=> Tribunale di Civitavecchia, 24 maggio 2021
È destituita di fondamento l’eccezione di improcedibilità della domanda per
tardiva attivazione del procedimento di mediazione obbligatoria disposto dal
giudice, ai sensi dell'art.
5, comma 2, d.lgs. n. 28 del 2010, atteso che il termine di quindici
giorni assegnato è da ritenersi ordinatorio e non perentorio, e la sanzione
della improcedibilità della domanda giudiziale non può essere pronunciata se,
pur essendo la mediazione stata iniziata in ritardo, il procedimento è
comunque stato avviato e concluso entro l'udienza di rinvio ed il mancato
rispetto del termine non ha quindi inciso sulla effettuazione del tentativo di
mediazione e sull'avveramento della condizione di procedibilità (I).
(I) Si veda l’art. 5, comma 2, D.lgs. 4 marzo 2010 n. 28 (Osservatorio Mediazione Civile n. 38/2018).
Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 5/2022(www.osservatoriomediazionecivile.blogspot.com)
Omissis
Osserva preliminarmente il Tribunale che è destituita di fondamento l’eccezione
di improcedibilità della domanda avanzata dai convenuti con la memoria ex art.
183 sesto comma n. 1 c.p.c. per tardiva attivazione del procedimento di
mediazione obbligatoria disposto dal giudice, ai sensi dell'art. 5,2°. comma,
D.Lgs. n. 28 del 2010, atteso che il termine di quindici giorni assegnato è da
ritenersi ordinatorio e non perentorio, e la sanzione della improcedibilità
della domanda giudiziale non può essere pronunciata se, pur essendo la
mediazione stata iniziata in ritardo, il procedimento è comunque stato avviato
e concluso entro l'udienza di rinvio ed il mancato rispetto del termine non ha
quindi inciso sulla effettuazione del tentativo di mediazione e sull'avveramento
della condizione di procedibilità.
Rileva ancora preliminarmente lo scrivente magistrato che l’attuale
disponibilità, in capo ai convenuti, della consistenza immobiliare per cui è
lite – come innanzi individuata– non è oggetto di contestazione tra le parti e
può pertanto ritenersi circostanza pacifica e provata [art. 115 c.p.c.].
Ciò premesso, osserva il Tribunale che la domanda giudiziale – da
qualificarsi come azione di rivendicazione ai sensi dell’art. 948 c.c.– è
infondata e deve essere rigettata, per i motivi di seguito precisati [sulla
qualificazione della domanda, che rientra nei compiti propri del giudice del
merito, il quale è chiamato ad accertarne la portata non solo sulla base della
sua formulazione letterale, ma, soprattutto, del suo contenuto sostanziale, in
relazione alle finalità perseguite dalla parte ed al provvedimento richiesto in
concreto, desumibile dalla situazione dedotta in causa e delle eventuali
precisazioni formulate nel corso del giudizio, cfr. Cass. 3879/1987 e Cass.
S.U. 27/2000; quanto alla individuazione in concreto del “perimetro” dell’azione
reale di rivendicazione, cfr. il principio espresso in Cass. S.U. 7305/2014].
Nel caso di specie, valutata la qualificazione giuridica della domanda
nei termini anzidetti e, considerata altresì la specifica contestazione sul
punto svolta dai conventi che non consente una attenuazione del rigore
probatorio [“il rigore della regola secondo cui chi agisce in rivendicazione
deve provare la sussistenza del proprio diritto di proprietà o di altro diritto
reale sul bene anche attraverso i propri danti causa, fino a risalire ad un
acquisto a titolo originario o dimostrando il compimento dell’usucapione, non
riceve attenuazione per il fatto che la controparte proponga domanda
riconvenzionale ovvero eccezione di usucapione, in quanto chi è convenuto nel
giudizio di rivendicazione non ha l’onere di fornire alcuna prova, potendo
avvalersi del principio “possideo quia possideo”, anche nel caso in cui opponga
un proprio diritto di dominio sulla cosa rivendicata, dal momento che tale
difesa non implica alcuna rinuncia alla più vantaggiosa posizione di
possessore”. Cfr. Cass, Sez. III, ordinanza n. 14734 del 7 giugno 2018], per l’accoglimento
della domanda giudiziale è necessaria la "probatio diabolica" della
titolarità del diritto di chi agisce ovvero è necessario che la parte attrice
dimostri la proprietà risalendo, anche attraverso i propri danti causa, fino
all’acquisto a titolo originario, ovvero dimostrando il compimento
dell'usucapione.
L’odierno attore non ha né allegato né dimostrato [art. 2697, c. I,
c.c., art. 112 c.p.c.] il compimento, in suo favore, dell’usucapione [né con
riferimento al disposto di cui all’art. 1158 c.c. né avuto riguardo ai
presupposti della fattispecie di cui all’art. 1159 c.c.].
Il titolo prodotto in atti, secondo la prospettazione attorea idoneo a
fornire la prova della proprietà del bene oggetto di lite, è un atto di
divisione recante rep.
26259 racc. 14364 del 1988 che ha diviso tra i figli di omissis i beni di proprietà materna
caduti in successione.
