PROFESSIONISTI
COMPETENTI ED EFFICACI
RICONOSCERE I BIAS NEGOZIALI
PER GESTIRLI CON
SUCCESSO
di
Avv. Arianna Chiara
Bressan
Avv. Elena
Lobaccaro
Dott. Salvatore
Pappalardo
La realtà nella
quale viviamo, professionale e non, diventa giorno dopo giorno sempre più
complessa e fluida, caratterizzata da scenari mutevoli, instabili e
imprevedibili. In questo contesto, le competenze del mediatore/negoziatore
(quali osservare senza giudizio,
ascoltare attivamente, sentire con empatia o pensare in modo “laterale”) -
rappresentano verosimilmente le risorse più adatte alla gestione della
complessità ed acquistano un valore sempre maggiore e trasversale.
Lo “spazio
della mediazione” (Cosi e Foddai, 2003) sembra essere infatti la dimensione più
affine a questa realtà c.d. VUCA[1], in
virtù della sua natura mutevole, imprevedibile e costantemente negoziata,
propria delle relazioni e dei conflitti[2]. Del
resto, la negoziazione scandisce ogni istante della nostra vita: negoziamo in
ufficio, a casa con il nostro partner, in fila al supermercato, in metro e,
soprattutto, negoziamo con noi stessi a proposito di chi siamo e di quale senso
vogliamo dare alla nostra vita.
Sviluppare le
competenze del mediatore, acquisendo una maggiore capacità nell’essere
flessibili, creativi e orientati all’altro, rappresenta allora un aspetto
fondamentale per la propria crescita personale e professionale. Ma come fare a
sviluppare queste competenze?
Al di là dei
numerosi strumenti offerti dalla letteratura sul tema, riteniamo che l'elemento
cruciale da cui partire sia lo sviluppo
di auto-consapevolezza, da intendersi qui come capacità di riconoscere
oltre alle dinamiche esterne che agiscono in un conflitto, anche quelle interne
alle parti e ai mediatori/negoziatori (es. automatismi, stereotipi e
distorsioni cognitive), le quali impattano sull’abilità negoziale. Abbiamo
esplorato questo tema attraverso dei laboratori progettati e condotti per
l'associazione Enne.Zero, dove ci
siamo focalizzati sulla dimensione neuro-psicologica del conflitto per
osservare ciò che ci accade quando negoziamo, con uno sguardo più consapevole
ed esperto.
Riportiamo in questo
articolo la nostra esperienza come conduttori e ideatori di due workshop
dedicati al riconoscimento delle distorsioni cognitive (i c.d. bias) e alla loro gestione (debiasing); dopo aver introdotto il tema
delle distorsioni cognitive che impattano in negoziazione attraverso una overview della letteratura scientifica
sul tema, descriviamo cosa è accaduto all’interno dell’aula, per dare maggiore
evidenza delle dinamiche interne che agiscono all’interno del processo
negoziale.
I BIAS DELLA NEGOZIAZIONE
_______________________________________________
1.578.924.889.710.015.781
è pari o dispari? E 345? Che si tratti di numeri a dodici o a tre cifre, siamo
sempre in grado di dare una risposta: è sufficiente verificare se sia pari o
dispari l'ultima cifra, ovvero ricorriamo ad una “scorciatoia mentale” per
semplificare la ricerca di una risposta. Non sempre però queste scorciatoie
funzionano. Ad esempio, è più a est Venezia o Palermo? Per quanto
controintuitivo, ad essere più a est è proprio il capoluogo siciliano.
In psicologia delle decisioni questo modo di
ragionare per “scorciatoie” viene definito ragionamento
euristico: esso è economico, intuitivo e rapido, legato alla “pancia” e
alle nostre idiosincrasie, alternativo al pensiero logico-razionale, certamente
più preciso, ma lento ed energeticamente dispendioso.
Quando
ricorriamo al ragionamento euristico (re)agiamo attingendo a un repertorio di
schemi interpretativi e comportamentali presenti in memoria o radicati nel
profondo del nostro sistema sub-corticale. Ci comportiamo insomma come se
disponessimo di un pilota automatico che interviene quando non abbiamo
sufficiente tempo, lucidità per riflettere o per semplice abitudine.
Questi automatismi, così come i comportamenti
più impulsivi ed istintivi, si sono rivelati risorse davvero preziose per l’evoluzione
umana: i nostri antenati non avevano certo il tempo necessario per riflettere
se la forma intravista fosse un pericoloso predatore affamato o un cespuglio di
bacche; dovevano decidere in fretta, nel modo più soddisfacente e sicuro
possibile.
Ancora oggi manteniamo le stesse modalità
apprese nel corso dell’evoluzione: che si tratti di investire in borsa, votare
un partito politico o esprimersi su questioni più o meno complesse come
l'immigrazione o le coppie di fatto, ci facciamo guidare dalle nostre emozioni
e dalle nostre sensazioni più di quanto siamo disposti ad ammettere. Prendiamo
decisioni secondo un principio di affidabilità:
nella stragrande maggior parte dei casi non disponiamo che di una visione
parziale del problema e delle possibili soluzioni, per cui ci affidiamo alle nostre sensazioni, ai nostri arbitrari punti di riferimento,
a quello che sentiamo in giro o a quello che ci è stato insegnato da bambini.
È una forma di
“risparmio energetico”: preferiamo porre attenzione solo agli aspetti per noi salienti, cioè che più ci cattura
facendoci isolare il problema dal contesto globale (c.d. pensiero ristretto e c.d. principio
di segregazione). Per non pensare troppo accettiamo ogni questione così
come ci viene proposta purché sia formulata in termini ragionevoli (c.d. acquiescenza). Ma soprattutto ci
innamoriamo delle nostre idee e delle nostre intuizioni iniziali e siamo
estremamente riluttanti ad abbandonarle, per paura di rimpiangerle (c.d. regret).
Quando le decisioni che prendiamo si rivelano
efficaci o particolarmente salienti il nostro cervello le archivia in memoria e
le generalizza, attivando il medesimo comportamento quando incontra stimoli
simili a quelli originari. Ecco il motivo per cui un qualsiasi gesto o un tono
di voce possono provocare atteggiamenti difensivi e ostili in ragione dei mille
litigi precedenti, di pregiudizi infondati o di aspettative arbitrarie, in un
infinito rincorrersi di “madeleine”
di proustiana memoria, che costantemente evocano in noi ricordi del passato e
soluzioni già messe in campo.
Insomma, per
quanto ci piaccia considerarci esseri razionali, tendiamo a sottovalutare
quanto sia potente e invasivo il pensiero intuitivo e il ruolo che giocano
aspettative ed emozioni nelle nostre decisioni. Il rischio è quello di restare
chiusi nel nostro vissuto, soggettivo e contingente, incapaci di aprirci con
obiettività alla realtà che ci circonda.
Nel conflitto e
ancor più in negoziazione[3], la
reazione impulsiva e “di pancia” può esacerbare i rapporti, veicolando una
visione distorta, monofocale, egoriferita e stereotipata dell’altro, di cui le
parti raramente sono consapevoli, limitando le possibilità di giungere ad una
soluzione più soddisfacente per entrambe.
Gli effetti
distorsori del ragionamento euristico (comportamenti irrazionali o
interpretazioni parziali della realtà) sono denominati bias; imparare a riconoscerli quando agiscono sulle nostre scelte è
fondamentale per acquisire una competenza efficace in negoziazione. Di seguito
riportiamo un breve elenco dei bias
in negoziazione, suddividendoli per tipologia: cognitivi, relazionali e motivazionali.
I BIAS
COGNITIVI
I bias cognitivi agiscono sul modo con cui
elaboriamo le informazioni. Quando prendiamo una decisione attiviamo
sistematiche distorsioni nella percezione del rischio o nella valutazione della
stima probabilistica, che impattano sia sui nostri giudizi che nelle nostre
relazioni. I bias più noti di questa
categoria sono il framing effect e
tutti quelli ad esso associati: tra i principali l’ancoraggio, la c.d.
disponibilità e l’overconfidence.
FRAMING EFFECT O EFFETTO INCORNICIAMENTO (Kahneman
& Tversky, 1979; Neale & Bazerman, 1985; Thompson et al, 2004) | Supponiamo
di essere di fronte ad una scommessa a testa o croce: se esce testa vinceremo
100 €, se esce croce ne perderemo 100 €. Le probabilità di vincere o perdere
sono uguali; accetteremmo di partecipare? Sebbene la scommessa sia equa, la
maggior parte delle persone rifiuta a causa di un meccanismo cognitivo
conosciuto come “avversione alle perdite”,
ovvero la tendenza a considerare una perdita (economica) in misura maggiore
rispetto ad un guadagno della stessa entità. Davanti alla minaccia di una
perdita, anche solo potenziale, l’amigdala (la parte più antica del nostro
cervello, fondamentale nella gestione delle emozioni ed in particolare della
paura) si accende come una lampadina e invia impulsi al cervello per evitare la
situazione potenzialmente rischiosa.
In negoziazione
il framing effect determina la valutazione soggettiva dei risultati
di una trattativa, in termini di guadagni o di perdite. Descrive quindi il
comportamento delle parti quando adottano una determinata prospettiva sul
problema-negoziale: se le parti incorniciano la propria posizione negativamente
(frame iniziale negativo - CAUSA) tendono
a valutare gli esiti di un accordo come vantaggiosi (EFFETTO) per cui
sviluppano una maggiore propensione al rischio che incentiva la collaborazione,
la ricerca di alternative e la creazione di soluzioni originali; viceversa, le
parti con un frame iniziale positivo
(ovvero che incorniciano la propria posizione iniziale positivamente) attribuiscono
agli esiti finali della negoziazione un segno negativo data la loro avversione
al rischio, arroccandosi così sulla propria posizione per mantenere lo status quo, poiché qualsiasi accordo rappresenterà,
rectius sarà incorniciata come, una perdita.
ANCORAGGIO (Northcraft e Neale, 1987) |Facciamo molta fatica a modificare il
nostro giudizio di partenza: questa euristica
della “prima impressione” gioca un ruolo chiave nei conflitti, rendendo
difficile de-strutturare le divergenze, dato l’iniziale trincerarsi delle parti
su posizioni differenti. L’ancoraggio viene attivato quando, dovendo compiere
una valutazione in condizioni di ambiguità, per ridurre l’incertezza ci
ripariamo dietro ad un punto di
riferimento stabile seppure arbitrario. Nella negoziazione, pur operando
aggiustamenti successivi, difficilmente le parti riescono ad emanciparsi dalle
loro richieste o stime iniziali. È un bias
che esprime tutta la sua potenza quando sono presenti componenti numeriche o
economiche.
DISPONIBILITÀ (Northcraft e Neale, 1986) | Nei nostri ragionamenti e nelle nostre
decisioni ricorriamo più facilmente a informazioni
concrete e tangibili benché irrazionali, rispetto a quelle più astratte o
ipotetiche ma più logiche e vantaggiose. Di fronte ad una perdita sicura o ad
un potenziale guadagno, siamo tendenzialmente più propensi a decidere in
funzione del dato certo rispetto a quello soltanto probabile e ad essere più
propensi al rischio quando siamo già in una situazione di perdita. Questo bias spiega perché certi conflitti si
protraggono nel tempo: in negoziazione le parti tendono a valutare i vantaggi
relativi ad un accordo come possibili e quindi irrilevanti, prediligendo una
situazione più “concreta” sebbene meno vantaggiosa come il conflitto in corso,
soprattutto quando sono già stati compiuti molti investimenti nella vicenda
(cfr. anche lo status quo bias[4]).
I BIAS DELLA PERCEZIONE SOCIALE
I bias sociali sono incentrati sulla
percezione della realtà attraverso costrutti
interpretativi di natura sociale, come ad esempio gli stereotipi, e vengono
distinti in due macro aree: i bias
legati alla percezione di Sé e quelli legati alla percezione degli altri. I
primi fanno riferimento alle credenze e ai giudizi di un individuo riguardo al
proprio comportamento e a quanto esso risulti anomalo per un osservatore
esterno; i secondi concernono invece il comportamento altrui e quanto esso
risulti deviante per l’osservatore (Thompson et al, 2004). Tra i bias del primo tipo troviamo l'illusione
di trasparenza, tra quelli del secondo il
fixed pie effect e l’errore
fondamentale di attribuzione.
FIXED PIE EFFECT (Pinkley et al. 1995; Harinck et al., 2000) | Il bias della cosiddetta torta fissa (fixed pie) porta gli individui a credere che i propri interessi e
quelli dell’altro siano perfettamente speculari e che, di conseguenza, non
possano esistere alternative a una soluzione win-lose. È una distorsione
percettiva che in negoziato contribuisce all'approccio competitivo: alla
vittoria di una parte corrisponde la sconfitta dell'altra. Può essere
ricondotta all'effetto del falso consenso,
cioè alla tendenza a proiettare sull'altro le proprie percezioni e a credere
che i propri atteggiamenti, credenze, valori o comportamenti siano ampiamente
condivisi dalla gente; lo facciamo per mantenere alta la nostra autostima, dando
per scontata la legittimità del nostro punto di vista.
