonea giustificazione; e) ancora con l’art. 111 Cost., sempre sotto il
profilo della ragionevole durata del processo, in quanto l’espletamento
obbligatorio del tentativo di mediazione si deve effettuare non soltanto con
riguardo alla domanda principale, ma anche in relazione ad ogni singola azione
proposta nel corso del giudizio; f) di nuovo con l’art. 3 Cost., per
irragionevolezza correlata al carattere obbligatorio della mediazione avente ad
oggetto le controversie di competenza del Giudice di pace, in quanto nel
processo avanti al detto giudice il tentativo obbligatorio di conciliazione è
già previsto.
4.— Il Giudice
di pace di Catanzaro, con l’ordinanza depositata il 1° settembre 2011 (r.o. n.
2 del 2012), dubita – in riferimento agli artt. 24, 76 e 77 Cost. – della
legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella parte
in cui prevede che lo svolgimento della procedura di mediazione sia condizione
di procedibilità della domanda giudiziale in relazione alle controversie nelle
materie in esso indicate.
Il rimettente
riferisce di dover pronunziare in un giudizio promosso dall’attore per
accertare il suo diritto ad ottenere la restituzione di due libri dati in
comodato. La convenuta ha eccepito, in via preliminare, l’improcedibilità della
domanda per omesso espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione, ai
sensi del censurato art. 5.
Ad avviso del
giudicante, detta norma violerebbe: a) gli artt. 76 e 77 Cost., ponendosi in
contrasto con i principi e criteri direttivi di cui all’art. 60, comma 3,
lettera a), della legge n. 69 del 2009, secondo cui il Governo, nell’esercizio
della delega, doveva prevedere che la mediazione, finalizzata alla
conciliazione, avesse per oggetto controversie su diritti disponibili, senza
precludere l’accesso alla giustizia; b) l’art. 24 Cost. perché il tentativo
obbligatorio di conciliazione avrebbe un costo non meramente simbolico, sicché
l’esercizio della funzione giurisdizionale sarebbe subordinato al pagamento di
una somma di denaro.
Inoltre, il
giudice a quo censura, in riferimento all’art. 3 Cost., l’art. 16, comma 4, del
d.m. n. 180 del 2010, nella parte in cui consente «solo alla parte convenuta di
non aderire al procedimento, ma non anche alla parte attrice, che si vedrebbe,
comunque, obbligata al procedimento di mediazione per poter far valere in
giudizio un suo diritto». Al riguardo, il rimettente ritiene che detta
disposizione sia in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto il profilo del
principio di uguaglianza, perché «pone su piani diversi, e tratta diversamente,
la parte attrice rispetto a quella convenuta».
5.— Il Tribunale
di Genova, con ordinanza depositata il 18 novembre 2011 (r.o. n. 108 del 2012),
ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. – questioni di
legittimità costituzionale: 1) dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella
parte in cui prevede l’esperimento del procedimento di mediazione quale
condizione di procedibilità della domanda giudiziale solo per le materie
espressamente elencate nel comma primo; 2) dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del
2010 e dell’art. 2653, primo comma, numero 1), del codice civile, nella parte
in cui non prevedono, per le domande dirette all’accertamento di diritti reali,
la possibilità di trascrivere la domanda di mediazione e direttamente il
verbale di mediazione, con efficacia prenotativa della prima anche rispetto al
provvedimento giurisdizionale conclusivo del giudizio; 3) dell’art. 5 del
d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 16 del d.m n. 180 del 2010, nella parte in
cui prevedono l’espletamento della procedura di mediazione quale condizione di
procedibilità della domanda giudiziale, stabilendone, altresì, il carattere
oneroso; 4) in riferimento al solo art. 3 Cost., del combinato disposto degli
artt. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e 16 del d.m. n. 180 del 2010, nella parte in
cui prevedono che solo il convenuto possa non aderire al procedimento di
mediazione.
Il rimettente,
quanto al punto sub 1), ritiene violati gli artt. 3 e 24 Cost., in quanto la
limitazione della procedura di mediazione solo ad alcune materie darebbe luogo
ad una differenza non giustificata da alcuna ragionevole scelta di politica
legislativa; in ordine al punto sub 2), i citati parametri costituzionali
sarebbero violati perché l’attore si vedrebbe costretto a presentare istanza di
mediazione (a pena d’improcedibilità), ad iniziare un giudizio trascrivendo la
relativa domanda, a prescindere dall’esito della mediazione stessa, a chiedere
in ogni caso una pronunzia giurisdizionale di merito, con la irragionevole
conseguenza che l’attore dovrebbe sopportare sia i costi della mediazione, sia
il pagamento del contributo unificato per l’instaurazione del giudizio, senza
potersi giovare dell’effetto deflattivo della procedura di mediazione. Quanto
al punto sub 3), le disposizioni in esso menzionate si porrebbero in contrasto
con gli artt. 3 e 24 Cost. perché l’accesso alla giurisdizione resterebbe
condizionato al pagamento di una somma di denaro; infine, in relazione al punto
4) le norme censurate si porrebbero in contrasto con l’art. 3 Cost., perché
esse darebbero luogo ad una disparità di trattamento tra attore e convenuto,
dal momento che per il primo non sarebbe prevista la possibilità di rinunziare
ad avvalersi del servizio, incorrendo sempre nel pagamento sia delle spese di
avvio sia di quelle di mediazione.
6.— Il Giudice
di pace di Catanzaro, con l’ordinanza depositata il 3 novembre 2011 (r.o. n. 19
del 2012), ha sollevato, in riferimento agli artt. 24 e 77 Cost., questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010 e dell’art. 16
del d.m. n. 180 del 2010.
Ad avviso del
rimettente, chiamato a decidere su una domanda diretta ad ottenere il pagamento
di un indennizzo derivante da contratto assicurativo, l’art. 5 del d.lgs. n. 28
del 2010, nel prevedere che l’espletamento della procedura di mediazione sia
condizione di procedibilità della domanda giudiziale, violerebbe l’art. 77
Cost. Infatti, sussisterebbe contrasto «tra la legge delega ed il decreto
legislativo 28/10, nella misura in cui, mentre l’art. 60 L. 69/09 (legge
delega) al terzo comma lett. a prescrive che nell’esercizio della delega il
Governo si attenga, tra gli altri, al seguente principio e criterio direttivo
“a) prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per
oggetto controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla
giustizia”, l’art. 5 d.lgs. n. 28/10 concepisce invece il procedimento di
mediazione quale momento propedeutico alla domanda giudiziale, rischiando di
compromettere l’effettività della stessa tutela giudiziale e condizionando in
concreto il diritto di azione».
Inoltre, l’art.
16 del d.m. n. 180 del 2010 si porrebbe in evidente contrasto con l’art. 24
Cost., perché, nel prevedere che il tentativo di conciliazione abbia un costo,
non meramente simbolico, subordinerebbe l’esercizio della funzione
giurisdizionale al pagamento di una somma di denaro, così discostandosi anche
dalla sentenza di questa Corte n. 67 del 1960.
Infine, sarebbe
ravvisabile anche violazione dell’art. 3 Cost., perché l’art. 16 ora citato,
concernente i criteri di determinazione delle indennità, prevedendo che
soltanto il convenuto, e non l’attore, possa non aderire alla procedura di
mediazione, introdurrebbe una disparità di trattamento.
7.— Il Giudice
di pace di Salerno, con l’ordinanza depositata il 19 dicembre 2011 (r.o. n. 51
del 2012), ha sollevato – in riferimento agli artt. 24, 70, 76 e 77 Cost. –
questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5 del d.lgs. n. 28 del 2010.
Il rimettente,
chiamato a pronunciarsi in un giudizio promosso contro una società di
assicurazioni al fine di ottenere un indennizzo per lesioni subite e per spese
mediche sostenute a seguito di un incidente stradale, ritiene che la norma
censurata, nella parte in cui prevede che l’esperimento della procedura di
mediazione costituisca condizione di procedibilità della domanda giudiziale, si
riveli in contrasto con gli artt. 70, 76 e 77 Cost., in quanto «analizzando il
rapporto tra legge delega e decreto legislativo n. 28/2010 emerge chiaramente
che l’art. 26 (recte: 76) attribuisce la delega al Governo “esclusivamente” per
recepire la disposizione prevista dall’art. 69/09 ed in particolare l’eccesso
si configura laddove non è stata recepita la parte in cui escludeva che il
procedimento potesse costituire condizione di procedibilità della domanda
ovvero fosse in grado di precludere, per tutta la sua durata, l’accesso alla
giustizia ordinaria». Ciò perché unico intento della legge delega sarebbe stato
quello di creare esclusivamente «un organismo deflattivo per la giustizia e non
certamente di favorire la creazione di un elemento ostativo al suo accesso».
Inoltre, sarebbe
violato l’art. 24 Cost. perché la norma denunziata avrebbe reso «la mediazione
una condizione di procedibilità della domanda giudiziaria, negando per tutto il
tempo della sua durata l’accesso alla giustizia e soprattutto non prevedendo
alcun mezzo per i meno abbienti per attivare il procedimento della media
conciliazione». Inoltre, «in caso di fallimento del procedimento di media
conciliazione le spese sostenute per adire l’organismo definito deflattivo non
potranno essere ripetute e rimarranno esclusivamente a carico delle parti, con
evidenti conseguenze economiche afflittive per le classi sociali meno agiate».
A sostegno della
tesi propugnata, il giudice a quo richiama il principio affermato da questa
Corte, secondo il quale «un sistema di giustizia “condizionata” è ammissibile
solo nel caso in cui l’eccezione al principio dell’accesso immediato alla
giurisdizione si presenti come ragionevole e risponda ad un interesse generale,
purché non vengano imposti oneri tali da rendere impossibile o eccessivamente
difficile far valere le proprie ragioni».
8.— Il Tribunale
di Torino, in composizione monocratica, con l’ordinanza depositata il 24
gennaio 2012 (r.o. n. 99 del 2012), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3,
24, 76, 77, 101 e 102 Cost. – questioni di legittimità costituzionale dell’art.
5 del d.lgs. n. 28 del 2010, nella parte in cui prevede che chi intende
esercitare in giudizio un’azione relativa alle materie ivi indicate «è tenuto
preliminarmente ad esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente
decreto», anziché «può esperire il procedimento di mediazione ai sensi del
presente decreto»; inoltre, nella parte in cui prevede che «l’esperimento del
procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda
giudiziale», nonché nella parte in cui prevede che «l’improcedibilità deve
essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal
giudice, non oltre la prima udienza».
Il rimettente
riferisce di essere investito di un giudizio di pagamento di somme relative ad
un contratto di locazione. In prima udienza la convenuta ha eccepito
l’improcedibilità della domanda, non essendo stata attivata la procedura di
mediazione.
Ciò posto, il
giudice a quo ritiene che la norma censurata si porrebbe in contrasto con gli
artt. 76 e 77 Cost., in quanto, configurando il procedimento di mediazione come
obbligatorio e condizione di procedibilità della domanda, violerebbe il
principio e criterio direttivo di cui all’art. 60, comma 3, lettera a), della
legge n. 69 del 2009, secondo cui il Governo, nell’esercizio della delega, deve
prevedere che la mediazione, finalizzata alla conciliazione, abbia per oggetto
controversie su diritti disponibili, senza precludere l’accesso alla giustizia.
Il procedimento di media-conciliazione sarebbe «paragonabile ad un arbitrato
irrituale imposto per legge in un’ampia serie di materie giuridiche», tra cui
la locazione, procedimento che «va ad influenzare sia nei tempi sia nella
sostanza il processo che per dettato costituzionale dovrebbe essere tenuto dai
giudici ordinari».