Ebbene, da un lato deve rilevarsi che detto atto non è idoneo a fornire
la prova della titolarità del bene cui si riferisce [cfr. Cass. civ. Sez. II
Sent., 10/03/2015, n. 4730 secondo cui “l'atto di divisione, in ragione della
sua natura meramente dichiarativa, non è idoneo a fornire la prova della
titolarità del bene nei confronti dei terzi, mentre assume rilevanza probatoria
nella controversia sulla proprietà tra i condividenti o i loro aventi causa,
giacché la divisione, accertando i diritti delle parti sul presupposto di una
comunione di beni indivisi, postula necessariamente il riconoscimento
dell'appartenenza delle cose in comunione”] e quand’anche si volesse ritenerlo
idoneo a fornire la prova del titolo di proprietà, detto atto non attribuisce
all’attore il compendio oggetto di causa situato al mappale omissis foglio omissis [art. 5 atto di divisione individua i beni assegnati al omissis] bensì alla sorella omissis [art. 2 del predetto atto].
Dalla documentazione prodotta dalla parte istante, quindi, emerge che l’attore
non è proprietario della consistenza immobiliare per cui è lite né in via
esclusiva né tantomeno pro quota, la domanda ex art. 948 c.c. è quindi
infondata e deve essere rigettata.
Altrettanto infondata è la domanda riconvenzionale svolta dai
convenuta, atteso che non risulta maturato il possesso ventennale del compendio
oggetto di lite, poiché i coniugi Se. Be. hanno acquistato l’immobile sito omissis, nel cui cortile antistante si
trova la porzione di terreno controversa e qualificata come bene comune non
censibile, soltanto in data 16.6.1995, pertanto solo da allora può in via
astratta ritenersi esercitato un possesso utile ai fini del perfezionarsi dell’usucapione.
Come è noto, per giurisprudenza costante, per poter usucapire un bene
comune, il possesso deve essere incompatibile con quello degli altri compossessori:
per i beni in "compossesso", infatti, ai fini dell'usucapione,
l'utilizzo esclusivo della cosa comune da parte del singolo compossessore non
risulta sufficiente, essendo necessaria invece la dimostrazione concreta del
possesso esclusivo sul bene comune, apertamente antitetico e chiaramente
incompatibile con il possesso altrui, e l'onere della prova grava su colui il
quale invoca l'avvenuta usucapione del bene comune (v., tra le altre, Cass.
civ. n. 16414/17).
Nel caso di specie i convenuti non hanno fornito la prova del possesso
ultraventennale esclusivo del compendio oggetto di causa. Invero la
disponibilità che i medesimi avevano della porzione di terreno oggetto del
presente giudizio, anche a voler ritenere come dedotto dai convenuti che la recinzione
dell’area era avvenuta in data antecedente al 1995, non integrava il possesso
rilevante ai fini dell’usucapione, atteso che per stessa ammissione dei coniugi
Se.-Be. il rapporto di fatto tra i medesimi e il bene si era instaurato in
virtù di contratto di locazione e pertanto era qualificabile come mera
detenzione [cfr. Cass. 5551/2005 secondo cui “La presunzione di possesso utile
"ad usucapionem" di cui all'art. 1141 cod. civ. non opera quando la
relazione con la cosa consegua non ad un atto volontario d'apprensione, ma ad
un atto o ad un fatto del proprietario - possessore, poiché l'attività del
soggetto che dispone della cosa (configurabile come semplice detenzione o
precario) non corrisponde all'esercizio di un diritto reale, non essendo svolta
in opposizione al proprietario. In tal caso la detenzione non qualificata di un
bene immobile può mutare in possesso solamente all'esito di un atto
d'interversione idoneo ad escludere che il persistente godimento sia fondato
sul consenso, sia pure implicito, del proprietario concedente”].
Solo successivamente al 16.06.1995, momento in cui gli odierni
convenuti sono divenuti proprietari dell’immobile condotto in locazione, può
dirsi che i medesimi hanno iniziato ad esercitare l’animus possidendi, ma non risulta
ancora maturato il possesso utile ai fini dell’usucapione, risultando il
presente giudizio introdotto nel maggio del 2015. Anche la domanda
riconvenzionale deve quindi essere rigettata.
La soccombenza reciproca giustifica l’integrale compensazione, tra le parti, delle spese di lite, sussistendo, nel caso di specie, il requisito della cd. “reciproca soccombenza”, ai sensi dell’art. 92, c. II, c.p.c.
PQM
Il Tribunale, definitivamente pronunciando nella causa civile in primo
grado omissis, disattesa ogni
contraria istanza, deduzione ed eccezione, così decide: rigetta la domanda
attorea; rigetta la domanda riconvenzionale; ordina al Conservatore dei
Registri Immobiliari territorialmente competente di procedere alla
cancellazione della trascrizione della domanda giudiziale e della domanda
riconvenzionale, ove risultino eseguite, con esonero da ogni responsabilità al
riguardo, a cura e spese della parte interessata; spese compensate.
AVVISO. Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità.