DIRITTO D'AUTORE


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21 aprile 2015

18/15. Mancata partecipazione alla mediazione: non è giustificato motivo ritenere erronea la tesi della controparte (Osservatorio Mediazione Civile n. 18/2015)

=> Tribunale di Roma, 29 maggio 2014

È un’aporia affermare che ogni qualvolta la controparte ritenga erronea la tesi della parte che l’ha convocata in mediazione, e pertanto inutile la sua partecipazione all’esperimento di mediazione, essa sia validamente dispensata dal comparirvi. Così ragionando, infatti, sussisterebbe sempre in ogni causa un giustificato motivo di non comparizione. La ragione d’essere della mediazione si fonda proprio sulla esistenza di un contrasto di opinioni, di vedute, di volontà, di intenti, di interpretazioni etc., che il mediatore esperto tenta di sciogliere favorendo l’avvicinamento delle posizioni delle parti fino al raggiungimento di un accordo amichevole.

Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 18/2015

Tribunale di Roma
Sezione XIII
sentenza
29 maggio 2014

Omissis

Le conseguenze della mancata partecipazione del convenuto ritualmente convocato al procedimento di mediazione attivato dall’attore su disposizione del giudice ex art. 5 co. II° decr. lgsl. 28/10 comma (mediazione demandata).

L’art.8 co.IV° bis prima parte del decr. lgsl. 28/2010 relativamente alla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione prevede che il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile.

La norma si applica a differenza della seconda parte dell’art. 8 co.IV° bis (relativa al contributo unificato) che riguarda solo le parti costituite, a tutte le parti.

La (in)sussistenza di un giustificato motivo per non aderire, non presentandosi, all’ incontro di mediazione.

Quanto al giustificato motivo addotto dall’assicurazione per non aderire alla disposizione del giudice emessa ai sensi dell’art.5 co.II° (che per l’attore non è più un invito, per quanto autorevole,come previsto dalla previgente norma, ma un ordine, presidiato com’è dalla improcedibilità della domanda in caso di inottemperanza), l’affermazione avente ad oggetto la ritenuta congruità delle somme già versate, non può essere condivisa.

Traslando tale ragionamento in generale si potrebbe infatti affermare che ogni qualvolta la controparte ritenga erronea la tesi della parte che l’ha convocata in mediazione (come in questo caso), e pertanto inutile la sua partecipazione all’esperimento di mediazione, essa sia validamente dispensata dal comparirvi.

L’esponente non si avvede nell’aporia in cui incorre posto che così ragionando sussisterebbe sempre in ogni causa un giustificato motivo di non comparizione, se è vero com’è vero che se la controparte condividesse la tesi del suo avversario la lite non potrebbe neppure insorgere e se insorta verrebbe subito meno. La ragione d’essere della mediazione si fonda proprio sulla esistenza di un contrasto di opinioni, di vedute, di volontà, di intenti, di interpretazioni etc., che il mediatore esperto tenta di sciogliere favorendo l’avvicinamento delle posizioni delle parti fino al raggiungimento di un accordo amichevole.

In questo caso poi l’assicuratore aveva una doppia ragione per partecipare alla mediazione: da una parte la sussistenza dell’usuale conflitto di opinioni fra le parti che in questo caso verteva sulla sussistenza o meno dell’esatto adempimento dell’obbligo risarcitorio ritenuto sussistente dall’assicurazione ed insussistente dall’attore.

Dall’altra la circostanza che il giudice aveva evidentemente (come suggeriva il contenuto della coeva proposta ex art.185 bis) esaminato gli atti, studiato le posizioni delle parti, ed infine effettuata una delibazione che, in relazione alle circostanze tutte indicate dal secondo comma dell’art.5 decr. lgsl.28/2010, lo aveva convinto della utilità di un percorso di mediazione nell’ambito del quale le parti avrebbero potuto approfondire le rispettive posizioni fino al raggiungimento di un accordo per entrambe vantaggioso.

Omissis

Roma lì 29.5.2014
Il Giudice
dott. cons. Massimo Moriconi


AVVISO. Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità.

16 aprile 2015

18/15. C. Baratta: Tipologie di razionalità in una situazione di mediazione (Osservatorio Mediazione Civile n. 18/2015)

Pubblichiamo, con piacere, un interessante contributo giunto in Redazione.

Tipologie di razionalità in una situazione di mediazione

di Carlo Baratta
(Mediatore in Torino)

Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 18/2015

Il non possibile e l'impossibile non sono  termini della mediazione.

Il conflitto in mediazione va considerato come un campo di possibilità per mostrare all'altra parte le proprie volontà, le proprie intenzioni o, al contrario, di dissimulare queste volontà e queste intenzioni; o, ancora, simulando certe intenzioni ed azioni, per spingere l'altro a comportarsi di conseguenza, dunque, lo spazio di interazione e di comunicazione con l'altro diviene un vero e proprio campo di manovra.
Le liti moderne da risse verbali e fisiche si stanno trasformando, anche grazie alla mediazione in conflitto per segni. Le armi che hanno a disposizione  le due parti,sono armi virtuali, che riguardano principalmente, non l'agire in senso materiale, ma la trasformazione del comportamento atteso dell’altro: spingendolo a fare o a non fare (manipolazione) all'impedire di fare (dissuasione), all'obbligare a fare (costrizione), alla seduzione intesa come un mostrare di essere in un certo modo, affinché l'altro faccia qualcosa.
Al fine di aiutare il mediatore a districarsi nell’universo delle parole e dei comportamenti delle parti è utile affidarsi a qualche concetto per collocare meglio l’analisi  sull’agire razionale in mediazione: il necessario, il possibile e l'impossibile.
Per realizzare una mediazione soddisfacente per tutti gli attori, le due parti e il mediatore, ognuno dovrebbe stabilire cosa per lui è il necessario da condurre a termine, in ogni modo, lavorando con forte volontà e con finalità coerenti con il necessario con l’essenziale si possono perseguire delle soluzioni possibili, queste diventano le condizioni per arrivare ad una soluzione ritenuta inizialmente impossibile.
La mediazione, come è noto è un sistema di ricerca di soluzioni flessibile con l’unico vincolo delle norme imperative, ma queste ultime sono sempre più ridotte dalla scienza e dalla tecnologia, si pensi ad esempio alla clonazione o al trapianto di organi resi oggi azioni possibili, ma giudicate  impossibili fino a poco tempo fa.
Perciò si può affermare che, l'impossibile non esiste, basta fare tutto il necessario, per determinarlo. Il più delle volte non compiamo affatto il necessario e quindi non si riesce a raggiungere neppure il possibile.
L'impossibile poi è tale secondo il senso della parola stessa, in genere non ci pensiamo neppure.
Quindi  occorre per prima cosa rendere possibile tutto il necessario, cioè guardare il problema per quello che è, questo modo di agire ci porterà a poter affrontare il possibile, la soluzione ovvia. poi, al termine dell'impresa, constatare che siamo riusciti a compiere quanto, in un primo tempo, ci pareva impossibile, la soluzione mediata.
Durante la procedura di mediazione due o più individui che comunicano le proprie intenzioni, discutono della situazione del possibile, stabiliscono perciò una relazione sociale. Questa può essere superficiale o profonda, cooperativa o conflittuale.
L’azione sociale è il risultato di questa relazione determinata dai comportamenti delle parti messe in atto al fine di ottenere  i fini che si sono prefissi. Per capire meglio come si muovono le parti in lite torna utile la teoria sociologica weberiana che permette di classificare le interazioni tra i soggetti.
Weber ha pensato la seguente tassonomia delle azioni sociali:
- azioni razionali rispetto allo scopo,in questa relazione si valutata il rapporto tra mezzi e fini nei termini di equilibrio o squilibrio;
- azioni razionali rispetto al valore, in questa relazione si valutata la norma il dovere che si pone in essere dovere senza preoccuparsi delle conseguenze dell’azione;
- azioni determinate affettivamente,hanno una componente non logica e anche in questa relazione non si  riferiscono alle conseguenze;
- azioni tradizionali, abitudini che si ripetono senza domande sul loro fine o valore.
La tassonomia serve per capire il tipo di relazione, però è altrettanto importante conoscere il contesto e il senso di queste relazioni, in caso contrario non si riuscirà a facilitare l’azione che risolve la lite, in mediazione sono prevalenti le prime tre.