Ad avviso del
rimettente, sarebbero poi violati gli artt. 101 e 102 Cost., perché «lo
straripamento dei poteri del legislatore delegato» avrebbe imposto ai giudici,
nel corso dei processi, almeno tre intralci alla funzione giurisdizionale: 1)
quello derivante dall’imporre al giudice di sospendere o comunque rinviare i
processi in attesa dell’esito della media-conciliazione, che potrebbe pure non
essere più attivata, così denegando giustizia ai cittadini; 2) quello derivante
dall’art. 8, comma 5, del d.lgs. n. 28 del 2010, che prescrive al giudice di
tener conto, ai sensi dell’art. 116 del codice di procedura civile, come
argomento di prova negativa, del comportamento di chi non si presenta davanti
al mediatore per partecipare alla conciliazione; 3) quello derivante dall’art.
13 del decreto delegato, che impone al giudice di tenere conto della proposta
formulata dal mediatore, quando deve procedere alla liquidazione delle spese
processuali, ai sensi degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ.
Ancora,
sarebbero violati gli artt. 3 e 24 Cost., perché la scelta delle materie, nelle
quali la mediazione è obbligatoria, apparirebbe del tutto irragionevole rispetto
agli interessi meritevoli della tutela giurisdizionale, in quanto –
introducendo un costo a carico dei cittadini ed a favore degli uffici privati
della media-conciliazione – si porrebbe in contrasto con i principi dettati da
questa Corte nella sentenza n. 67 del 1960; non prevedendo criteri di
competenza territoriale, porrebbe il privato nella irragionevole posizione di
doversi difendere anche in luoghi molto distanti dalla sua residenza, scelti
dall’attore; l’eventuale «contumacia» del chiamato davanti al mediatore
potrebbe essere valutata negativamente dal giudice.
9.— Le otto
ordinanze di rimessione, qui riassunte, pongono questioni identiche, o tra loro
strettamente connesse, in relazione alla normativa censurata. Pertanto, i
relativi giudizi devono essere riuniti, per essere definiti con unica sentenza.
10.— In via
preliminare deve essere confermata l’ordinanza, adottata nel corso dell’udienza
pubblica ed allegata alla presente sentenza, con la quale sono stati dichiarati
inammissibili gli interventi spiegati nel giudizio di cui all’ordinanza n. 268
del 2011 dai seguenti soggetti: il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di
Milano; la Società Italiana Conciliazione Mediazione ed Arbitrato (SIC & A)
s.r.l.; l’Associazione Nazionale Mediatori e Conciliatori; l’Unioncamere –
Unione Italiana delle Camere di commercio, industria, artigianato e
agricoltura; la Camera di commercio di Cagliari; la Camera di commercio di
Firenze; la Camera di commercio di Milano; la Camera di commercio di Palermo;
la Camera di commercio di Potenza; la Camera di commercio di Roma; la Camera di
commercio di Torino; la Camera di commercio di Venezia; Assomediazione –
Associazione italiana organismi privati di mediazione e di formazione per la
mediazione; nonché l’intervento spiegato dal Consiglio Nazionale Forense nel
giudizio di legittimità costituzionale introdotto con ordinanza del Tribunale
di Genova r.o. n. 108 del 2012.
Invero, i
soggetti e gli enti sopra indicati non sono stati parti nei giudizi a quibus.
Per
giurisprudenza di questa Corte, ormai costante, sono ammessi a intervenire nel
giudizio incidentale di legittimità costituzionale (oltre al Presidente del
Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della
Giunta regionale) le sole parti del giudizio principale, mentre l’intervento di
soggetti estranei a questo è ammissibile soltanto per i terzi titolari di un
interesse qualificato, inerente in modo diretto ed immediato al rapporto
sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni
altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (ex plurimis: ordinanza
letta all’udienza del 23 marzo 2010, confermata con sentenza n. 138 del 2010;
ordinanza letta all’udienza del 31 marzo 2009, confermata con sentenza n. 151
del 2009; sentenze n. 94 del 2009, n. 96 del 2008 e n. 245 del 2007).
Orbene, nei
giudizi da cui traggono origine le questioni di legittimità costituzionale in
discussione, i rapporti sostanziali dedotti in causa concernono profili
attinenti alla mediazione nel processo civile, che possono anche riguardare
interessi professionali della classe forense o delle Camere di commercio, ma
concernono più in generale le posizioni che le parti intendono azionare nel
processo e non mettono in gioco le prerogative del Consiglio Nazionale Forense,
dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati o delle dette Camere di commercio,
nonché, a maggior ragione, degli altri soggetti sopra indicati.
Sotto altro
profilo, l’ammissibilità d’interventi ad opera di terzi, titolari di interessi
soltanto analoghi a quelli dedotti nel giudizio principale, contrasterebbe con
il carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale, in quanto
l’accesso delle parti al detto giudizio avverrebbe senza la previa verifica
della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione da parte del
giudice a quo.
Considerazioni
identiche valgono in ordine alla posizione di ADR Accorditalia s.r.l. Tale
società ha spiegato intervento ad opponendum nel giudizio incidentale di
legittimità costituzionale, relativo alla questione sollevata dal Giudice di
pace di Salerno (r.o. n. 51 del 2012), pur non rivestendo la qualità di parte
nel giudizio a quo.
Ne deriva la
declaratoria d’inammissibilità dei suddetti interventi.
11.— La
questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Giudice di pace di
Recco, deve essere dichiarata inammissibile.
Infatti, il
rimettente omette qualsiasi descrizione della fattispecie sottoposta al suo
esame, limitandosi a rilevare che si tratta di controversia «non priva di
interesse e nemmeno di agevole soluzione, che tuttavia, essendo matura per la
decisione in quanto basata esclusivamente su risultanze documentali, sarebbe
stata decisa in quindici giorni». In particolare, il giudice a quo trascura di
fornire elementi idonei a stabilire se la vertenza, nella quale è chiamato a
pronunciare, rientri o meno nel catalogo delle cause per le quali l’art. 5,
comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010 impone il preliminare esperimento del
procedimento di mediazione, così precludendo alla Corte il necessario controllo
in punto di rilevanza.
Né la rilevata
omissione potrebbe essere sanata con l’esame del fascicolo relativo al giudizio
di merito, perché ciò si tradurrebbe in violazione del principio di
autosufficienza dell’ordinanza di rimessione.
12.— Devono
essere esaminate con priorità, per ragioni di ordine logico, le questioni di
legittimità costituzionale sollevate, in riferimento agli articoli 76 e 77
Cost., nei confronti dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010, con
particolare riguardo al carattere obbligatorio che detta norma, in asserita
violazione della legge delega, attribuisce al preliminare esperimento della
procedura di mediazione.
Al riguardo, è
il caso di osservare che l’ordinanza di rimessione del TAR menziona
esplicitamente tra i parametri costituzionali, oltre all’art. 24, soltanto
l’art. 77 Cost. Tuttavia, poiché dalla motivazione della detta ordinanza si
desume con chiarezza il richiamo anche alla violazione dell’art. 76 Cost., lo
scrutinio di legittimità costituzionale va condotto pure in riferimento
all’eccesso di delega, peraltro evocato da altre ordinanze di rimessione.
Il citato art.
5, comma 1, sotto la rubrica «Condizione di procedibilità e rapporti con il
processo», così dispone: «1. Chi intende esercitare in giudizio un’azione
relativa ad una controversia in materia di condominio, diritti reali,
divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato,
affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di
veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo
della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e
finanziari, è tenuto preliminarmente ad esperire il procedimento di mediazione
ai sensi del presente decreto ovvero il procedimento di conciliazione previsto
dal decreto legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, ovvero il procedimento
istituito in attuazione dell’articolo 128-bis del testo unico delle leggi in
materia bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993,
n. 385, e successive modificazioni, per le materie ivi regolate. L’esperimento
del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda
giudiziale. L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di
decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il
giudice, ove rilevi che la mediazione è già iniziata, ma non si è conclusa,
fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6.
Allo stesso modo provvede quando la mediazione non è stata esperita, assegnando
contestualmente alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione
della domanda di mediazione. Il presente comma non si applica alle azioni
previste dagli articoli 37, 140 e 140-bis del codice del consumo di cui al
decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni».
In forza di tale
norma, la parte che intende agire in giudizio per una delle azioni
specificamente indicate, è tenuta, in via preliminare, ad esperire la procedura
di conciliazione, disciplinata come condizione di procedibilità della domanda
giudiziale. Il carattere obbligatorio così attribuito a detta procedura è
censurato, per eccesso o difetto di delega, da quasi tutte le ordinanze di
rimessione sopra riassunte; e tali censure sono fondate.
12.1.— Si deve
premettere che, come questa Corte ha più volte affermato, «Il controllo della
conformità della norma delegata alla norma delegante richiede un confronto tra
gli esiti di due processi ermeneutici paralleli, l’uno relativo alla norma che
determina l’oggetto, i principi e i criteri direttivi della delega; l’altro
relativo alla norma delegata da interpretare nel significato compatibile con
questi ultimi. Il contenuto della delega deve essere identificato tenendo conto
del complessivo contesto normativo nel quale si inseriscono la legge delega e i
relativi principi e criteri direttivi, nonché delle finalità che la ispirano,
che costituiscono non solo base e limite delle norme delegate, ma anche
strumenti per l’interpretazione della loro portata. La delega legislativa non
esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato, che può essere più o
meno ampia, in relazione al grado di specificità dei criteri fissati nella
legge delega: pertanto, per valutare se il legislatore abbia ecceduto tali
margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega, per
verificare se la norma delegata sia con questa coerente» (ex plurimis: sentenze
n. 230 del 2010, n. 98 del 2008, nn. 340 e 170 del 2007).
In particolare,
circa i requisiti che devono fungere da cerniera tra i due atti normativi, «i
principi e i criteri direttivi della legge di delegazione devono essere
interpretati sia tenendo conto delle finalità ispiratrici della delega, sia
verificando, nel silenzio del legislatore delegante sullo specifico tema, che
le scelte del legislatore delegato non siano in contrasto con gli indirizzi
generali della stessa legge delega» (sentenza n. 341 del 2007, ordinanza n. 228
del 2005).
Ciò posto, si
deve osservare che sia la legge delega (art. 60, comma 2 e comma 3, lettera c,
della legge n. 69 del 2009), sia il d.lgs. n. 28 del 2010 (preambolo) si
richiamano al rispetto e alla coerenza con la normativa dell’Unione europea. È
necessaria, dunque, una ricognizione, sia pure concisa, degli elementi
desumibili da tale normativa.
L’indagine deve
prendere le mosse dalla direttiva 2008/52/CE del Parlamento europeo e del
Consiglio in data 21 maggio 2008, «relativa a determinati aspetti della
mediazione in materia civile e commerciale». Essa risponde alla necessità – già
posta in rilievo dal Consiglio europeo nella riunione di Tampere del 15 e 16
ottobre 1999, nelle conclusioni adottate dal detto Consiglio nel maggio 2000,
nonché dal libro verde presentato dalla Commissione nell’aprile 2002 – di
garantire un migliore accesso alla giustizia, invitando gli Stati membri ad
istituire procedure extragiudiziali ed alternative di risoluzione delle
controversie civili e commerciali.
La direttiva
muove dal presupposto che la mediazione «può fornire una risoluzione extragiudiziale
conveniente e rapida delle controversie in materia civile e commerciale
attraverso procedure concepite in base alle esigenze delle parti. Gli accordi
risultanti dalla mediazione hanno maggiori probabilità di essere rispettati
volontariamente e preservano più facilmente una relazione amichevole e
sostenibile tra le parti. Tali benefici diventano anche più evidenti nelle
situazioni che mostrano elementi di portata transfrontaliera» (direttiva
citata, sesto Considerando).
Il
quattordicesimo Considerando afferma che «La presente direttiva dovrebbe
inoltre fare salva la legislazione nazionale che rende il ricorso alla
mediazione obbligatorio oppure soggetto ad incentivi o sanzioni, purché tale
legislazione non impedisca alle parti di esercitare il loro diritto di accesso
al sistema giudiziario. Del pari, la presente direttiva non dovrebbe
pregiudicare gli attuali sistemi di mediazione autoregolatori nella misura in
cui essi trattano aspetti non coperti dalla presente direttiva». Il principio,
poi, è ripreso e precisato nell’art. 3, lettera a), della direttiva medesima
che, dopo avere definito la mediazione come «un procedimento strutturato,
indipendentemente dalla denominazione, dove due o più parti di una controversia
tentano esse stesse, su base volontaria, di raggiungere un accordo sulla
risoluzione della medesima con l’assistenza di un mediatore», in ordine alle
modalità stabilisce che «Tale procedimento può essere avviato dalle parti,
suggerito od ordinato da un organo giurisdizionale o prescritto dal diritto di
uno Stato membro».
Infine, l’art.
5, comma 2, dispone che «La presente direttiva lascia impregiudicata la
legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure
soggetto a incentivi o sanzioni, sia prima che dopo l’inizio del procedimento
giudiziario, purché tale legislazione non impedisca alle parti di esercitare il
diritto di accesso al sistema giudiziario».
Merita, poi, di
essere menzionata la Risoluzione del Parlamento europeo in data 25 ottobre 2011
(2011/2117-INI) sui metodi alternativi di soluzione delle controversie in
materia civile, commerciale e familiare, ancorché priva di efficacia
vincolante.
Essa considera,
tra l’altro, che una soluzione alternativa delle controversie (Alternative
Dispute Resolution – ADR), che consenta alle parti di evitare le tradizionali
procedure arbitrali, può costituire un’alternativa rapida ed economica ai
contenziosi; e, al paragrafo 10, afferma che «al fine di non pregiudicare
l’accesso alla giustizia, si oppone a qualsiasi imposizione generalizzata di un
sistema obbligatorio di ADR a livello di UE, ma ritiene che si potrebbe
valutare un meccanismo obbligatorio per la presentazione dei reclami delle
parti al fine di esaminare le possibilità di ADR». Al paragrafo 31, sesto capoverso,
aggiunge (tra l’altro) che l’ADR deve avere un carattere facoltativo, fondato
sul rispetto della libera scelta delle parti durante l’intero arco del
processo, che lasci loro la possibilità di risolvere in qualsiasi istante la
controversia dinanzi ad un tribunale, e che esso non deve essere in alcun caso
una prima tappa obbligatoria preliminare all’azione in giudizio.
Da ultimo, va
ricordata, nei limiti in precedenza esposti, la risoluzione del Parlamento
europeo del 13 settembre 2011 (2011/2026-INI), relativa all’attuazione della
direttiva sulla mediazione negli Stati membri, impatto della stessa sulla
mediazione e sua adozione da parte dei tribunali. Tale risoluzione, nel passare
in rassegna le modalità con cui alcuni degli Stati membri hanno attuato la
direttiva citata, osserva nel paragrafo 10 che «nel sistema giuridico italiano
la mediazione obbligatoria sembra raggiungere l’obiettivo di diminuire la
congestione nei tribunali; ciononostante sottolinea che la mediazione dovrebbe
essere promossa come una forma di giustizia alternativa praticabile, a basso
costo e più rapida, piuttosto che come un elemento obbligatorio della procedura
giudiziaria».
Per completare
il quadro, è da considerare, nei limiti di seguito precisati, la sentenza della
Corte di giustizia dell’Unione europea in data 18 marzo 2010, Sezione quarta,
pronunciata nelle cause riunite C-317/08, C-318/08, C-319/08, C-320/08.
Con tale
pronuncia la Corte ha affermato i seguenti principi: a) l’art. 34 della
direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 7 marzo 2002, n. 2002/22/CE,
relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e
di servizi di comunicazione elettronica (direttiva servizio universale) deve
essere interpretato nel senso che esso non osta ad una normativa di uno Stato
membro in forza della quale le controversie in materia di servizi di
comunicazione elettronica tra utenti finali e fornitori di tali servizi, che
riguardano diritti conferiti da tale direttiva, devono formare oggetto di un
tentativo obbligatorio di conciliazione extragiudiziale come condizione per la
ricevibilità dei ricorsi giurisdizionali; b) neanche i principi di equivalenza
e di effettività, nonché il principio della tutela giurisdizionale effettiva,
ostano ad una normativa nazionale che impone per siffatte controversie il
previo esperimento di una procedura di conciliazione extragiudiziale, a condizione
che tale procedura non conduca ad una decisione vincolante per le parti, non
comporti un ritardo sostanziale per la proposizione di un ricorso
giurisdizionale, sospenda la prescrizione dei diritti in questione e non generi
costi, ovvero questi non siano ingenti per le parti, e purché la via
elettronica non costituisca l’unica modalità di accesso a detta procedura di
conciliazione e sia possibile disporre provvedimenti provvisori nei casi
eccezionali in cui l’urgenza della situazione lo imponga.
Nella motivazione
della pronuncia si legge (punto 65) che, da un lato, non esiste un’alternativa
meno vincolante alla predisposizione di una procedura obbligatoria, dato che
l’introduzione di una procedura di risoluzione extragiudiziale meramente
facoltativa non costituisce uno strumento altrettanto efficace per la
realizzazione di detti obiettivi; dall’altro, non sussiste una sproporzione
manifesta tra tali obiettivi e gli eventuali inconvenienti causati dal
carattere obbligatorio della procedura di conciliazione extragiudiziale.
12.2.— Come
emerge dalla ricognizione che precede, dai richiamati atti dell’Unione europea
non si desume alcuna esplicita o implicita opzione a favore del carattere
obbligatorio dell’istituto della mediazione. Fermo il favor dimostrato verso
detto istituto, in quanto ritenuto idoneo a fornire una risoluzione
extragiudiziale conveniente e rapida delle controversie in materia civile e
commerciale, il diritto dell’Unione disciplina le modalità con le quali il
procedimento può essere strutturato («può essere avviato dalle parti, suggerito
od ordinato da un organo giurisdizionale o prescritto dal diritto di uno Stato
membro», ai sensi dell’art. 3, lettera a, della direttiva 2008/52/CE del 21
maggio 2008), ma non impone e nemmeno consiglia l’adozione del modello
obbligatorio, limitandosi a stabilire che resta impregiudicata la legislazione
nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio (art. 5, comma 2,
della direttiva citata).
Allo stesso
principio, come risulta dal dispositivo, s’ispira la sentenza della Corte di
giustizia richiamata nel paragrafo che precede. Vero è che, in un passaggio
argomentativo (punto 65 della motivazione) la Corte considera inesistente una
alternativa meno vincolante alla predisposizione di una procedura obbligatoria,
perché l’introduzione di una procedura di risoluzione extragiudiziale meramente
facoltativa non costituirebbe uno strumento altrettanto efficace per la
realizzazione degli obiettivi perseguiti. Ma tale rilievo non può costituire un
precedente, sia perché si tratta di un obiter dictum, sia perché la sentenza
citata interviene su una procedura conciliativa concernente un tipo ben
circoscritto di controversie (quelle in materia di servizi di comunicazioni
elettroniche tra utenti finali e fornitori di tali servizi), là dove la
mediazione di cui qui si discute riguarda un rilevante numero di vertenze, che
rende non comparabili le due procedure anche per le differenze strutturali che
le caratterizzano.
Pertanto, la
disciplina dell’UE si rivela neutrale in ordine alla scelta del modello di
mediazione da adottare, la quale resta demandata ai singoli Stati membri,
purché sia garantito il diritto di adire i giudici competenti per la
definizione giudiziaria delle controversie.
Ne deriva che
l’opzione a favore del modello di mediazione obbligatoria, operata dalla
normativa censurata, non può trovare fondamento nella citata disciplina.
Infatti, una
volta raggiunta tale conclusione, si deve per conseguenza escludere che il
contenuto della legge delega, richiamando la direttiva comunitaria, possa
essere interpretato come scelta a favore del modello di mediazione
obbligatoria.
13.— Si deve ora
procedere all’interpretazione della legge delega (art. 60 della legge n. 69 del
2009), al fine di verificare il rispetto dei principi da essa posti in sede di
emanazione del d.lgs. n. 28 del 2010 e, in particolare, delle disposizioni
oggetto di censure.
Orbene, la detta
legge delega, tra i principi e criteri direttivi di cui all’art. 60, comma 3,
non esplicita in alcun modo la previsione del carattere obbligatorio della
mediazione finalizzata alla conciliazione. Sul punto l’art. 60 della legge n.
69 del 2009, che per altri aspetti dell’istituto si rivela abbastanza
dettagliato, risulta del tutto silente. Eppure, non si può certo ritenere che
l’omissione riguardi un aspetto secondario o marginale. Al contrario, la scelta
del modello di mediazione costituisce un profilo centrale nella disciplina
dell’istituto, come risulta sia dall’ampio dibattito dottrinale svoltosi in
proposito, sia dai lavori parlamentari durante i quali il tema
dell’obbligatorietà o meno della mediazione fu più volte discusso.
Non si potrebbe
ritenere che il carattere obbligatorio sia implicitamente desumibile dall’art.
60 citato, comma 3, lettera a). Tale disposizione, nel prevedere che la
mediazione abbia per oggetto controversie su diritti disponibili, aggiunge la
frase «senza precludere l’accesso alla giustizia». Si tratta, però, di
un’affermazione di carattere generale, non a caso collocata in apertura dell’elenco
dei principi e criteri direttivi e non necessariamente collegabile alla scelta
di un determinato modello procedurale, tanto più che nella norma di delega non
mancano spunti ben più espliciti che orientano l’interprete in senso contrario
rispetto alla volontà del legislatore delegante di introdurre una procedura a
carattere obbligatorio.
In particolare:
l’art. 60, comma 3, lettera c), dispone che la mediazione sia disciplinata
«anche attraverso l’estensione delle disposizioni di cui al decreto legislativo
17 gennaio 2003, n. 5», recante la definizione dei procedimenti in materia di
diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria
e creditizia. Gli articoli da 38 a 40 di tale decreto (poi abrogati dall’art.
23, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010) prevedevano un procedimento di
conciliazione stragiudiziale nel quale il ricorso alla mediazione trovava la
propria fonte in un accordo tra le parti (contratto o statuto). Il modulo
richiamato dal legislatore delegante era, dunque, di fonte volontaria, il che
non si concilia (pur volendo considerare quel richiamo come non vincolante) con
un’opzione a favore della mediazione obbligatoria.
Ancora, merita
di essere menzionato il disposto dell’art. 60, comma 3, lettera n), della norma
di delega, alla stregua del quale nell’esercizio della delega stessa il Governo
doveva attenersi (tra gli altri) al principio di «prevedere il dovere
dell’avvocato di informare il cliente, prima dell’instaurazione del giudizio,
della possibilità di avvalersi dell’istituto della conciliazione nonché di
ricorrere agli organismi di conciliazione». Orbene, «possibilità» di avvalersi
significa, evidentemente, facoltà, e non obbligo, di avvalersi («è tenuto
preliminarmente»), cui invece fa riferimento l’art. 5, comma 1, del decreto
delegato. Il che si evince con chiarezza dall’art. 4, comma 3, di quest’ultimo.
La disposizione
così stabilisce: «All’atto del conferimento dell’incarico, l’avvocato è tenuto
ad informare l’assistito della possibilità di avvalersi del procedimento di
mediazione disciplinato dal presente decreto e delle agevolazioni fiscali di
cui agli articoli 17 e 20»; poi, così prosegue: «L’avvocato informa altresì
l’assistito dei casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è
condizione di procedibilità della domanda giudiziale». Com’è palese, si tratta
di due disposizioni distinte, la prima riferibile alla mediazione facoltativa,
la seconda alla mediazione obbligatoria e perciò costituente condizione di
procedibilità della domanda. Tuttavia, soltanto il primo modello trova la
necessaria copertura nella norma di delega. Il secondo compare nel decreto
delegato, ma è privo di ancoraggio nella norma suddetta.
Il denunciato
eccesso di delega, dunque, sussiste, in relazione al carattere obbligatorio
dell’istituto di conciliazione e alla conseguente strutturazione della relativa
procedura come condizione di procedibilità della domanda giudiziale nelle
controversie di cui all’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010.
Tale vizio non
potrebbe essere superato considerando la norma introdotta dal legislatore
delegato come un coerente sviluppo e completamento delle scelte espresse dal
delegante, perché – come sopra messo in rilievo – in realtà con il censurato
art. 5, comma 1, si è posto in essere un istituto (la mediazione obbligatoria
in relazione alle controversie nella norma stessa elencate) che non soltanto è
privo di riferimenti ai principi e criteri della delega ma, almeno in due
punti, contrasta con la concezione della mediazione come imposta dalla normativa
delegata.
Né giova il
richiamo alla sentenza di questa Corte n. 276 del 2000.
Invero, con
quella pronuncia fu dichiarata (tra l’altro) non fondata la questione di
legittimità costituzionale degli artt. 410, 410-bis e 412-bis cod. proc. civ.,
come modificati, aggiunti o sostituiti dagli artt. 36, 37 e 39 del decreto
legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di
organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di
giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa,
emanate in attuazione dell’art. 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59),
e dall’art. 19 del decreto legislativo 29 ottobre 1998, n. 387 (Ulteriori
disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 3 febbraio 1993,
n. 29, e successive modificazioni, e del decreto legislativo 31 marzo 1998, n.
80).
La Corte
pervenne a tale decisione escludendo (tra l’altro) che le norme censurate
fossero viziate da eccesso di delega. A tal fine, essa, prendendo le mosse dalla
complessa riforma che aveva realizzato il passaggio dalla giurisdizione
amministrativa a quella ordinaria delle controversie sul rapporto di impiego
«privatizzato» con le pubbliche amministrazioni, sottolineò che la messa a
punto di strumenti idonei ad agevolare la composizione stragiudiziale delle
controversie, per limitare il ricorso al giudice ordinario alle sole ipotesi di
inutile sperimentazione del tentativo di conciliazione, appariva un momento
essenziale per la riuscita della riforma. Pose l’accento sul criterio direttivo
di cui all’art. 11, comma 4, lettera g), della legge 15 marzo 1997, n. 59
(Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle Regioni ed
enti locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la semplificazione
amministrativa), rimarcando che detta norma, nel devolvere al giudice ordinario
tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle
pubbliche amministrazioni, prevedeva l’introduzione di «misure organizzative e
processuali anche di carattere generale, atte a prevenire disfunzioni relative
al sovraccarico del contenzioso», nonché di «procedure stragiudiziali di
conciliazione e arbitrato». Dopo avere ricostruito l’oggetto della delega,
osservò che «la lettera della delega del 1997 – riferendosi a “procedure
stragiudiziali di conciliazione e arbitrato” – non menziona il predicato
dell’obbligatorietà. Ma è anche vero che, quando la delega venne conferita,
l’articolo 410 del codice di procedura civile, nel testo allora vigente, già contemplava
un tentativo facoltativo di conciliazione per le controversie ex art. 409,
mentre l’art. 69 del decreto legislativo n. 29 del 1993 prevedeva – come si è
detto – un tentativo obbligatorio di conciliazione per le controversie di
pubblico impiego privatizzato. In siffatto contesto deve escludersi che la
delega si limitasse ad attribuire al legislatore delegato il potere di regolare
diversamente le mere modalità organizzative del tentativo di conciliazione
esistente, senza consentire (per le controversie ex art. 409 del codice di
procedura civile) l’introduzione dell’obbligatorietà».
Come si vede, la
sentenza n. 276 del 2000, per giungere alla conclusione secondo cui
«L’introduzione del tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie
ex art. 409 del codice di procedura civile ha dunque rispettato la delega»
(punto 2.5. quarto capoverso, del Considerato in diritto), fece leva sia sul
contesto della riforma attuata, senza dubbio di ampio respiro ma circoscritta
alle controversie nel settore del diritto del lavoro, sia sulla presenza in
tale settore di un tentativo facoltativo di conciliazione per le controversie
ai sensi dell’art. 409 cod. proc. civ., e di un tentativo obbligatorio di
conciliazione per le controversie di pubblico impiego privatizzato. Pertanto la
previsione dell’obbligatorietà, nel quadro delle «misure organizzative e
processuali anche di carattere generale atte a prevenire disfunzioni dovute al
sovraccarico del contenzioso» (art. 11, comma 4, lettera g, della citata norma
di delega) non appariva come un novum avulso da questa, ma costituiva piuttosto
il coerente sviluppo di un principio già presente nello specifico settore.
La fattispecie
qui in esame è, invece, diversa: a parte la differenza di contesto, essa
delinea un istituto a carattere generale, destinato ad operare per un numero
consistente di controversie, in relazione alle quali, però, alla stregua delle
considerazioni sopra svolte, il carattere dell’obbligatorietà per la mediazione
non trova alcun ancoraggio nella legge delega.
Né varrebbe
addurre che l’ordinamento conosce varie procedure obbligatorie di
conciliazione, trattandosi di procedimenti specifici, per singoli settori, in
relazione ai quali nessun rapporto di derivazione è configurabile in
riferimento all’istituto in esame.
Infine, quanto
alla finalità ispiratrice del detto istituto, consistente nell’esigenza di
individuare misure alternative per la definizione delle controversie civili e
commerciali, anche al fine di ridurre il contenzioso gravante sui giudici professionali,
va rilevato che il carattere obbligatorio della mediazione non è intrinseco
alla sua ratio, come agevolmente si desume dalla previsione di altri moduli
procedimentali (facoltativi o disposti su invito del giudice), del pari
ritenuti idonei a perseguire effetti deflattivi e quindi volti a semplificare e
migliorare l’accesso alla giustizia.
In definitiva,
alla stregua delle considerazioni fin qui esposte, deve essere dichiarata
l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del d.lgs. n. 28 del 2010,
per violazione degli artt. 76 e 77 Cost. La declaratoria deve essere estesa
all’intero comma 1, perché gli ultimi tre periodi sono strettamente collegati a
quelli precedenti (oggetto delle censure), sicché resterebbero privi di
significato a seguito della caducazione di questi.
Ai sensi
dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, e quindi in via consequenziale
alla decisione adottata, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale:
a) dell’art. 4, comma 3, del decreto legislativo n. 28 del 2010, limitatamente
al secondo periodo («L’avvocato informa altresì l’assistito dei casi in cui
l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità
della domanda giudiziale») e al sesto periodo, limitatamente alla frase «se non
provvede ai sensi dell’articolo 5, comma 1»; b) dell’art. 5, comma 2, primo
periodo, del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «Fermo quanto
previsto dal comma 1 e», c) dell’art. 5, comma 4, del detto decreto
legislativo, limitatamente alle parole «I commi 1 e» ; d) dell’art. 5, comma 5,
del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «Fermo quanto previsto
dal comma 1 e»; e) dell’art. 6, comma 2, del detto decreto legislativo,
limitatamente alla frase «e, anche nei casi in cui il giudice dispone il rinvio
della causa ai sensi del quarto o del quinto periodo del comma 1 dell’articolo
cinque,»; f) dell’art. 7 del detto decreto legislativo, limitatamente alla
frase «e il periodo del rinvio disposto dal giudice ai sensi dell’art. 5, comma
1»; g) dello stesso articolo 7 nella parte in cui usa il verbo «computano»,
anziché «computa»; h) dell’art. 8, comma 5, del detto decreto legislativo; i)
dell’art. 11, comma 1, del detto decreto legislativo, limitatamente al periodo
«Prima della formulazione della proposta, il mediatore informa le parti delle
possibili conseguenze di cui all’art. 13»; l) dell’intero art. 13 del detto
decreto legislativo, escluso il periodo «resta ferma l’applicabilità degli
articoli 92 e 96 del codice di procedura civile»; m) dell’art. 17, comma 4,
lettera d), del detto decreto legislativo; n) dell’art. 17, comma 5, del detto
decreto legislativo; o) dell’art. 24 del detto decreto legislativo.
14.— Ogni altro
profilo resta assorbito.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi;
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n.
28 (Attuazione dell’articolo 60
della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla
conciliazione delle controversie civili e commerciali);
2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11
marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte
costituzionale), l’illegittimità costituzionale: a) dell’art. 4, comma 3, del decreto legislativo n. 28 del 2010,
limitatamente al secondo periodo («L’avvocato informa altresì l’assistito dei
casi in cui l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di
procedibilità della domanda giudiziale») e al sesto periodo, limitatamente alla
frase «se non provvede ai sensi dell’articolo 5, comma 1»; b) dell’art. 5,
comma 2, primo periodo, del detto decreto legislativo, limitatamente alle
parole «Fermo quanto previsto dal comma 1 e», c) dell’art. 5, comma 4, del
detto decreto legislativo, limitatamente alle parole «I commi 1 e»; d)
dell’art. 5, comma 5 del detto decreto legislativo, limitatamente alle parole
«Fermo quanto previsto dal comma 1 e»; e) dell’art. 6, comma 2, del detto
decreto legislativo, limitatamente alla frase «e, anche nei casi in cui il
giudice dispone il rinvio della causa ai sensi del quarto o del quinto periodo
del comma 1 dell’articolo cinque,»; f) dell’art. 7 del detto decreto
legislativo, limitatamente alla frase «e il periodo del rinvio disposto dal
giudice ai sensi dell’art. 5, comma 1»; g) dello stesso articolo 7 nella parte
in cui usa il verbo «computano» anziché «computa»; h) dell’art. 8, comma 5, del
detto decreto legislativo; i) dell’art. 11, comma 1, del detto decreto
legislativo, limitatamente al periodo «Prima della formulazione della proposta,
il mediatore informa le parti delle possibili conseguenze di cui all’art. 13»;
l) dell’intero art. 13 del detto decreto legislativo, escluso il periodo «resta
ferma l’applicabilità degli articoli 92 e 96 del codice di procedura civile»;
m) dell’art. 17, comma 4, lettera d), del detto decreto legislativo; n)
dell’art. 17, comma 5, del detto decreto legislativo; o), dell’art. 24 del
detto decreto legislativo;
3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 5 del decreto
legislativo n. 28 del 2010 e
dell’art. 16 del decreto ministeriale adottato dal Ministro della giustizia, di
concerto col Ministro dello sviluppo economico, in data 18 ottobre 2010, n.
180, come modificato dal decreto ministeriale 6 luglio 2011, n. 145
(Regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità di
iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco
dei formatori per la mediazione, nonché l’approvazione delle indennità
spettanti agli organismi, ai sensi dell’articolo 16 del decreto legislativo 4
marzo 2010, n. 28), «da soli ed anche in combinato disposto», sollevata dal
Giudice di pace di Recco, in riferimento agli articoli 3, 24 e 111 Cost., con l’ordinanza
indicata in epigrafe.
Così deciso in
Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24
ottobre 2012.
F.to:
Alfonso
QUARANTA, Presidente
Alessandro
CRISCUOLO, Redattore
Gabriella
MELATTI, Cancelliere
Depositata in
Cancelleria il 6 dicembre 2012.
Allegato:
ordinanza letta
all’udienza del 23 ottobre 2012