Il fenomeno
della torta fissa è correlato all'effetto framing,
perché genera la credenza che le risorse in gioco possano essere
distribuite solo a vantaggio di una delle parti, determinando una percezione
dei risultati finali come potenziali perdite, che incentiva strategie
comportamentali aggressive. Il contestuale ricorrere di queste distorsioni
genera situazioni caratterizzate da irrisolvibilità, nelle quali le questioni
in gioco vengono incorniciate in una
prospettiva che ammette un solo vincitore.
ERRORE
FONDAMENTALE DI ATTRIBUZIONE (Morris et al.
1999) | L’essere umano genera costantemente giudizi e credenze sul carattere
altrui, per interpretarne comportamenti e motivazioni attraverso l’attribuzione di cause e intenzionalità.
Questo fenomeno si declina tra l’altro attraverso il c.d. bias delle “attribuzioni a proprio favore”.
Elemento tipico
delle attribuzioni a proprio favore, che le differenzia dalle attribuzioni
effettuate sugli altri, è la “giustificazione” della propria condotta in
relazione ad un contesto; è una sorta di indulgenza nei propri confronti determinata
dal fatto che, disponendo di maggiori dettagli, siamo in grado di distinguere
con più precisione le influenze dell'ambiente sul nostro comportamento,
auto-giustificandoci. Al contrario, osservando “dall'esterno” un comportamento
altrui, l’ambiente resta sullo sfondo e ci focalizziamo maggiormente sull’individuo
e sulle sue azioni, giudicando l’altro.
Io sono in ritardo per colpa del traffico o dei mezzi pubblici
(attribuzione esterna), ma se sei in
ritardo tu, è perché sei una persona
poco educata e scortese (attribuzione interna).
In negoziazione
l'errore fondamentale di attribuzione impatta sulla percezione dell’altra parte:
quando si è vittime di questo bias
essa può apparire ostile e non cooperativa, attribuendo tali tratti alla sua personalità
o alla sua volontà di nuocere deliberatamente, senza invece considerare che i suoi
comportamenti possono essere determinati da fattori esterni o contingenti al
negoziato.
ILLUSIONE DI
TRASPARENZA (Van Boven et al., 2003) | È una distorsione
percettiva legata alla percezione dei
nostri stati interiori. Tendiamo a sopravvalutare la capacità della
controparte di comprendere le nostre richieste e i nostri bisogni, perché
riteniamo che le nostre azioni risultino più significative ed evidenti di
quanto lo siano realmente. In negoziazione questo può comportare una mancata
esplicitazione di informazioni rilevanti, come bisogni e interessi specifici,
che rischia di inaridire la trattativa. Poiché cediamo all’illusione di essere
“trasparenti”, è facile cominciare a nutrire infondate aspettative nei
confronti della controparte e a ritenere, in virtù dell’errore fondamentale di
attribuzione, che essa sia volutamente meno aperta e collaborativa di quanto
non sia realmente. Non detto, fatto:
il negoziato si arena in una spirale di incomunicabilità.
I BIAS MOTIVAZIONALI
Pur non essendo considerati vere e proprie distorsioni cognitive, in
quanto non hanno un ruolo nell'organizzazione della conoscenza, i bias motivazionali sono molto rilevanti perché
hanno la funzione di orientare i comportamenti verso specifiche azioni, sulla
base di necessità e scopi precisi legati alla propria identità o al bisogno di
riconoscimento (Thompson et al, 2004). Ovviamente i fattori che influenzano gli
stati affettivi e motivazionali possono essere pressoché infiniti; tra questi
ci soffermiamo solo sul self enhancement
bias e sul cd. “bisogno di chiusura cognitiva”.
SELF - ENHANCEMENT (De Dreu et al. 1995) | Tutti gli individui hanno la necessità di
affermare il proprio Sé, soprattutto quando incorrono in esperienze che
rischiano di comprometterne l’autostima: il salvagente è dunque il ricorso al bias dell'auto-miglioramento (Self-enhancement
bias), ossia la ricerca di giudizi positivi esterni. Quando riceviamo
feedback negativi in risposta ad un comportamento errato, abbiamo la tendenza a
difendere noi stessi e a giustificare il nostro atteggiamento, delegittimando
le critiche attraverso l'attivazione di stereotipi negativi o impiegando strategie
di riduzione della dissonanza cognitiva (cioè modificando le nostre credenze
per legittimare un certo comportamento; esempio tipico è il fumatore che
giustifica il suo vizio negando la validità dei dati sulla mortalità da fumo).
Questo fenomeno spinge gli individui a non rivedere le proprie posizioni e a
mantenere alto il proprio Sé delegittimando l’altra parte, con una ricaduta
negativa in negoziazione e addirittura rischiando l’escalation del conflitto, fino a casi radicali in cui si giunge
alla completa deumanizzazione dell’altro e alla ricerca dell’alleato nel
mediatore/negoziatore.
BISOGNO DI CHIUSURA
(EPISTEMIC MOTIVATION) (De Dreu et al., 2006) | Il bisogno di chiusura è la necessità di
ottenere informazioni dato un problema e riflette la tendenza degli individui a
preferire, in contesti sociali, una risposta certa piuttosto che la confusione
o l'ambiguità, per soddisfare il bisogno di processare le informazioni in modo
(più o meno) accurato[5]. Si
distinguono due tipi di atteggiamenti, rispettivamente caratterizzati da basso
o alto bisogno di chiusura: le persone con basso bisogno di chiusura tendono ad
impegnarsi di più nella ricerca di nuove informazioni e nella loro elaborazione;
coloro che invece scontano un alto livello di chiusura hanno la tendenza a
sospendere prematuramente la verifica di nuove ipotesi o la ricerca di ulteriori
dati, esponendosi maggiormente ai bias.
Una maggiore
attitudine all’approccio cooperativo, volto alla soluzione dei problemi, è
generalmente associata a un bisogno di chiusura più basso; viceversa strategie
competitive e scarsa attitudine alla soluzione dei problemi sono correlati a un
bisogno di chiusura più alto. La necessità di pervenire ad una maggiore
definizione del problema o di perseguire una scelta con maggiore cognizione di
causa è una condizione imprescindibile per raggiungere un accordo soddisfacente
e durevole nel tempo. Si noti come la chiusura epistemica sia collegata
all’ansia anticipatoria: la fretta di chiudere un negoziato o un progetto può
portarci a mancare clamorosamente i nostri obiettivi.
L'ESPERIENZA IN AULA
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Per introdurre
il tema dei bias nell’ambito della
mediazione e negoziazione, abbiamo realizzato un laboratorio dal titolo “Le trappole mentali in negoziazione. Cosa ci
condiziona in modo automatico ed inconsapevole quando negoziamo?”, con un focus particolare sulle distorsioni
indotte dall'euristica dell'ancoraggio. Il workshop si è svolto all'interno
della programmazione annuale degli incontri dell'associazione Enne.Zero,
pertanto l'intero laboratorio è stato progettato per un target composto
prevalentemente da avvocati e negoziatori.
La difficoltà
principale incontrata nella fase progettuale è sorta alla luce della
constatazione che, rispetto a metodologie ed esercitazioni sulla gestione dei
conflitti piuttosto collaudate (simulazioni, role play, ecc.), gli strumenti a
disposizione per un intervento formativo sui bias sono piuttosto esigui. Pertanto abbiamo ritenuto opportuno
riadattare e inventare esercitazioni che facessero al nostro caso. Così,
alternando ad esercitazioni più “classiche” nuove esercitazioni, abbiamo avuto
non solo l'opportunità di condurre con successo il workshop ma anche di
sperimentare sul campo nuovi strumenti formativi.
Per condurre
l'aula attraverso un percorso di graduale acquisizione di conoscenza e presa di
consapevolezza delle euristiche e del loro impatto in negoziazione, abbiamo
ritenuto opportuno cominciare con un tipico esercizio di ice-breaking, il cui scopo è stato sollecitare l'ansia da
prestazione dei partecipanti per rendere espliciti gli automatismi inconsci e
il pensiero automatico: la fretta, la paura di sbagliare o di non fare in tempo
sono infatti alcuni tra i fattori più comuni che sollecitano l'attivazione
degli automatismi a scapito del pensiero logico-razionale.
È stato poi
proposto in plenaria il noto gioco della “malattia
asiatica[6]”,
ottenendo riscontri perfettamente in linea con le evidenze scientifiche sul
tema: nel primo laboratorio alla prima formulazione del problema il 100% ha
selezionato l’opzione A (probabilità di salvare
200mila persone) mentre nessuno ha selezionato l’opzione B (⅓ di probabilità di salvare
600mila persone e ⅔ di probabilità che non si salvi
nessuno); modificando la formulazione del quesito una sola persona su 8 (il 12,5%) ha
selezionato l’opzione D (probabilità del 100% che muoiano 400mila persone) mentre le restanti 7 (87,5%) ha scelto
l’opzione D (⅓ di probabilità che nessuno muoia
e ⅔ di probabilità che muoiano
600mila persone). Risultati del tutto congruenti sono emersi anche nel secondo
laboratorio, nel quale l’80% ha selezionato nel primo scenario l’opzione A ed
il 100% ha selezionato l’opzione D nel secondo scenario.
Durante il debriefing è emerso con chiarezza come,
benché tutte le opzioni fossero identiche nel contenuto, la formulazione del
problema sotto forma di “morte” o “salvezza”, guadagno o perdita, certezza o
probabilità, in combinazione con il timore del rimpianto di una scelta
sbagliata, incornicia la situazione condizionando le scelte dei partecipanti e
facendo optare per lo status quo o
per il rischio.
Il passo successivo
è stato chiarire la natura delle aspettative,
per comprendere come da esse formuliamo giudizi soggettivi che spesso, come nel
caso di stereotipi e pregiudizi, si rivelano del tutto inadeguati. Attraverso
ulteriori esercitazioni è emerso chiaramente come la funzione euristica
dell'aspettativa abbia un ruolo chiave nel determinare le nostre decisioni;
stereotipi, pregiudizi e bias ad essi
legati, sono stati ampiamente individuati dall’aula nelle dinamiche negoziali e
di mediazione, sottolineando come educazione, personale esperienza, credenze
individuali, descrizione del mondo di ciascuno scadano in criteri arbitrari per
etichettare ed archiviare persone, oggetti e situazioni.
L’aula è poi
stata divisa in tre gruppi casuali ai quali è stato somministrato l'esercizio
da noi ideato ad hoc per rendere
evidente l’effetto del bias
dell’ancoraggio, uno dei più pervasivi in ogni tipo di negoziazione.
Nell'ideare e
formulare le domande originali, abbiamo anzitutto considerato la presenza in
aula di avvocati, mediatori ed esperti di negoziazione, per valutare se
l’effetto ancoraggio colpisse - secondo evidenze scientifiche già validate -
anche soggetti “esperti” in materia. Abbiamo poi ricercato dati statistici[7]
relativi al riconoscimento di un assegno di mantenimento in favore del coniuge
separato e divorziato registrati in Italia nell’anno 2012; dati che hanno
validità scientifica per il monitoraggio ISTAT su tali procedimenti
giurisdizionali. Infine, abbiamo predisposto delle domande relative a tale bias in una triplice formulazione: l’una
con un’àncora “bassa” (dati nettamente inferiori a quelle reali), l’altra con
un’àncora “alta” (dati nettamente superiori a quelle reali) ed infine una terza
versione c.d. “di controllo”, nella cui domanda non era presente alcuna àncora.
Ebbene, l’àncora ha determinato le risposte dei partecipanti, senza che si
evidenziassero differenze significative tra persone esperte in diritto e non:
il gruppo con un riferimento numerico basso ha sistematicamente sottostimato le
sue valutazioni, viceversa in presenza di un riferimento numero alto i
partecipanti hanno sovrastimato i dati reali.
Il debriefing ha confermato quanto sia
potente l’influenza dell’input e
quanto sia condizionante l’ancoraggio a valori iniziali, a prescindere dalla
loro validità e dal livello di competenza nel settore specifico. Ciò conferma
come l’ancoraggio opera in negoziazione e in mediazione quando il valore delle
risorse in gioco non è facilmente misurabile e quando tutte le parti, persino
quelle più esperte, sono vincolate alle informazioni di partenza, lasciandosi
influenzare dal linguaggio impiegato e del frame
iniziale.
LE STRATEGIE DI DEBIASING
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Acquisire
consapevolezza dei bias e dei propri
automatismi rappresenta un momento imprescindibile per la piena acquisizione di
un atteggiamento cosciente nei confronti delle proprie capacità negoziali.
Comprendere, infatti, quali limiti e ostacoli possiamo incontrare in una
negoziazione significa imparare ad evitare la trappola del conflitto e quindi
adottare strategie più collaborative all’insegna di una relazione
caratterizzata da ascolto e da una comprensione più autentica e profonda dell’altro.
Riconoscere i propri bias tuttavia è solo il punto di
partenza. Occorre dotarsi di adeguati strumenti per emanciparsi dai propri
automatismi; il che non significa eliminare i bias, che appartengono alla natura stessa dell’uomo, ma imparare a gestire il ragionamento euristico,
ampliando l’orizzonte del nostro punto di vista, talvolta troppo limitato.