L’interazione che si instaura tra le parti può complicare il raggiungimento del fine, ipotizzato dalle stesse, perché l’interazione  se pur è il processo per il quale due o più attori instaurano una relazione sociale, questa dipende anche dal tipo di ruolo che ciascuna parte interpreta. Il termine ruolo designa quell’insieme di norme e comportamenti prevedibili che un membro apporta alle relazioni. Il ruolo è uno schema che prescrive al membro come interagire, ma non il contenuto.
Habermas ha riproposto la teoria dell'azione secondo il ruolo comunicativo delle parti,
distinguendo l'agire in modelli teorici, per la mediazione sono basilari due.
Il primo, definito agire comunicativo, considera l’agire nei termini di un'interazione che si costituisce in base a regole fondate sulla comunicazione linguistica e il secondo, definito agire teleologico, fondato sugli obiettivi, schema tipico di una razionalità orientata al perseguimento delle soddisfazioni e degli scopi dell'agente.
Quindi  le parti in mediazione, secondo il pensiero  di Habermas, hanno due modi per risolvere la lite o attraverso l’agire comunicativo, agire orientato all'intesa, attivata dalla prassi argomentativa e dalla razionalità intrinseca alla prassi comunicativa quotidiana; o all'agire teleologico, agire strategico, agire orientato al successo , attivato dalla razionalità strumentale.
Anche in questo caso le combinazioni reali sono  molteplici e anche  con questo approccio il ruolo che assume ciascuna parte  influisce sull’agire razionale di entrambi.
Una parte con intenti comunicativi, può esprimere una determinata opinione e agire orientato all’intesa, questa azione si chiama agire comunicativo, l’altra parte può esprimersi con un intervento orientato al fìne con il quale persegue un determinato scopo o agire teleologico.
Ambedue incarnano un sapere fallibile; ambedue, sia le affermazioni di verità soggettiva, che caratterizza l’agire comunicativo, che le azioni efficaci,che mirano all’obiettivo e caratterizzano l’agire teleologico, sono strategie che possono andar male.
Strategie che si fondano sulla presunta verità per una parte e su una prospettiva di successo (efficacia) per l’altra.
Per entrambe le strategie si può parlare di azioni razionali, che non si riducono a azioni logiche in quanto  come  ci ricorda Pareto molte delle azioni umane sono razionali anche se non logiche, ci sono comunque differenze tra agire comunicativo e agire teleologico.
L'agire comunicativo è determinato dalla volontà  di intendersi e dipende dal linguaggio utilizzato,  l'agire teleologica è, un comportamento che mira ad un obiettivo il linguaggio è veicolato dall’obiettivo stesso.
Queste due forme di azione portano a due logiche d'azione a volte incompatibili: intesa e influenza.
Un’altra differenza riguarda il tipo di relazione che si sviluppa tra le parti.
Nell'agire comunicativo, si costruisce una relazione di almeno due soggetti che sviluppano la comunicazione verbale ed extraverbale, stabilendo una interazione interpersonale.
Le parti cercano un'intesa attraverso la procedura di mediazione, per coordinare di comune accordo i propri piani di azione e quindi il proprio agire.
Nell'agire teleologico si instaurano relazioni fra una parte e un insieme di evidenze o di dati esistenti, con questa impostazione il soggetto cerca di realizzare il suo fine scegliendo i mezzi argomentativi adeguati ad un possibile raggiungimento del successo. L'agire teleologico si amplia a strategico quando nel calcolo di una parte, entra in gioco anche la previsione di influire sulle decisioni dell’altra parte.
Nella teoria habermasiana sono presenti altri modi di agire, che però interessano meno la mediazione: l'agire regolato da norme, in questa situazione il rapporto è fra un attore che, membro di un gruppo, orienta le proprie azioni "in base a valori comuni"; l'agire drammaturgico, in cui i partecipanti "costituiscono gli uni per gli altri un pubblico visibile" dinanzi al quale essi "si rappresentano reciprocamente qualcosa".
Il linguaggio è il fattore centrale per l'agire comunicativo, perché è il motore che favorisce l’ agire orientato all'intesa interpersonale tra soggetti che coordinano fra loro i rispettivi piani di azione definendo insieme la loro situazione comune, la soluzione della lite.
Nell'agire strategico il linguaggio è solo utilizzato per far prevalere un interesse particolare o un'intenzione unilaterale, la soluzione che va bene a uno solo o soluzione manipolata.

L' atto perfomativo.

