DIRITTO D'AUTORE


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28 febbraio 2017

15/17. Invito in mediazione del contumace, erronea indicazione dell’indirizzo del destinatario, conseguenze (Osservatorio Mediazione Civile n. 15/2017)

=> Tribunale di Trapani, 13 luglio 2016

Qualora l’invito a partecipare all’incontro di mediazione contenga una erronea indicazione del domicilio va affermato, letto l’art. 8, comma 1, d.lgs. 28/2010, che non si è proceduto alla comunicazione dell’invito con mezzo adeguato, stante l’erronea indicazione dell’indirizzo del destinatario nella comunicazione. In tal caso – rilevato ancora che nella specie il mediatore nel verbale di mediazione non ha neppure individuato le parti del procedimento giudiziale, sicché non ha appurato che la parte incitata in mediazione era contumace, con la conseguente mancata verifica circa l’erronea indicazione del domicilio ove far pervenire l’invito – va ritenuto che il procedimento di mediazione (nella specie obbligatoria) non sia stato correttamente instaurato, dovendosi disporre – alla luce della genericità con cui il mediatore ha adempiuto ai propri obblighi di legge in punto di individuazione delle parti del giudizio – la rinnovazione della procedura. (I).


Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 15/2017

Tribunale di Trapani
13 luglio 2016

Omissis

rilevato che dalla documentazione di causa si evince che l’invito a partecipare all’incontro di mediazione diretto alla zzz contiene una erronea indicazione del domicilio;

letto il primo comma dell’art. 8 d.lgs. 28/2010, il quale stabilisce che la domanda e la data del primo incontro sono comunicate all’altra parte “con ogni mezzo idoneo ad assicurarne la ricezione”;

ritenuto che nel caso di specie l’articolo menzionato è stato disatteso, in quanto non si è proceduto alla comunicazione dell’invito con mezzo adeguato, stante l’erronea indicazione dell’indirizzo del destinatario nella comunicazione;

rilevato ancora che il mediatore nel verbale di mediazione non ha neppure individuato le parti del procedimento giudiziale, sicché non ha appurato che zzz è contumace;

rilevato che la mancanza di detta verifica ha impedito di verificare l’erronea indicazione del domicilio ove far pervenire l’invito alla mediazione;

ritenuto che il procedimento di mediazione obbligatoria non si è correttamente instaurato nei confronti della zzz;

ritenuto che, alla luce della genericità con cui il mediatore ha adempiuto ai propri obblighi di legge in punto di individuazione delle parti del giudizio, la rilevata irregolarità non può ridondare in danno della parte attrice, ben avendo potuto il mediatore verificare l’individuazione delle parti e del loro domicilio;

considerata la non scindibilità delle posizioni sostanziali e processuali assunte da tutti i convenuti;

dispone la rinnovazione della procedura di mediazione nei confronti di tutti i convenuti e assegna all’attrice termini di 15 giorni per adire l’organismo di mediazione al fine di tentare la conciliazione e fissa in prosieguo l’udienza omissis.

Il Giudice
Dott. Fiammetta Lo Bianco

AVVISO. Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità.

24 febbraio 2017

14/17. BARATTA, Scoprire l’OFELIMITA’ in mediazione (Osservatorio Mediazione Civile n. 14/2017)

Pubblichiamo, con piacere, un contributo giunto in Redazione.

Scoprire l’OFELIMITA’ in mediazione

di Carlo BARATTA (mediatore)


È sbagliato pensare che i ritardi e
 le omissioni risolvano i problemi.“
– Josemaría Escrivá de Balaguer


Oggigiorno si conosce il prezzo di tutto, ma non si conosce il valore di niente” questo pensiero di Oscar Wilde sintetizza bene il rischio che può correre la mediazione se limita la sua azione solo basandosi  su  parametri monetari e normativi.


Il contesto  attuale.

La teoria del pensiero liberale, prevalente nella cultura giuridica occidentale, considera il giusto come criterio di valutazione, prioritario, rispetto al benessere; per questa impostazione il benessere, concreto, viene perimetrato in vincoli originati dal concetto, astratto, di  giusto.
Questi vincoli obbligano a confrontare azioni concrete con comportamenti presunti giusti di tutti coloro che hanno una vita sociale, siano  essi  persone fisiche o  giuridiche.
La Giustizia secondo  questa impostazione, basata  su costrutti  astratti, come il giusto  atteso, per valutare un danno, un comportamento,  sia individuale che collettivo (evidenza al contrario concreta) si trasforma in una procedura solo  formale.
Inoltre questi costrutti, gli articoli dei codici, che misurano i fatti sulla base di una  presunta verità implica  marginalizzano o  addirittura negano il principio  del benessere. Il conflitto, in questo contesto culturale è la presa d’atto che esiste una divergenza di opinioni e di posizioni in merito al  giusto relativo alla questioni,al problemi, oggetto della lite.
Se anche in mediazione prevale come parametro il giusto allora la lite si  trasforma in conflitto, perché il  giusto presuppone una soluzione unilaterale. Solo le strategie negoziali integrative, quelle che non considerano prioritario il giusto, consentono di gestire il conflitto aumentando le possibilità di successo quando tutti si impegnano in modo costruttivo.
Il modello del giusto oltre a trasformare una lite in un conflitto è portato  a usare anche come parametro  di valutazione un altro  ente astratto  il mercato.
Il mercato come l’istituzione serve a regolare scambi di beni tra individui egoisti. Il modello liberale, come detto suppone un individuo che esiste come un tutto avvolto in sé, che cerca di massimizzare i propri vantaggi operando scelte libere, autonome e razionali, che non dipendono delle influenze, delle esperienze, delle circostanze e delle norme connesse al contesto sociale e culturale e che vedono solo in ciò che astrattamente è definito giusto il vincolo per agire.


L’equilibrio in mediazione.

Per la mediazione l’equilibrio non si trova nell’idea di giustizia considera come verità giusta rispetto ad un ordine antecedente e datoci, ma si trova nella congruenza con la nostra comprensione di noi stessi e delle nostre aspirazioni.
Poiché le idee che i diversi individui e a maggior ragione se sono parti conflittuali, hanno circa il bene proprio ed altrui sono essenzialmente eterogenee non è possibile trovare una sintesi monetaria e far tutti contenti.
Quel genio di V.Pareto ha elaborato un’interessante teoria sull’azione sociale, o meglio sul comportamento sociale delle persone, che si può utilizzare durante le sedute di mediazione, perché queste ultime sono  un esempio  di  azione relazione sociale.
Per Pareto il comportamento umano dipende sia da elementi irrazionali di natura istintuale che sono universali detti residui e costanti, che determinano la parte permanente del comportamento e da elementi razionali o pseudo-razionali.(cioè ritenuti tali da chi li  pone in essere) detti  derivazioni  che sono la parte soggettiva variabile dell’azione.
La spiegazione del motivo per cui gli uomini ragionano in termini di residui e derivazioni poggia principalmente sul postulato della ricerca della utilità sociale.
Gli interessi, che sono  valutabili secondo  il  criterio  del giusto, e che sono alla base delle azioni calcolabili logicamente, permettono solo di arrivare forse all’utilità economica di  entrambe le parti o a quella di una sola, ma non possono determinare l’utilità sociale.
Il benessere individuale che è il motore dell’utilità sociale, in quanto gli interessi rappresentano istinti focalizzati e individuali, si può raggiungere solo facendo emergere i cd residui paretieni che rappresentano istinti sociali.
L’uniformità dell’agire sociale, che è un patrimonio  collettivo è a volte disattesa in parte da quella  che si  chiama devianza, ma che riguarda comunque pezzi di  agire sociale. Il comportamento deviante   è originato  da un residuo diverso  da quello utilizzato dai comportamenti uniformi. Questo dato  è molto importante nella mediazione  perché se non si  raggiunge un accordo la causa  può essere il diverso residuo  attivato dalle argomentazioni.
Questa uniformità dipende, per Pareto dalla diffusione di determinati residui che incanalano fini ideali collettivamente condivisi. In altri termini, alla base dell’agire sociale non vi sono solo ragioni strumentali (per cui l’uniformità deriverebbe dalla mera coincidenza di fini individuali), ma anche sistemi di valori condivisi (residui) che i ragionamenti (derivazioni) rendono evidenti.
Per capire come  ricercare il benessere o i valori  condivisi e perciò aiutare a trovare la soluzione di una lite, occorre, come fa Pareto,  distinguere l’utilità dall’ofelimità.
Con ofelimità Pareto  indica  l’attitudine di un bene a soddisfare un bisogno, che però deve essere percepito come tale dall’uomo; l’ofelimità indica la soddisfazione è una qualità soggettiva.
Dare una medicina ad un bambino malato è  una azione utile, ma per lui  a ofelimità nulla. Perciò non è sufficiente trovare in una lite  un elemento, materiale o monetario  considerato  giusto è necessario trovare almeno un altro  elemento non monetario tale  che soddisfi  le ofelimità di  entrambe le parti.
Mettere al centro  dell’agire la ricerca  del benessere, perciò significa impegnarsi a far riconoscere l’altro come attore di uguale diritto alla discussione.
Questa differenza si  basa sull’idea  che è sbagliato pensare che le persone scelgano in modo tale da rendere massima solo il proprio  interesse, la ricerca di una soluzione conflittuale basata solo su  dimensioni  economiche, maggior  ricchezza monetaria, è senza dubbio un’azione utile, ma può portare alla diminuzione della felicità personale, che può generare povertà relazionale e quindi costringere i  singoli alla affannosa  ricerca di  relazioni  anche virtuali a fughe nell’alcol o nelle droghe, che portano  ad una povertà nuovamente economica e cosi  il cerchio  drammaticamente si  chiude.
Infatti le persone reali non sono delle entità caratterizzate da bisogni o desideri, svincolati  dal contesto  dove vivono, ma soggetti che si integrano, attraverso le loro reti  sociali in  sistemi di desideri e di bisogni che seguono le priorità della comunità ove risiedono  e operano.
Per queste considerazioni è meglio cercare le ofelimità delle parti per giungere ad un accordo.
Fare questa operazione epistemologica significa ricercare una comune formazione del volere, che implica far utilizzare linguaggi argomentativi e non strategici.
Il linguaggio è una trappola  insidiosa, questo infatti spiega  come le parti  vedono una certa situazione, ma non può essere  utilizzato per spiegare  la lite, occorre capire la sostanza della lite, spogliandola dalle emozioni e dai ragionamenti ad hoc argomentati. La sostanza, la quidditas della lite, ha una sua  semantica indipendente dalle parole o dal  tono  col quale viene  descritta. E’ fondamentale perciò rompere il legame  tra situazione di argomentazione, sentimenti,  emozioni  e parole per capire il vero  oggetto che si  cela  nel parlare.
Non va dimenticato  che la realtà, il mondo  come è oggi, è un prodotto di una costruzione sociale, che si  realizza per il contributo simbolico emozionale  dei  singoli (Luckmann 1997) concetto  già espresso  da Pareto  che utilizzo i  termini  di  residui  e derivazioni.
Nessuno compie una scelta sulla base di una libertà sovrana, ma tutti esercitano la propria libertà sulla base di ciò che li lega gli uni agli altri. Questo fatto apparentemente ovvio va tenuto presente in qualsiasi tipi  di mediazione.


Il modello paretiano dell’incontro di mediazione.

L’incontro di mediazione è un sistema sociale assimilabile ad un organismo complesso dove le  molecole sono gli individui, sui quali operano forze influenzate dai residui e a loro volta manifestate dalle derivazioni. Sono i residui ad avere effetto sulla forma sociale, perché muovono all’azione; ma dal momento che solo le derivazioni sono direttamente manifeste, sembra che siano queste ad operare direttamente nelle relazioni sociali.
I residui, che sono espressioni simbolico-culturali dei sentimenti soggiacenti, hanno la capacità di muovere all’azione, in quanto incanalano pulsioni emotive verso determinati fini ideali, consentendo la realizzazione di fini pratici.
Secondo Pareto le azioni degli uomini sono elaborate su principi non logici nel senso che il fine oggettivo differisce da quello soggettivo o il fine oggettivo è inadeguato alla valutazione soggettiva di chi vuol perseguirlo. In poche parole i  calcoli  si possono  anche fare, ma i problemi  sono  più complessi e non sono  sufficienti  per  risolverli.
Nella tabella seguente  sono  sintetizzate  le tipologie di  azioni non logiche, che come afferma Pareto non significano  azioni illogiche.

Tabella azioni non logiche


GENERI

Argomentazioni  strumenti
Fini

NON LOGICHE NON SPERIMENTALI

Abitudini

LOGICHE NON SPERIMENTALI

Fine soggettivo

SPERIMENTALI NON LOGICHE

atti istintivi

LOGICO SPERIMENTALI
NON CORRETTE

Fine soggettivo

II° genere: vi appartiene la quasi totalità delle azioni oggetto dello studio di Pareto. Gli atti non sono logicamente connessi al risultato, ma lo sono nella coscienza di chi agisce nella convinzione che siano i più adeguati per raggiungere lo scopo.
IV° genere: è il tipico caso di chi si adopera per conseguire uno scopo predisponendo atti idonei a conseguirlo può accadere che il risultato effettivo sia diverso da quello sperato, questo è' il tipico caso dell'errore nel quale ricade l'attore sociale.
Pareto tratta le derivazioni  nel Capitolo IX,  del Trattato di sociologia.
In questo  termini:” Gli uomini si lasciano persuadere in principal modo dai sentimenti (residui), e quindi possiamo prevedere, il che poi è confermato dall'esperienza, che le derivazioni trarranno forza, non da considerazioni logico-sperimentali, od almeno non esclusivamente da queste, ma dai sentimenti. Nelle derivate il nocciolo principale è costituito da un residuo o da un certo numero di residui, intorno al quale si aggruppano altri residui secondari. Tale aggregato è fatto nascere e, quando è nato, tenuto saldo da una forza potente, che è il bisogno che prova l'uomo di sviluppi logici o pseudo-logici,….”
Pareto  ha individuato un certo numero  di  residui però per la ricerca dell’ofelimità in mediazione  quello  classificato come residuo  della persistenza degli aggregati, è il più idoneo.  Questo  residuo identifica il costrutto di quei sentimenti e di quelle spinte emotive che facilitano il salto da una logica egoistico-autoreferenziale ad una altruistica ed aperta alle esigenze dell'"altro", va specificato  che non si devono considerare i residui come concetti che aggregano sentimenti o istinti, ma si  devono intendere come indicatori di sentimenti o istinti.
I residui  sono  simili agli algoritmi segnalano una certa procedura nell’agire, le derivazioni ossia  le argomentazioni  o  gli strumenti utilizzati sono gli input  che saranno  elaborati.
Le derivazioni, che riguardano in mediazione il tipo  di  linguaggio utilizzato possono  tendere a esprimere opinioni, credenze, ordini , argomenti persuasivi o dissimulativi. Possono essere finalizzate a spiegare, interpretare, manifestare un’emozione,a celare il fine che si vuole raggiungere, per tutti  queste coloriture le derivazioni più che atti oggettivamente logici sono atti considerati ragionevoli da chi li compie.
Va sempre tenuto  conto che se, durante  gli incontri  di  mediazione, si fanno  aumentare i parametri “oggettivi” della lite il mediatore, oltre a esprimere un impegno intellettuale e di coscienza sempre più elevato, può incorrere nella trappola di confondere  i vincoli che sono  le costanti della lite con i gradi di libertà, che sono variabili per esplorarla. In questa situazione non  aiuta a risolvere la  lite, ma crea altre zone di  conflitto. La situazione per la mediazione alla quale tendere è quella schematizzata nel  genere IV.
Gli uomini hanno sempre vinto quando hanno teso le loro decisioni controllando i propri residui nell'ambito delle azioni non logiche - Generi IV, perché in questa situazione si attiva nella mente una specie di motore cognitivo che funziona in modo  efficiente perché  i soggetti hanno una certezza che deriva dall’esperienza del proprio vissuto che le azioni che stanno attuando portino certamente al risultato sperato.

Dott. Carlo Baratta (mediatore)

Bibliografia

P.L. Berger  e  T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, 1969
N. Bobbio, Pareto e il sistema sociale, Sansoni, 1973
F. Burzio, Il concetto di residui in P, Giornale degli economisti n. 3-4/1948
P. Busino, Guida a Pareto. Per una teoria critica delle scienze della società, Rizzoli, 1975
M.L. Maniscalco, Vilfredo Pareto e la «ragione debole», F. Angeli, 1994
A. Mutti, Il contributo di Pareto alla sociologia delle emozioni, F. Angeli, 1994       
D. Padua, Agire creativo e senso della razionalità in Pareto, F. Angeli, 2009
G. Pollini, Classificazioni delle azioni e tipologia dell’agire sociale. Pareto e Weber Studi  sociologia, 22, 4, 1984.

Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 14/2017

AVVISO. Il testo riportato è quello inviato in Redazione dall’Autore, il quale è il solo responsabile di quanto scritto a tutti gli effetti di legge.

21 febbraio 2017

13/17. Mediazione instaurata oltre i 15 giorni assegnati dal giudice: no all’improcedibilità della domanda (Osservatorio Mediazione Civile n. 13/2017)

=> Corte di appello di Milano, 28 giugno 2016

Il mancato rispetto di un termine di natura ordinatoria, fissato dal giudice in stretta applicazione dei termini di legge previsti ai sensi dell'art. 5, d.lgs. 28/2010, non comporta l'improcedibilità del giudizio, stante la natura non perentoria del termine medesimo, la cui mancata osservanza non determina effetti decadenziali, atteso che il tentativo di mediazione è stato regolarmente espletato (I).


Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 13/2017

Corte di appello di Milano
Ordinanza
28 giugno 2016

Omissis

Considerato che:
- il giudice di prime cure ha disposto l'instaurazione del procedimento di mediazione secondo quanto previsto ai sensi dell'art. 5 d.lgs. n. 28/2010, fissando il termine di legge di 15 giorni per il deposito della domanda di mediazione;
- a fronte del tardivo deposito della suddetta domanda, avvenuto il 18 novembre 2015 e, pertanto, oltre il termine del 31 luglio 2015 indicato dal giudice in conformità alla norma di cui sopra, il giudice di prima istanza ha dichiarato l'improcedibilità del giudizio nonostante fosse stata dal medesimo accertata la natura ordinatoria del termine suddetto;
- il mancato rispetto di un termine di natura ordinatoria, fissato dal giudice in stretta applicazione dei termini di legge previsti ai sensi dell'art. 5 d.lgs. n. 28/2010, non comporterebbe pertanto l'improcedibilità del giudizio, stante la natura non perentoria del termine medesimo, la cui mancata osservanza non determina certamente gli effetti decadenziali rilevati dal giudice, atteso che il tentativo di mediazione è stato regolarmente espletato;
- ai fini del decidere il merito della controversia, risulta pertanto necessario procedere alla fase istruttoria sollecitata dal sig. omissis sin dal primo grado di giudizio, francata solo per effetto della declaratoria d' improcedibilità;
- risulta pertanto necessario procedere alla nomina di un consulente tecnico affinché venga effettuata una perizia calligrafica sulla sottoscrizione apposta alla fideiussione asseritamente rilasciata da parte del sig. omissis nei confronti di omissis s.a.s. di omissis, disconosciuta dalla parte opponente sin dall'atto di opposizione e di cui la controparte ha chiesto di avvalersi producendone l'originale;
alla stregua di quanto rilevato, è necessario nominare all'uopo il CTU dott. omissis cui si assegna il seguente quesito peritale: "omissis".

PQM

La Corte d'Appello nomina quale CTU dott. omissis, convocandolo per il conferimento del suddetto incarico innanzi al consigliere relatore omissis all'udienza monocratica che si terrà il omissis.

AVVISO. Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità.

17 febbraio 2017

12/17. Mediazione delegata: cosa accade se il mediatore contravviene alla prescrizione del giudice di formulare la proposta conciliativa? (Osservatorio Mediazione Civile n. 12/2017)

=> Tribunale di Vasto, 15 giugno 2016

Nell’ipotesi in cui il giudice, con l’ordinanza ex art. art. 5, comma 2, d.lgs. 28/2010 con cui invia le parti in mediazione, statuisca che, in caso di mancato raggiungimento di un accordo amichevole, il mediatore debba comunque provvedere alla formulazione di una proposta di conciliazione, anche in assenza di una concorde richiesta delle parti, se il mediatore – contravvenendo ad una puntuale prescrizione del giudice – ometta immotivatamente di formulare la propria proposta conciliativa, limitandosi a dichiarare chiuso il procedimento di mediazione con esito negativo, la procedura di mediazione va essere completata con la formulazione di una proposta conciliativa da parte del mediatore; il procedimento di mediazione deve essere quindi riaperto, innanzi allo stesso mediatore e senza oneri economici aggiuntivi per le parti (I).



Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 9/2017

Tribunale di Vasto
Ordinanza
15 giugno 2016

Omissis

vista l’ordinanza del omissis, con la quale questo giudice ha disposto, ai sensi dell’art. 5, secondo comma, del D.L.gs. 4 marzo 2010, n. 28, l'esperimento del procedimento di mediazione, quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale;
rilevato, in particolare, che con la predetta ordinanza il giudice ha statuito che, in caso di effettivo svolgimento della mediazione che non si fosse concluso con il raggiungimento di un accordo amichevole, il mediatore dovesse comunque provvedere alla formulazione di una proposta di conciliazione, anche in assenza di una concorde richiesta delle parti;
preso atto che, per concorde deduzione svolta dalle parti all’udienza del omissis, il mediatore – contravvenendo ad una puntuale prescrizione del giudice – ha immotivatamente omesso di formulare la propria proposta conciliativa, limitandosi a dichiarare chiuso il procedimento di mediazione con esito negativo;
ritenuto, pertanto, che la procedura di mediazione non è stata ritualmente svolta, essendo stato omesso un passaggio cruciale e ineludibile, che connota la natura stessa dell’attività del mediatore (viepiù alla luce della riforma introdotta dal D.L. 21.06.2013 n. 69, a seguito del quale la mediazione, all’art. 1, comma 1°, lett. a), non viene più definita come «l’attività, comunque denominata, svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o più soggetti, sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa», bensì come «l’attività [...] per la composizione di una controversia, anche con formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa») e senza il quale al giudice è preclusa la possibilità di compiere le valutazioni ad esso spettanti, ai sensi dell’art. 13 D. Lgs. n. 28/10;
ritenuto, pertanto, che la procedura di mediazione debba essere completata con la formulazione di una proposta conciliativa da parte del mediatore, in ottemperanza alle direttive impartite dal giudice con l’ordinanza del 14.07.2015;
considerato, peraltro, che il procedimento di mediazione debba essere riaperto innanzi allo stesso mediatore che lo ha precedentemente condotto e senza oneri economici aggiuntivi per le parti, dal momento che la irrituale definizione della procedura è da imputarsi esclusivamente ad una omissione del mediatore;

PQM

dispone che le parti provvedano, senza oneri economici aggiuntivi, a riattivare la procedura di mediazione innanzi allo stesso mediatore che l’ha precedentemente condotta, affinché il mediatore formuli una proposta di conciliazione, ai sensi dell’art. 11 del D. Lgs. n. 28/10, anche in assenza di una concorde richiesta delle parti; assegna alle parti termine di giorni quindici per la riattivazione della procedura di mediazione, rendendo noto che l’omissione è sanzionata – per la parte attrice – a pena di improcedibilità della domanda giudiziale; precisa che le parti dovranno essere presenti dinanzi al mediatore personalmente e con l’assistenza legale di un avvocato iscritto all’Albo e che la mancanza (o il rifiuto) di partecipazione personale delle parti senza giustificato motivo agli incontri di mediazione può costituire, per la parte attrice, causa di improcedibilità della domanda e, in ogni caso, per tutte le parti costituite, presupposto per l’irrogazione – anche nel corso del giudizio – della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 8, comma 4 bis, D. Lgs. n. 28/10, oltre che fattore da cui desumere argomenti di prova, ai sensi dell’art. 116, secondo comma, c.p.c.; invita le parti a produrre copia dei verbali degli incontri di mediazione e a comunicare all’Ufficio l’esito della procedura di mediazione con nota da depositare in Cancelleria, almeno 10 giorni prima della prossima udienza, la quale dovrà contenere informazioni in merito ai motivi del rifiuto della proposta di conciliazione formulata dal mediatore; rinvia la causa all’udienza del omissis, per le determinazioni da assumere in ordine al prosieguo della causa; manda alla Cancelleria per la comunicazione della presente ordinanza per intero.

AVVISO. Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità.

15 febbraio 2017

11/17. Voce enciclopedica “Mediazione demandata” (Osservatorio Mediazione Civile n. 11/2017)

Mediazione demandata (voce)
di Giulio SPINA
AltalexPedia, Altalex, 2017
(voce agg. al 19/01/2017)




1. Introduzione
2. Apparato regolatorio ed evoluzione normativa
2.1. Disciplina originaria
2.2. Disciplina vigente
3. Diffusione della mediazione delegata
4. Ambito di applicazione
5. Disciplina e funzionamento in generale
6. Approfondimenti: questioni pratiche e dubbi interpretativi
6.1. La condizione di procedibilità
6.2. Il provvedimento del giudice
6.3. Corretto esperimento del procedimento di mediazione delegata
6.3.1. Termine per la presentazione della domanda di mediazione
6.3.2. Competenza territoriale
6.3.3. Contenuto dell’istanza di mediazione
6.3.4. Primo incontro di mediazione
6.4. Mancato esperimento del procedimento di mediazione
6.4.1. Conseguenze pratiche
6.4.2. La scelta di non partecipare alla mediazione va motivata
6.4.3. Irrogazione delle sanzioni
6.5. Mediazione demandata e art. 185-bis c.p.c.
6.6. Mediazione demandata in appello
6.7. Mediazione delegata e contumacia
6.8. E' oggi ammissibile l’invito del giudice alla mediazione?
6.9. La c.d. doppia mediazione

Il contributo è consultabile gratuitamente al seguente link:

Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 11/2017

9 febbraio 2017

10/17. La Cassazione (in tema di conciliazione obbligatoria AGCOM) conferma che l’onere di mediazione obbligatoria grava sull’opponente a decreto ingiuntivo? (Osservatorio Mediazione Civile n. 10/2017)

=> Cassazione civile, 14 dicembre 2016, n. 25611

Con riferimento alla questione circa l’assoggettamento del ricorso monitorio al previo esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione nelle materie riservate alle competenze dell'AGCOM va affermato che la peculiarità del procedimento monitorio consente di collegare la procedibilità dell'azione alla formale introduzione del giudizio di merito (mediante la notifica dell'atto di opposizione), piuttosto che alla introduzione della lite (mediante la notifica del ricorso e del provvedimento monitorio); tale soluzione appare funzionale alla logica deflattiva del processo cui tende il meccanismo conciliativo, come questa Corte ha già affermato, in quanto è con l'atto di opposizione - e non anche con il ricorso monitorio - che la parte interessata intende accedere al giudizio ordinario di cognizione (cfr. CorteCass. Sez. 3, Sentenza n. 24629 del 03/12/2015) (I).


Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 10/2017

Cassazione civile
Sezione terza
Sentenza n. 25611
14 dicembre 2016

Omissis

La Società ricorrente con l'unico motivo censura la sentenza di appello per violazione della L. n. 249 del 1997, art. 1, comma 11, e dell'art. 3, e art. 4, comma 2, del regolamento approvato da AGCM con delibera 182/02/CONS, nonchè per vizio di omessa motivazione sulla questione della abrogazione del predetto regolamento sostituito dal nuovo regolamento adottato con delibera AGCOM n. 173/07/CONS, sottoposta con i motivi di gravame, deducendo che il Giudice di appello aveva erroneamente ritenuto improcedibile la domanda di condanna proposta con il procedimento monitorio per mancato preventivo esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, non tenendo conto che la Corte costituzionale, esaminando questioni analoghe (con riferimento al tentativo obbligatorio di conciliazione previsto nelle controversie di lavoro ex artt. 410 e 412 bis c.p.c., e nelle controversie concernenti i rapporti di subfornitura L. 18 giugno 1998, n. 1992, ex art. 3, commi 4 e 10), aveva ritenuto invece incompatibile l'applicazione della condizione di procedibilità alla fase sommaria del procedimento monitorio che era caratterizzata dalla assenza di contraddittorio. Subordinatamente la ricorrente chiede sollevarsi questione di legittimità costituzionale della L. n. 249 del 1997, art. 1, comma 11, qualora si ritenesse estesa la condizione di procedibilità anche al procedimento monitorio.
La censura per vizio di "error in judicando" è fondata, con le precisazioni che seguono.
La L. 31 luglio 1997, n. 249, art. 1, comma 11, (recante "Istituzione dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui sistemi delle Telecomunicazioni e radiotelevisivo") dispone che "L'Autorità disciplina con propri provvedimenti le modalità per la soluzione non giurisdizionale delle controversie che possono insorgere fra utenti o categorie di utenti ed un soggetto autorizzato o destinatario di licenze oppure tra soggetti autorizzati o destinatari di licenze tra loro. Per le predette controversie, individuate con provvedimenti dell'Autorità, non può proporsi ricorso in sede giurisdizionale fino a che non sia stato esperito un tentativo obbligatorio di conciliazione da ultimare entro tenta giorni dalla proposizione dell'istanza all'Autorità. A tal fine, i termini per agire in sede giurisdizionale sono sospesi fino alla scadenza del termine per la conclusione del procedimento di conciliazione". Il regolamento di attuazione approvato con delibera AGCOM n. 182 del 2002, prevede un tentativo obbligatorio di conciliazione per tutte le controversie in cui "utenti, singoli o associati, ovvero gli organismi di telecomunicazioni, che lamentino la violazione di un proprio diritto o interesse protetti da un accordo di diritto privato o dalle norme in materia di Telecomunicazioni attribuite alla competenza dell'Autorità e che intendano agire in giudizio" (art. 3, comma 1), rimanendo assoggettata a tale condizione di procedibilità la proposizione del "ricorso giurisdizionale" (art. 4, comma 2).
Il D.Lgs. 1 agosto 2003, n. 259 (recante il "Codice delle comunicazioni elettroniche") che ha provveduto a trasporre la direttiva 2002/22/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio in data 7.3.2002 (direttiva servizio universale), ha disposto all'art. 84 che "1. L'Autorità, ai sensi della L. 31 luglio 1997, n. 249, art. 1, commi 11, 12 e 13, (recante istituzione dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e norme sui sistemi delle Telecomunicazioni e radiotelevisivo (Supplemento ordinario alla GURI n. 177 del 31 luglio 1997)) adotta procedure extragiudiziali trasparenti, semplici e poco costose per l'esame delle controversie in cui sono coinvolti i consumatori e gli utenti finali, relative alle disposizioni di cui al presente Capo, tali da consentire un'equa e tempestiva risoluzione delle stesse, prevedendo nei casi giustificati un sistema di rimborso o di indennizzo...".
Con delibera n. 173 del 2007 l'AGCOM ha adottato un nuovo regolamento che ha confermato il tentativo obbligatorio di conciliazione per "le controversie in materia di comunicazioni elettroniche tra utenti finali ed operatori, inerenti al mancato rispetto delle disposizioni relative al servizio universale ed ai diritti degli utenti finali stabilite dalle norme legislative, dalle delibere dell'Autorità, dalle condizioni contrattuali e dalle carte dei servizi" (art. 2, comma 1), disponendo che "il ricorso in sede giurisdizionale è improcedibile fino a che non sia stato esperito il tentativo obbligatorio di conciliazione dinanzi al Co. re. com competente per territorio munito di delega a svolgere la funzione conciliativa, ovvero dinanzi agli organismi di risoluzione extragiudiziale delle controversie di cui all'art. 13" (art. 3, comma 1), e precisando che "Sono escluse dall'applicazione del presente Regolamento le controversie attinenti esclusivamente al recupero di crediti relativi alle prestazioni effettuate, qualora l'inadempimento non sia dipeso da contestazioni relative alle prestazioni medesime. In ogni caso, l'utente finale non è tenuto ad esperire il tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dall'articolo 3 per formulare eccezioni, proporre domande riconvenzionali ovvero opposizione a norma degli art. 645 c.p.c. e ss." (art. 2, comma 2).
Orbene il nuovo regolamento è stato adottato con delibera 19.4.2007 entrata in vigore, ai sensi dell'art. 5, comma 4, il trentesimo giorno dalla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 120 del 25/05/2007, e dunque a far data dal 24.6.2007.
La ricorrente non fornisce alcuna indicazione sulla data di deposito del ricorso ex art. 633 c.p.c., nè sulla data di deposito del decreto ingiuntivo, ma considerato che l'atto di citazione in opposizione è stato notificato dalla ingiunta in data il 21.12.2007 (cfr. ricorso pag. 2), tenuto conto dei termini massimi previsti dall'art. 644 c.p.c., art. 641 c.p.c., comma 1, art. 645 c.p.c., deve ritenersi che il procedimento monitorio si sia svolto nella vigenza del nuovo regolamento. L'erronea identificazione del regolamento da pare del Giudice di merito non comporta, tuttavia, specifiche conseguenze sulla questione di diritto - che si pone, almeno in parte, in modo analogo anche nel nuovo regolamento - relativa all'assoggettamento al preventivo tentativo obbligatorio di conciliazione "anche" della "fase sommaria" della procedura monitoria. Occorre considerare, infatti, che la diversa previsione contenuta nell'art. 2, comma 2, del regolamento approvato con delibera AGCOM n. 173/2007 (secondo cui "l'utente finale non è tenuto ad esperire il tentativo obbligatorio di conciliazione … per formulare … opposizione a norma degli articoli 645 c.p.c. e ss.") rispetto a quella originariamente contenuta nell'art. 3, comma 1, del precedente regolamento approvato con delibera AGCOM n. 182/2002 (che si limitava ad individuare le controversie sottoposte al tentativo obbligatorio di conciliazione, con riferimento a quelle in cui veniva in questione la tutela di un diritto od interesse "protetti da un accordo di diritto privato o dalle norme in materia di Telecomunicazioni attribuite alla competenza dell'Autorità…") non può ritenersi dirimente ai fini della soluzione della questione sottoposta alla Corte, tenuto conto che nè la L. n. 249 del 1997, nè il successivo Codice delle comunicazioni elettroniche di cui al D.Lgs. 1 agosto 2003, n. 259, autorizzavano la Autorità indipendente a definire l'ambito applicativo della condizione di procedibilità, in relazione a determinati atti del processo od in relazione a tipologie di atti costituenti esercizio del diritto di difesa. La L. n. 249 del 1997, art. 1, comma 11, - richiamato espressamente dall'art. 84 del Codice - ha definito la competenza in materia dell'AGCOM circoscrivendone l'ambito:
a) alla disciplina delle "modalità" attraverso le quali le parti in lite potenziale possono pervenire ad una "soluzione non giurisdizionale" delle controversie, essendo tenuta l'AGCOM, ai sensi dell'art. 84 del Codice, a predisporre modalità procedurali "trasparenti, semplici e poco costose…, tali da consentire un'equa e tempestiva risoluzione delle stesse";
b) alla individuazione delle singole tipologie di controversie - in materia di comunicazioni - tra utenti o categorie di utenti ed un soggetto autorizzato o destinatario di licenze, ovvero tra soggetti autorizzati o destinatari di licenze, da assoggettare alla procedura conciliativa obbligatoria.
Le coordinate assegnate dalle norme di legge all'AGCOM definiscono i limiti del potere legittimamente esercitabile da tale Autorità, con la conseguenza che, indipendentemente dalla esatta qualificazione giuridica del potere esercitato, di natura regolamentare (come sembra propendere la giurisprudenza amministrativa - cfr. Cons. Stato 3^ sez., sentenza 9.4.2013 n. 1961), ovvero di natura amministrativa (attraverso la emanazione di atti amministrativi generali, come sembrerebbe deporre la L. n. 249 del 1997, stesso art. 1, comma 11, laddove, diversamente da altre disposizioni in cui è prevista esplicitamente la potestà regolamentare - art. 1, comma 6: lett. a), nn. 5, 10; lett. b), nn. 3, 5; lett. c), n. 2; art. 1, comma 9. Analogamente vedi: L. 14 novembre 1995, n. 481, art. 2, comma 28, - autorizza l'Autorità a disciplinare la materia "con propri provvedimenti"), la disposizione - sopra richiamata - dell'art. 2, comma 2, del "regolamento" approvato con delibera n. 173/2007, deve ritenersi in contrasto con la norma di legge attributiva della competenza, ed in quanto tale deve essere disapplicata ai sensi della L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 5, All. E. Ne segue che l'applicabilità alla fattispecie della delibera n. 173/2007 - emendata della disposizione disapplicata - non modifica i termini della questione, sottoposta all'esame della Corte, così come decisa dalla Corte d'appello di Roma se pure con riferimento al precedente regolamento approvato con delibera n. 182/2002.
Tanto premesso, osserva il Collegio che gli argomenti in diritto svolti dalla Corte territoriale a sostegno della tesi della estensione del tentativo obbligatorio di conciliazione anche alla "fase sommaria" della procedura monitoria, non possono essere condivisi.
Premesso che "il tentativo obbligatorio di conciliazione tende a soddisfare l'interesse generale sotto un duplice profilo, da un lato, evitando che l'aumento delle controversie attribuite al giudice ordinario in materia di lavoro provochi un sovraccarico dell'apparato giudiziario, con conseguenti difficoltà per il suo funzionamento; dall'altro, favorendo la composizione preventiva della lite, che assicura alle situazioni sostanziali un soddisfacimento più immediato rispetto a quella conseguita attraverso il processo" (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 276/2000, in motivazione, punto 3.4; Corte di giustizia UE sentenza 18.3.2010 in causa C-317/318/319/320/08, in motivazione, punto 64), e premesso altresì che le norme di legge e regolamentari in esame individuano "ratione materiae" l'obbligo di esperimento del tentativo di conciliazione come condizione di procedibilità del giudizio, senza alcuna distinzione in ordine al tipo di procedimento giurisdizionale od al rito processuale applicabile alla controversia (la espressione "ricorso in sede giurisdizionale", che compare nei regolamenti AGCOM, deve infatti intendersi riferita a qualsiasi domanda rivolta ad un Giudice diretta alla introduzione di una lite), ritiene il Collegio che la tendenziale onnicomprensività, nella disciplina della conciliazione obbligatoria, di qualsiasi azione giurisdizionale attinente alle materie riservate alla competenza dell'AGCOM, deve pur sempre essere riguardata in funzione dello scopo che tali norme si prefiggono, con la conseguenza che l'obbligatorietà del tentativo di risoluzione extragiudiziaria della controversia, comportando un inevitabile effetto dilatorio della tutela giurisdizionale, dovuto ai tempi - per quanto ridotti - di svolgimento della procedura conciliativa, viene necessariamente a cedere di fronte ad immediate esigenze di tutela anticipata cui provvedono le "misure cautelari", in quanto strumentali ad evitare un attuale pregiudizio grave ed irreparabile al diritto, mentre, in relazione ad altri "procedimenti sommari", diretti a fornire spedita tutela al diritto allo scopo di evitare lo svolgimento del giudizio di merito, si tratterà di verificare, caso per caso, se gli obiettivi cui è preordinato il tentativo obbligatorio di conciliazione siano egualmente o meglio - già assicurati dalle modalità di svolgimento di tali procedimenti giurisdizionali (rendendosi quindi inutile un ulteriore aggravio di tempi connessi alla procedura conciliativa), ovvero se, invece, la procedura conciliativa, intesa a pervenire ad un accordo stragiudiziale sostitutivo della decisione di merito adottata all'esito del giudizio, risulti oggettivamente incompatibile con la struttura stessa di detti procedimenti. In entrambi questi casi, infatti, tali procedimenti dovrebbero ritenersi sottratti alla condizione di procedibilità del previo esperimento del tentativo conciliativo. Sul punto è intervenuta la Corte costituzionale con la sentenza n. 376/2000 (concernente la procedura conciliativa obbligatoria introdotta nel rito del lavoro: successivamente la condizione di procedibilità è venuta meno con l'abrogazione dell'art. 412 bis c.p.c., disposto dalla L. 4 novembre 2010, n. 163, art. 31, comma 16) che ha ritenuto di individuare nel contraddittorio delle parti l'elemento di incompatibilità strutturale tra il procedimento di conciliazione (che tale contraddittorio presuppone) ed il procedimento monitorio (che non prevede contraddittorio, nella fase sommaria), rilevando che "Invero, il tentativo obbligatorio di conciliazione è strutturalmente legato ad un processo fondato sul contraddittorio. La logica che impone alle parti di incontrarsi in una sede stragiudiziale, prima di adire il giudice, è strutturalmente collegata ad un (futuro) processo destinato a svolgersi fin dall'inizio in contraddittorio fra le parti. All'istituto sono quindi per definizione estranei i casi in cui invece il processo si debba svolgere in una prima fase necessariamente senza contraddittorio, come accade per il procedimento per decreto ingiuntivo. Non avrebbe infatti senso imporre, nella fase pregiurisdizionale relativa al tentativo di conciliazione, un contatto fra le parti che invece non è richiesto nella fase giurisdizionale ai fini della pronuncia del provvedimento monitorio". (punto 6.1, motivazione). E non pare dubbio che tale medesimo argomento sia stato alla base anche della disciplina della condizione di procedibilità della "mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali", introdotta dal travagliato decreto delegato 4.3.2010 n. 29 (attuativo della L. n. 69 del 2009, art. 60) che all'art. 5, comma 4, lett. a), ha previsto espressamente tra i casi per i quali è esclusa la obbligatorietà della mediazione, i "procedimenti per ingiunzione, inclusa l'opposizione, fino alla pronuncia sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione" (postergando, quindi, il tentativo obbligatorio all'esito della fase liminale del giudizio di merito introdotto con la notifica della citazione in opposizione). La norma in questione viene qui, evidentemente, richiamata soltanto nei limiti in cui può fornire un utile ausilio interpretativo della L. n. 249 del 1997, art. 1, comma 11, e del regolamento AGCOM, atteso che la disciplina della mediazione non trova applicazione alle controversie per le quali sono già previste forme alternative di risoluzione anticipata (cfr. D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 23, comma 2, che dispone: "Restano ferme le disposizioni che prevedono i procedimenti obbligatori di conciliazione e mediazione, comunque denominati, nonchè le disposizioni concernenti i procedimenti di conciliazione relativi alle controversie di cui all'articolo 409 del codice di procedura civile. I procedimenti di cui al periodo precedente sono esperiti in luogo di quelli previsti dal presente decreto"). L'argomento della Corte d'appello, fondato sulla mera interpretazione letterale della norma di cui alla L. n. 249 del 1997, art. 1, comma 11, per cui la genericità del sintagma "ricorso giurisdizionale" verrebbe a ricomprendere anche il ricorso notificato con pedissequo decreto ingiuntivo, ai sensi degli artt. 633 e 641 c.p.c., non tiene conto della specifica funzione deflattiva dei processi avanti l'AG, cui viene ad assolvere il procedimento obbligatorio di conciliazione, mentre si risolve in un paralogismo l'argomento secondo cui la condizione di procedibilità, nelle controversie in materia di comunicazioni, trova applicazione anche al ricorso monitorio, in quanto la inapplicabilità della stessa non è stata mai affermata dal Giudice delle Leggi, tenuto conto che quest'ultimo, nelle ripetute pronunce aventi ad oggetto il tentativo obbligatorio di conciliazione previsto dalla L. n. 249 del 1997, art. 1, comma 11, non è mai stato chiamato ad esaminare la specifica ipotesi della domanda proposta con ricorso monitorio (cfr. Corte costituzionale: n. 125/2006 dichiarativa della manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale -in relazione peraltro a domanda proposta nelle forme del giudizio ordinario di cognizione-; n. 403/2007, concernente la inapplicabilità della condizione di procedibilità al procedimento cautelare per provvedimento di urgenza ex art. 700 c.p.c.; n. 51/2009 dichiarativa della infondatezza della questione, relativamente a giudizio di condanna proposto nelle forme ordinarie). Non trova, peraltro, valido fondamento normativo l'argomento speso nella sentenza di appello che correla la necessità di sottoporre al tentativo di conciliazione anche il procedimento monitorio, alla ipotizzata asimmetria nell'esercizio del diritto difesa, sul rilievo per cui "normalmente" è la società gestore od operatrice che ricorre allo strumento del provvedimento monitorio (per mancato pagamento dei servizi fatturati): se da un lato, infatti, occorre considerare che il provvedimento monitorio è accordato dall'ordinamento al creditore munito di prova scritta del titolo, non incidendo quindi il dato della frequenza statistica dell'utilizzo del ricorso monitorio, sulla identica tutela giurisdizionale riconosciuta ad entrambe le parti contraenti, sicchè nel caso di recupero di importi pagati e risultati indebitamente fatturati, bene l'utente finale potrà anch'egli ricorrere al provvedimento monitorio, senza essere sottoposto alla condizione di procedibilità di cui alla L. n. 249 del 1997, art. 1, comma 11, dall'altro lato, la esigenza di prevedere l'applicazione della conciliazione obbligatoria anche nelle controversie promosse con il rito monitorio, in quanto istituto preordinato a tutela del consumatore (rappresentata anche dal Procuratore generale nella propria requisitoria), deve essere ricondotta nel corretto alveo definito dalla disciplina normativa comunitaria, e specificamente dalla direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 7.3.2002, 2002/22/CE (relativa al "servizio universale ed ai diritti degli utenti in materia di reti e servizi di comunicazione elettronica") come interpretata dalla Corte di giustizia UE. Il Giudice di Lussemburgo chiamato ad esprimersi, con la sentenza 18.3.2010 in cause riunite C317-320/08, Alassini ed altri, proprio sulla conformità all'ordinamento comunitario dell'art. 84 del Codice e della delibera AGCOM n. 173/2007, ha individuato i limiti inderogabili a tutela dei consumatori, non nella previsione da parte dei singoli Stati membri della procedura conciliativa "obbligatoria" - essendo assolutamente liberi gli Stati di determinare le modalità della procedura che deve essere semplice, poco costosa e risultare idonea a pervenire ad una risoluzione equa e tempestiva delle controversie: art. 34 direttiva -, ma nella verifica che le diverse modalità adottate dai singoli Stati membri non pregiudichino in alcun modo l'accesso alle "procedure giudiziarie nazionali" (art. 34 direttiva), e comunque rispondano ai principi di "equivalenza" e di "effettività" della tutela dei diritti conferiti ai singoli dalla direttiva (declinandosi tale effettività: 1. nella esclusione del carattere vincolante al risultato della procedura di conciliazione; 2. nella previsione della sospensione della prescrizione del diritto controverso; 3. nel contenimento dei costi della procedura; 4. nella assicurazione della tutela cautelare anche in pendenza della procedura).