Nel processo di
debiasing vengono individuati in
letteratura due approcci (Soll et. al, 2014): strategie di debiasing che intervengono sul decisore, fornendo agli individui
conoscenze e strumenti per supportare il loro processo decisionale, e strategie
di debiasing che intervengono
sull’ambiente, modificando il setting
decisionale per creare un contesto più adatto e funzionale al decisore[8].
Di seguito riportiamo
alcune tra le principali strategie di debiasing
che intervengono sul decisore:
ANALISI META-DECISIONALE (Russo & Shoemaker, 2014)
Questa
strategia consiste nell'indagare il problema decisionale a monte,
interrogandosi sulle premesse che lo hanno generato e sulle risorse da
impiegare per affrontarlo. Spesso l'ansia da prestazione, la fretta e
l'eccessiva focalizzazione sull'obiettivo finale, impediscono di cogliere tutti
gli aspetti rilevanti di un problema, limitando le strategie risolutorie. Le
domande da farsi in un'analisi meta-decisionale di un negoziato possono essere:
qual è l'aspetto cruciale della questione? Come sono state affrontate decisioni
simili? Quanto tempo abbiamo per decidere? Come e quali feedback posso trarre
da esperienze passate e da decisioni analoghe a questa? Ho bisogno di acquisire
altri punti di vista? Quali sono le mie abilità e i miei limiti a trattare aspetti
come questi? A quali bias sono più
esposto?
Prendere decisioni in gruppo è un altro efficace
metodo di analisi meta-decisionale, poiché incentiva lo sviluppo di sinergie
tra le diverse conoscenze e capacità del gruppo, individuando aspetti ed
elementi di una particolare situazione che possono invece sfuggire a un singolo
individuo (Rumiati, 2004). Questo strumento inoltre fa leva sulla distribuzione
della responsabilità, evitando di concentrare sulla stessa persona, con i suoi
limiti e le sue idiosincrasie, la responsabilità di una decisione. Attenzione
però: questo metodo, applicato indiscriminatamente, può presentare numerosi
svantaggi, il principale dei quali è il concreto rischio che intervengano altri
bias nel processo negoziale (su tutti
il groupthink o pensiero di gruppo[9] -
Janis, 1982; Turner & Pratkanis, 1998; Turner, 1991-, ma anche il bias di conferma e dissonanza
cognitiva).
AMPLIARE LO SGUARDO (Bazerman e Neale, 1982; Faro e Rottenstreich, 2006)
In un
negoziato, riuscire a guardare i problemi decisionali sotto diversi punti di
vista è fondamentale per generare nuove opzioni e allargare il ventaglio delle
nostre scelte. Ciò è possibile attraverso una molteplicità di strategie
differenti; di seguito illustriamo le principali:
ASSUMERE IL
PUNTO DI VISTA DELLA CONTROPARTE (PERSPECTIVE
TAKING) (Neale e Bazerman, 1983) | È fondamentale
negoziare, riuscendo ad assumere il punto di vista dell’altro, per comprendere
le sue emozioni, bisogni ed azioni. Risultati sperimentali dimostrano che la
qualità dei negoziati è proporzionale alla capacità delle parti di assumere la
prospettiva dell'avversario, perché si è in grado di individuare quali fattori
causano le sue resistenze e così si hanno maggiori probabilità di comprenderne
gli interessi, sviluppando soluzioni integrative, mutualmente soddisfacenti.
Una strategia
latamente legata all'assunzione dell'altrui punto di vista è l'accountability,
ovvero la responsabilizzazione delle nostre scelte nei confronti di un altro
(Kramer et al., 1993): i soggetti-decisori, prima di prendere una decisione,
dovrebbero riflettere su come spiegherebbero a terzi le motivazioni che li
hanno spinti ad agire in un determinato modo, affinché possano considerare
anche i punti deboli della scelta che stanno per compiere. La fiducia che un
terzo ripone nella bontà della scelta fatta da un soggetto spinge quest’ultimo
ad agire in maniera più consapevole e a considerare tutte le problematiche
relative alla scelta stessa. Tuttavia, l'applicazione indiscriminata di questa
tecnica rischia di spingere il decisore a crearsi una giustificazione per la
decisione assunta (Shafir & LeBoeuf, 2004) o addirittura ad aumentare i
pregiudizi ed i biases a servizio di
sè (c.d. self-serving biases, Simonson,
1989).
CONSIDERARE
L’OPPOSTO (CONSIDER THE OPPOSITE) (Mussweiler et al., 2000) | Sforzarsi di articolare le ragioni che
sono contrarie alla nostra posizione (domandandosi “Quali potrebbero essere le ragioni per le quali il mio comportamento,
la mia decisione, possono rivelarsi sbagliate?”) è utile per contrastare numerosi bias, tra i quali l’ancoraggio, l’overconfidence e l’euristica della
disponibilità. Essi causano spesso una visione parziale del problema denominata
“effetto tunnel”, che ci fa focalizzare solo su certi aspetti del problema,
rendendoci impermeabili a ulteriori alternative ed esposti ad errori di valutazione.
Nel
“considerare l’opposto” è necessario domandarsi se le nostre valutazioni e le
nostre scelte sarebbero state le stesse se ci fossimo posti dal lato opposto
del problema. Ciò consente di dissipare
la visione a tunnel e di vedere più chiaramente i possibili risultati
alternativi[10]. C'è,
tuttavia, un avvertimento interessante (Roese, 2004): alcuni studi hanno
dimostrato che la ricerca di un alto numero di risultati alternativi rafforza
il bias piuttosto che indebolirlo,
perché la difficoltà nel trovare argomenti alternativi alle proprie ragioni
diventerebbe un alibi che giustifica e legittima le proprie scelte. Per evitare
questo ritorno di fiamma, è dunque preferibile non generare o valutare più di due o tre spiegazioni alternative.
Un’altra
strategia per uscire dall’effetto tunnel è quella di attualizzare la decisione (Staw & Ross, 1978, 1987; Haller
& Schwabe, 2014); è il caso del bias
dei costi affondati (sunk cost effect),
in cui il passato ipoteca il presente. Quando dobbiamo ridurre il c.d. bias dei costi affondati (sunk cost bias), dell’escalation e della
fallacia di Gambler[11], è
utile anticipare i costi che devono essere progressivamente eliminati prima che
venga assunto un impegno, in modo tale da rendere salienti i costi da
sostenere. In sostanza, la domanda da porsi è “Se mi trovassi a dover decidere questo investimento per la prima volta
oggi e avessi questo progetto da portare avanti, cosa farei? Sosterrei il
progetto o me ne sbarazzerei?”