Per Habermas, Il linguaggio va inteso, come l'attività con la quale, le persone si propongono di raggiungere un certo numero di obiettivi.
Per differenziare ulteriormente le azioni orientate all'intesa e le azioni orientate al successo Habermas usa il termine "performativo".
Con questo termine introduce un elemento di analisi più interessante per capire gli atti linguistici: chi parla dice qualcosa, chi parla compie un'azione dicendo qualcosa, chi parla può far produrre un certo numero di reazioni a chi lo ascolta : questo ultimo comportamento è chiamato atto performativo.
Con questa impostazione si supera l'idea di una netta separazione tra linguaggio e azione, tra dire e fare. La teoria degli atti linguistici è perciò l’anello di congiunzione tra il modo di comunicare delle parti e quindi della razionalità che mettono in campo e il tipo di azione che intendono seguire.
Secondo la teoria del sociologo di Francoforte gli atti linguistici sono di due tipi atti illocutivi, capacità di trasmettere un intenzione, e atti perlocutivi, quelli che producono  conseguenze. .
Gli atti illocutivi sono quelli  messi in atto da coloro che puntano su un agire orientato all'intesa, gli atti linguistici perlocutivi sono quelli messi in atto da coloro che puntano su un agire orientato al successo.
Va precisato che per agire strategico il linguaggio che meglio lo rappresenta è il secondo, infatti  si ha agire strategico in quelle interazioni nelle quali almeno uno delle parti con le sue azioni linguistiche vuole produrre presso l’altra parte effetti perlocutivi.
In definitiva si può parlare di agire comunicativo quando entrambe le parti costruiscono in modo esplicito, cioè senza riserve, fini illocutivi o d’intesa concordata. Si parla di agire strategico quando 'almeno uno mira ad effetti perlocutivi.
Si può dedurre che gli atti perlocutivi sono da considerate una classe particolare di interazioni strategiche, perché di fatto sono azioni strategiche camuffate. Comportamenti di questo tipo sono  abbastanza frequenti nella mediazione soprattutto ad inizio procedura, quando almeno una delle parti, ma a volte entrambe. si comporta in modo strategico ingannando l’altra parte sul fatto di non riuscire a soddisfare quelle premesse con le quali è possibile normalmente raggiungere fini illocutivi, cioè si rifiuta di fare il possibile per giungere all’impossibile.
In realtà chiunque agisca, in qualunque modello di azione, non potrà mai eliminare la mediazione (il consenso comunicativo) come condizione del suo agire stesso.
Per meglio favorire il successo nella mediazione  occorre capire qual è lo stile comunicativo delle parti.
Sempre Habermas a questo proposito, propone a sua volta una tripartizione delle interazioni mediate attraverso il linguaggio; la conversazione, l'agire guidato da norme e quello drammaturgico. Nelle relazioni caratterizzate dall'agire comunicativo, quello dove  si sviluppa la conversazione tra le parti, prevalgono azioni linguistiche di tipo espressivo centrate sul destinatario, nelle relazioni caratterizzate dall'agire strategico prevalgono linguaggi di tipo imperativo dove si cerca l’effetto dell'atto linguistico sul destinatario.
La sede dell’organismo, costituisce il contesto di riferimento ove le parti si confrontano con modalità linguistiche  soggettive, il contesto è importante perché, come ogni mediatore ben sa inizialmente ciascuna parte in lite presuppone che ogni agire comunicativo sia basato e goda o della 'fiducia ingenua' dell’altra parte o dalla 'certezza' delle considerazioni proprie e solo  in un ambiente  neutro e imparziale si possono mettere in discussione  queste certezze.

Le regole cerimoniali.