Pertanto, fermo l'obiettivo assegnato agli Stati membri dalla direttiva "servizio universale", volto alla introduzione di forme di risoluzione extragiudiziali delle controversie tra utenti e gestori dei servizi di comunicazione, l'assenza di ulteriori vincoli imposti dalla direttiva comunitaria all'attuazione della disciplina delle procedure, non pone in conflitto con le disposizioni comunitarie la interpretazione delle norme della L. n. 249 del 1997, e della delibera AGCOM n. 173/2007 che fa leva sul requisito strutturale della fase sommaria del procedimento monitorio, come procedimento volto a consentire una spedita definizione della controversia, secondo modalità procedurali che prevedono solo in via eventuale la introduzione del giudizio (mediante notifica della opposizione al decreto ingiuntivo), per sottrarre tale fase al preventivo esperimento del tentativo di conciliazione obbligatoria, laddove la esigenza di assicurare al destinatario della ingiunzione la possibilità di definire in via extragiudiziaria la controversia, può essere garantita nella seconda fase, analogamente a quanto previsto dalla disciplina legislativa della mediazione (D.Lgs. n. 28 del 2010, art. 5, comma 4) che, avuto riguardo alla perentorietà del termine stabilito per la proposizione della opposizione (termine che, in difetto di espressa norma di legge, non viene ad essere sospeso dalla proposizione della istanza di mediazione, divenendo definitivo ed irrevocabile il decreto di condanna in caso di omessa attivazione dell'opponente), colloca la operatività della condizione di procedibilità nel momento immediatamente successivo a quello in cui il Giudice dispone in "limine litis", ai sensi degli artt. 648 e 649 c.p.c., rispettivamente, la concessione o la sospensione della provvisoria esecuzione del provvedimento monitorio. La peculiarità del procedimento monitorio, consente, pertanto, di collegare la procedibilità dell'azione alla formale introduzione del giudizio di merito - mediante la notifica dell'atto di opposizione -, piuttosto che alla introduzione della lite - mediante la notifica del ricorso e del provvedimento monitorio -, soluzione che, da un lato, appare funzionale alla logica deflattiva del processo cui tende il meccanismo conciliativo, come questa Corte ha già affermato, in quanto è con l'atto di opposizione - e non anche con il ricorso monitorio - che la parte interessata intende accedere al giudizio ordinario di cognizione (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 24629 del 03/12/2015), e dall'altro, risponde alla peculiare struttura del procedimento monitorio che, nella fase sommaria, volta a conseguire agevolmente una definizione della lite senza giudizio di merito, non richiede la instaurazione di un contraddittorio, invece previsto dalla procedura conciliativa che, pertanto, se applicata "anticipatamente" al momento della proposizione del ricorso monitorio ex art. 633 c.p.c., priverebbe di utilità tale fase sommaria che, in caso di fallimento del tentativo di conciliazione, si risolverebbe in una mera dilazione dei tempi necessari a pervenire alla definizione del giudizio di merito, in palese distonia con il principio di speditezza e di ragionevole durata dei processi ex art. 111 Cost..
Pertanto, deve ritenersi non conforme a diritto, e va dunque cassata, la statuizione del Giudice di appello che ha ritenuto di assoggettare il ricorso monitorio, nelle materie riservate alle competenze dell'AGCOM, al previo esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, dovendo in conseguenza ritenersi errata la qualificazione della condizione di accesso al giudizio di merito avanti l'AG, prevista dalla L. n. 249 del 1997, art. 1, comma 11, come "condizione di proponibilità" dell'azione giudiziaria - in tal senso è stata implicitamente intesa dai Giudici di merito che hanno revocato il decreto monitorio -, dovendo la stessa intendersi piuttosto avuto riguardo alle indicate modalità di applicazione del modello conciliativo alla peculiare disciplina processuale del ricorso monitorio - come "condizione di procedibilità", conformemente alla interpretazione che della norma di legge è stata fornita da questa Corte (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 14103 del 27/06/2011; id. Sez. 1, Sentenza n. 24711 del 04/12/2015) alla stregua della esplicita indicazione contenuta nell'art. 3, comma 1, del "regolamento" approvato con delibera AGCOM n. 173/2007 ("... il ricorso in sede giurisdizionale è improcedibile fino a che non sia stato esperito il tentativo obbligatorio di conciliazione...").  Ne segue che il giudice di primo grado o di appello, qualora dichiari la temporanea improcedibilità della opposizione a decreto ingiuntivo, deve sospendere il processo ed assegnare, ove necessario, alle parti, il termine per l'esperimento dello stesso, restando salvi, al momento della prosecuzione del processo, gli effetti sostanziali e processuali dell'atto introduttivo del giudizio di merito proposto dall'opponente.
In conclusione il ricorso proposto da omissis trova accoglimento, e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio della causa alla Corte d'appello di Roma, in altra composizione, perchè attenendosi ai principi di diritto enunciati in motivazione al p. 5., provveda a verificare la procedibilità della opposizione a decreto ingiuntivo, adottando i conseguenti provvedimenti e, liquidando, all'esito del giudizio di merito, anche le spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d'appello di Roma, in diversa composizione, affinchè attenendosi ai principi di diritto enunciati in motivazione al p. 5., provveda a verificare la procedibilità della opposizione a decreto ingiuntivo, adottando i conseguenti provvedimenti e, liquidando, all'esito del giudizio di merito, anche le spese del giudizio di legittimità.

AVVISO. Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità.

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