ALLARGARE LA
TORTA (Pietroni & Rumiati, 2001) | Quando sono in gioco questioni
relative alla distribuzione delle risorse, la distorsione della fixed-pie incentiva la competizione
perché porta ad attribuire all’altro i propri medesimi interessi e quindi ad
implementare strategie risolutorie win-lose.
Quando invece le questioni riguardano aspetti normativi o valoriali,
riscontriamo il risultato opposto perché gli individui tendono a credere che il
proprio modo di vedere il mondo sia corretto e ragionevole e, in linea di
principio, condiviso da tutti; tale idea frena il bias della torta fissa, favorendo un approccio più collaborativo.
Il bias della torta fissa agisce
quando le nostre aspettative (nei confronti dell’altro, dei suoi bisogni e dei
suoi interessi) prendono il sopravvento. Per questa ragione la comunicazione e
la condivisione di informazioni hanno un ruolo fondamentale in questa strategia
di debiasing.
Migliorare la comunicazione esplicitando le
motivazioni delle preferenze è lo strumento
più efficace contro il bias della
torta fissa: anche quando gli interessi delle parti sono fra loro divergenti,
possono emergere le condizioni per la risoluzione del conflitto perché
entrambe possono rendersi conto di
essere ciascuno alla ricerca di qualcosa di diverso e potenzialmente
complementare. Queste metodologie massimizzano i risultati positivi soprattutto
se compiute in sinergia con strategie negoziali cooperative ed integrative, ad
esempio formulando più offerte
alternative nel corso della negoziazione e indicando l'offerta preferita, media e meno appetibile (es. BATNA
e WATNA), ogni parte rivela informazioni che l’altra può prendere in
considerazione.
È importante
riuscire ad ampliare ed approfondire la conoscenza dell’altro attraverso
domande che consentono di individuare e formulare corrette stime circa i suoi
bisogni, interessi e priorità. Domande maieutiche o domande a risposta aperta sono strumenti che consentono di ottenere
una risposta completa ed articolata dalla controparte, stimolano la curiosità
ed incoraggiano le persone a espandere i limiti del loro pensiero, perché
richiedono una previsione o una riflessione sulle possibili conseguenze della
scelta.
MODIFICARE IL
FRAME (Bazerman, Magliozzi & Neale, 1990; Rumiati,
2004) | Non valutiamo le cose ma la descrizione
delle cose. Quando la strutturazione di
un problema non offre risultati soddisfacenti è opportuno, anzi spesso è
necessario, cambiarne il frame: la formulazione del problema decisionale in
una nuova cornice può infatti aiutarci a capire se il bicchiere è davvero
«mezzo pieno» o «mezzo vuoto». È quindi fondamentale capire come e quando
cambiare la nostra cornice, per
individuare la migliore strategia negoziale da applicare nel caso specifico
Il reframing (reincorniciamento) passa
attraverso tre fasi: (a) capire qual è la cornice in cui il problema è
strutturato in un dato momento e cosa ha determinato l'adozione di quello
specifico frame; (b) generare frames alternativi a quello attuale,
interrogandosi sulla sensatezza delle proprie azioni e cercando, in maniera
creativa, altri modi possibili di impostare il problema, anche grazie alla
capacità di porsi nei panni degli altri (vedi sopra perspective taking); (c) scegliere il frame vincente: molti dei frames
che sono stati generati nella fase precedente potranno apparire ugualmente
plausibili, ma per selezionare quello più adeguato occorre effettuare un ultimo
sforzo, individuando gli elementi che ciascuna cornice enfatizza o minimizza,
occulta o distorce (Russo e Shoemaker, 2016).
Decidere
consapevolmente attraverso quale frame
valutare le informazioni (quindi decidere se adottare un contesto di perdita o
uno di guadagno) è possibile in concreto solo se siamo in grado di comprendere
su quali informazioni focalizzare l’attenzione.
CONTRO-ANCORARE
IL VALORE (Rumiati, 2004) | Posto che le informazioni
iniziali alle quali ci ancoriamo guidano i processi di ricerca e recupero di
informazioni in direzione coerente con le stesse, lasciando oscurati alla vista
altri dati che potrebbero favorire risposte diverse, come porvi rimedio? In
primo luogo, attraverso la costruzione di valori di àncora tali che gli
aggiustamenti successivi all’operare del bias
producano distorsioni finali di minore entità. Inoltre, è opportuno contrapporre ad un’àncora un’altra àncora
di direzione opposta (ad esempio, prima di decidere se acquistare
un'automobile ad un prezzo vergognosamente alto, immaginare come la si
valuterebbe se il prezzo fosse incredibilmente basso).
Altro strumento
per il debiasing dell’ancoraggio è
una variante del “consider the opposite”,
ossia l’approccio contro-fattuale (Mussweiler
et al., 2000): pensare a delle ragioni per le quali la cifra di partenza è
inappropriata riducendo così l’effetto dell’àncora iniziale, per consentire un
giudizio più appropriato.
In ogni caso la
definizione a priori di parametri
che ci consentono di valutare obiettivamente l’accettabilità o meno di ogni
proposta, resta la migliore strategia di debiasing
contro gli effetti dell’ancoraggio (Bazerman, 1990): entrare in qualsiasi
negoziazione senza aver prima definito i propri parametri minimi di
profittabilità diminuisce considerevolmente il controllo sulle dinamiche
negoziali, con conseguente pericolo di accordi svantaggiosi o decisioni errate.
C'è però un
rischio: entrare in negoziato con un parametro minimo se può porci al riparo
dal bias dell’ancoraggio, può al
contempo farci cadere in un negoziato di posizioni, anziché mantenerci
flessibili alla trattativa in corso; per questo motivo, nel generare
anticipatamente i propri parametri, è preferibile far riferimento a valori più
che a cifre.
PERIODO DI
RIFLESSIONE (COOLING OFF PERIOD) E SECONDA IPOTESI (SECOND GUESS) | Se siamo felici formuliamo previsioni per il futuro troppo
ottimistiche, al contrario se siamo tristi tendiamo a fare previsioni
eccessivamente pessimistiche (Moore & Healy, 2008): quindi, fattori
psicologici spesso estranei al contesto decisionale hanno un’influenza
preponderante nelle nostre scelte, perché tendiamo a concentrarci completamente
su prove che supportano le nostre ipotesi iniziali, sottovalutando quelle
contrarie.
Una tecnica è
semplicemente quella di prendere tempo
(cooling off) per considerare i
motivi per cui potremmo sbagliare o fallire, evitando così scelte non ottimali
(è una variante del ragionamento controfattuale di cui si è detto sopra a
proposito del debiasing contro
l’ancoraggio) (Koriat, Lichtenstein, & Fischoff, 1980; Cheema & Soman,
2008).
Una variante
più raffinata è chiamata approccio “prospettico a posteriori” (Mitchell,
Russo, & Pennington, 1989; Russo & Schoemaker, 2016): quando si
contempla un fallimento passato, anche se solo immaginario, le persone tendono
a identificare possibili percorsi causali che solitamente non vengono subito
considerati (bisogna cioè ragionare in previsione: ad esempio se oggi, 2019, dovessi
acquistare un immobile, dovrei chiedermi "Qui nel 2039, perché la mia casa vale meno di quanto l’ho pagata venti
anni fa?").
Altro metodo,
che può essere applicato autonomamente o in abbinamento al cooling-off, è il c.d. “second guess”, ossia riprendere più
volte, anche in momenti diversi, un ragionamento, per sforzarsi di dare una
seconda risposta. Studi sperimentali hanno dimostrato che imponendo una scelta
obbligatoria tra tre alternative e chiedendo di azzardare una seconda risposta
oltre a quella data per prima, è piuttosto raro che la seconda risposta
ricalchi la traccia originale.
PRATICHE MEDITATIVE DI MINDFULLNESS (Moore & Malinowski, 2009; Vago e Silbersweig, 2012; Hafenbrack et
al., 2013) | Queste tecniche agiscono sull’attenzione spostandola al momento presente e focalizzandola
sulle sensazioni fisiche del corpo (es. il respiro), consentendo così di
liberare la mente dai pensieri intrusivi, causati dall’ansia anticipatoria.
Sono pratiche di debiasing in senso lato in quanto sono in grado di agire sui
vari step del processo di presa di
decisione, ad esempio sul riconoscimento degli obiettivi, sulla raccolta delle
informazioni rilevanti e sulla valutazione consapevole delle alternative.
Nonostante
quanto sinora detto, è doveroso segnalare come molto spesso la correzione degli
errori comportamentali sia estremamente difficoltosa, perché le distorsioni
cognitive sono sistematiche, affondando le loro radici in modalità di pensiero
estremamente radicate in noi.
L’ESPERIENZA IN AULA
_______________________________________________
La progettazione
del laboratorio, idealmente e funzionalmente collegato al precedente e dal titolo “Negoziare meglio: come allenarsi per superare gli automatismi e
sperimentare soluzioni alternative e consapevoli”, è partita dal
riconoscimento di come avesse operato in noi stessi formatori il bias dell’ancoraggio nella elaborazione
del precedente laboratorio, poiché ci siamo ancorati
all’idea che il pubblico prevalente fosse costituito da avvocati e mediatori e quindi
incorniciando il primo workshop
esclusivamente in ambito giuridico.
Per rendere
efficace l’intervento formativo abbiamo fatto ricorso ad un’altra metodologia
di debiasing, detta learning by doing (Thompson et al.,
2000; Gentner et al., 2009), che consente
un’efficiente correzione - in tempo reale - dei bias: la conoscenza e la capacità di identificazione degli stessi
aumenta attraverso la sperimentazione
concreta di situazioni nelle quali queste distorsioni appaiono, così da
ottenere un feedback immediato su ciò
che essi provocano. Questa tecnica è particolarmente efficace su hindsight bias, disposition effect e anche per ridurre l’importanza che i soggetti
attribuiscono ai sunk costs.
Riepilogate le
euristiche ed i bias, abbiamo sottoposto
all’aula l’esercitazione c.d. “la
quadriglia”[12]. I
partecipanti, che si fronteggiano su due file parallele, devono convincere in
meno di un minuto il soggetto di fronte a loro a passare dall’altro lato di una
linea divisoria immaginaria. Come previsto, nessuno dei partecipanti è ricorso
alla soluzione più facile e al tempo stesso più difficile da immaginare: scambiarsi
di posto.
Il debriefing si è focalizzato
su cosa impedisce di negoziare in modo cooperativo ed efficace, ossia le radicate
strategie win-lose (forza, ricatto,
persuasione, cedere, convincere, non ascolto, “mors tua, vita mea”), per le quali siamo portati inconsapevolmente a
confliggere piuttosto che a collaborare secondo la logica “win-win“.
Abbiamo infine
proposto una versione rivisitata del role-play:
“l’eredità”[13], ovvero una
simulazione di un negoziato multiparte, ciascuna delle quali con diversi
bisogni, interessi e pretese. L’obiettivo era quello di giungere ad un accordo
su come ripartire la somma ereditata, rispettando le volontà e i vincoli testamentari
del de cuius, pena la perdita del
100% dell’importo. I partecipanti sono quindi stati divisi in cinque gruppi,
con il compito di individuare una strategia da sostenere durante la
negoziazione.
Dopo 20 minuti
di trattative, abbiamo previsto un debriefing
in plenaria nel quale evidenziare quali bias
erano stati visti operare e come correggerli, acquisendo maggiore
consapevolezza delle distorsioni in azione durante la prima sessione negoziale.
Impegnati in un secondo round di
trattative, i partecipanti hanno utilizzato le seguenti strategie di debiasing: allargamento dello sguardo,
generazione di alternative, mettersi nei panni dell’altro, porre domande
maieutiche, comunicare i propri bisogni, considerare i punti deboli del proprio
ragionamento e della propria posizione, ancorarsi a parametri oggettivi, a
valori, invece che a numeri.
L’aula ha
potuto quindi constatare come gli errori cognitivi, a differenza di quelli
dovuti a distrazione, sono sistematici ma prevedibili, perché dipendono da
leggi oggettive, a cui tutti siamo sottoposti, che condizionano il nostro
ragionamento. In ogni caso, la migliore e più efficace strategia per superare
la mente automatica è quella di restare nel “qui-e-ora”, nel presente, attraverso la mindfulness o la meditazione che, agendo sull’attenzione, consente
di porre uno spazio maggiore tra stimolo e risposta per ottenere una migliore
comprensione della situazione e, conseguentemente, selezionare - tra le molte
possibili - non la risposta più rapida e veloce, bensì quella più utile, ossia
più vantaggiosa sia per noi che per l’altro, perché solo una soluzione che
soddisfa le istanze di tutti i soggetti coinvolti, nessuno escluso, sarà
duratura e risolutiva nel tempo.
CONCLUSIONE
_______________________________________________
Essere
professionisti competenti nel corso di una negoziazione o mediazione significa,
innanzitutto, essere consapevoli che l’uomo assume diversi atteggiamenti: attacca
o si difende; compete o collabora; dice il vero o il falso; tace o condivide
informazioni. Tali atteggiamenti non sono altro che il frutto di moti interiori
completamente automatici: se l’uomo aggredisce è perché non può fare a meno di
aggredire; se collabora è perché è incapace di non collaborare, e così è per la
maggior parte, se non per tutti, i suoi comportamenti.
Essere
professionisti competenti nel corso di una negoziazione o mediazione significa,
poi, essere consapevoli che l’uomo interpreta la specifica situazione e la
relazione con l’altro secondo la sua educazione, la sua esperienza personale,
il suo vissuto, le sue abitudini, le sue convinzioni e le sue credenze, andando
alla ricerca di tutti gli elementi funzionali a confermare la propria visione
del mondo, riducendo così le infinite possibilità che la vita gli offre,
illudendosi che la realtà da lui dipinta sia l’unica possibile.
Essere
professionisti competenti nel corso di una negoziazione o mediazione significa,
infine, essere consapevoli della capacità di guardare oltre le possibilità
tratteggiate dai soggetti coinvolti, espandendo la loro visione. Per fare ciò
occorre necessariamente essere capaci di contenere non solo gli automatismi
interiori ed esteriori delle parti bensì, e soprattutto, le proprie dinamiche
interiori, altrettanto automatiche, perché anche il mediatore e il negoziatore
non sfuggono di certo alle regole del gioco della vita e, con esse, a quelle del
funzionamento del cervello umano.
Attivare
comportamenti adeguati e utili, richiede quindi in primis un certo grado di sapere, che con questo scritto ci siamo
posti l’obiettivo di diffondere, avvertendo i lettori che il sapere è solo il
punto di partenza, perché il sapere senza un corrispondente sviluppo
dell’essere, ossia, per quel che qui rileva, della capacità di conoscere,
osservare, sentire e comprendere i propri e gli altrui automatismi, è un sapere
sterile e inutile, ma se allenato e coltivato insieme all’essere, il sapere
consentirà l’accesso al vero fare, che può orientare i propri e gli altrui
comportamenti verso soluzioni nuove, creative e vantaggiose per l’insieme.
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Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 8/2019
[1] VUCA (Volatile, Uncertain, Complex, Ambiguous) rappresenta
un mondo volatile, incerto, complesso e ambiguo come mai prima d’ora. Si tratta
di un acronimo che è stato in grado di tradurre il nostro immaginario
collettivo, sintetizzando il difficile periodo che ci troviamo a vivere.
[2] la quale deve comunque essere integrata con il diritto
“tradizionale”, che rimanda ad un mondo di regole più statico e per definizione
uguale per tutti.
[3] “Il più socialmente evoluto meccanismo di coordinamento
delle azioni umane capace di generare oltre che distribuire risorse elevando la
qualità della relazione tra le parti” (Diamantini et al., 2000)
[4] ll bias dello status
quo è un errore cognitivo che consiste nella preferenza per la situazione
attuale rispetto ad altre possibili. La situazione attuale viene presa come
punto di riferimento, qualsiasi mutamento viene considerato una perdita. Quando
scegliamo tendiamo infatti a valutare di più le potenziali perdite che non i
guadagni possibili, tuttavia sembra che vi siano
anche altri motivi oltre all’avversione alle perdite, tra cui l’avversione al
rimorso, i costi di transazione e il coinvolgimento personale. È dovuto alla
resistenza umana al cambiamento, che spaventa e che dunque induce a mantenere
le cose così come stanno. L’aspetto più dannoso
di questo pregiudizio è l’ingiustificata supposizione che una scelta diversa
potrà far peggiorare le cose. Secondo lo status
quo bias, gli individui tendono a non deviare dal loro comportamento
abituale, bensì a rimanere attaccati alla situazione in cui si trovano (lo status quo appunto).
[5] cfr.
sul lato cognitivo il bias di disponibilità
[8] Un esempio è la nudge
theory, che sfrutta il potere inconscio dei bias per spingere le persone a
prendere decisioni più efficaci. Questa sorta di “paternalismo libertario”
muove dall’idea che non esistono contesti neutri, siamo cioè sempre soggetti ad
essere condizionati, perché allora non incentivare le migliori decisioni
possibili? (Thaler e Sunstein,2008; Marteau et al., 2011; Castro e Scartascini,
2013)
[9] Il
pensiero di gruppo si verifica quando: “I membri di un piccolo gruppo coeso
tendono a mantenere lo spirito di corpo sviluppando inconsciamente una serie di
illusioni condivise e di norme relative che interferiscono con il pensiero
critico e con la verifica della realtà” (Janis I.L., 1982, Groupthink:
Psychological Studies of Policy Decisions and Fiascoes, Houghton Mifflin,
Boston). È una distorsione che si verifica nei gruppi altamente coesi, in cui
la tendenza a raggiungere l'unanimità prevale sulla motivazione a valutare
realisticamente alternative più funzionali di azione; questo porta a negare
anche a se stessi l'esistenza di un dissenso o di un pensiero divergente da
quello della maggioranza in ragione della totale identificazione con il gruppo
e con il suo pensiero dominante.
[10] Questa
tecnica è assimilabile alla metodologia della “FALSIFICABILITÀ” proposta da
Karl Popper relativa al metodo scientifico: quando si vuole accertare la verità
di una teoria scientifica non è sufficiente verificarla, ma è necessario
falsificarla per dimostrare la sua correttezza.
[11] Fallacia di
Gambler Pur chiamandosi fallacia è per lo
più un problema tecnico del nostro modo di pensare. Siamo portati a ritenere
che gli eventi del passato influenzeranno in qualche modo i risultati futuri.
L’esempio classico è il lancio della moneta.
Dopo che è uscito testa, diciamo, per cinque volte consecutive, siamo
propensi a prevedere un aumento della possibilità che il prossimo lancio sarà
croce. In realtà però, le probabilità sono e restano ancora 50/50. Le monete
non hanno memoria e ad ogni lancio si riparte da zero. In relazione a questo,
c’è anche un altro aspetto del bias,
che purtroppo alimenta il gioco d’azzardo. È quel
senso che ci fa credere che la fortuna sta per arrivare e che la sorte
finalmente girerà a nostro favore: “sento che
ho la mano calda!”. Con i rapporti personali succede la stessa
cosa, siamo portati a credere che il nuovo sarà migliore di quello precedente.
[12] Borgato
R. “Un'arancia per due. Giochi d'aula ed esercitazioni per formare alla
negoziazione” Franco Angeli, Milano, 2004, pagg 222 ss.
[13] Borgato
cit. pagg. 242 ss.