Per analizzare meglio il contesto  torna utile l’analisi  di un altro sociologo: E. Goffman.
Per questo autore la faccia è un elemento importante che ogni persona evidenzia quando interagisce con altri.
La faccia è l’immagine che ogni interagente ha di sé durante l’incontro, e ognuno degli attori presuppone che la propria faccia  non venga messa in discussione.
Durante lo svolgimento della procedura di mediazione  possono creare delle situazioni di crisi tali che venga messa in discussione la credibilità di una delle parti.
In questa situazione il mediatore può utilizzare i suggerimenti di Goffman, noti come “giochi di faccia”, per aiutare  la parte in difficoltà a recuperare credibilità, eludendo o correggendo certe affermazioni, aiutandolo a  riformulare ipotesi, sfidando la parte se esagera.
Un'altro elemento che il mediatore deve tenere sotto controllo riguarda la gerarchia  degli scambi comunicativi tra le parti.
Si possono determinare  scambi simmetrici o scambi asimmetrici, ovvero  tra uguali o tra diversi, gli scambi asimmetrici se si vuole  giungere ad una buona mediazione sono da contrastare.
L'organismo ove avviene la mediazione secondo il modello di Goffman è un’istituzione composta da un’equipe di persone che condividono certi spazi fisici, hanno regole di condotta proprie e una propria definizione della situazione che tendono a presentare al pubblico degli estranei. Vi è netta distinzione tra estranei e coloro che fanno parte dell’istituzione, l'istituzione è importante per il raggiungimento dell'obiettivo.
La mediazione non prevede procedure rigide e standardizzate, comunque per ottenere soluzioni razionali è meglio far applicare alle parti quelle che Goffman chiama “Regole cerimoniali”, che sono comportamenti rituali quali la deferenza e il contegno.
La deferenza è il comportamento attraverso cui un individuo esprime il proprio apprezzamento nei confronti di un destinatario il salutare, riverire, ringraziare, scusarsi o complimentarsi, elementi che trasmettono l’idea di una faccia desiderabile, amichevole, il contegno è lo strumento simbolico attraverso il quale una parte dimostra all’altra parte di possedere determinate qualità.

Di seguito uno schema che sintetizza le situazioni che si possono  trovare in mediazione.
ll contesto, la sede della mediazione, è caratterizzato da “regole cerimoniali” è perciò un luogo teoricamente adatto a costruire una soluzione.

STILE DI  RAGGIUNG. FINE®
TIPO DI OBIETTIVO¯

RAZIONALITA’ RISPETTO FINE
RAZIONALITA’
RISPETTO NORME
RAZIONALITA’ì RISPETTO AFFETTI

AGIRE COMUNICATIVO



A


B


C

AGIRE
 STRATEGICO





D


E


F


Nelle tre situazioni caratterizzate dalla simmetria comunicativa  le parti  si confrontano  con una modalità comunicativa  del  tipo  “agire comunicativo” si possono ottenere  tre categorie  di soluzioni:
A   Il  risultato  della  mediazione ha un obiettivo condiviso le argomentazioni  messe in campo  dalle parti  sono  coerenti  con il fine stesso. Tra le stesse  si è creato un mutuo rispetto  dato dalla simmetria della comunicazione- in questa situazione  si può  ottenere ciò che inizialmente era considerato impossibile.
B  Il  risultato della mediazione  ha un obiettivo condiviso  che deriva dalle conoscenze sulle norme tecniche  delle parti , anzi questa conoscenza limita la qualità della comunicazione  tra le parti che si riconoscono una  eguale  competenza tecnica. In questa situazione  si ottiene al massimo  il necessario.
C   Il  risultato della mediazione ha anche in questo caso un obiettivo  condiviso che però
è veicolato da una componente affettiva, si pensi ad esempio  alle problematiche di un eredità dove  la comunicazione  deraglia  su un particolare , un vaso, una penna, un soprammobile o a un patto di famiglia, nella situazione di agire comunicativo c'è una situazione di rispetto tra le parti, ma  questo non significa che si giunga ad una soluzione
La condizione  C può portare ad una soluzione non possibile, cioè educatamente rifiutata da una parte.
Nelle situazioni di agire comunicativo il mediatore  deve riuscire a portare le parti verso un approccio argomentativo  orientato  ad un obiettivo  concreto misurabile, deve riuscire a portare tutti nella situazione A.
Nelle tre situazione  caratterizzate dall'agire  strumentale di una o di entrambe le parti si
possono determinare altre tre  situazioni ideali. L'agire strumentale è un comportamento  abbastanza  normale delle persone che si sentono in una situazione di vantaggio, in questi casi il mediatore deve riuscire a smantellare la situazione di  comunicazione asimmetrica tra le parti..
D   Il  risultato  della  mediazione ha un obiettivo comune, ma questo è imposto più o meno  palesemente da una parte,le argomentazioni sono  coerenti al fine. Il risultato vede una parte  prevalere sull'altra, si tratta di un caso di impossibile  non previsto che va  a vantaggio di uno solo.
E   Il  risultato  della  mediazione ha un obiettivo che è vincolata da un sistema normativo, ad esempio  una clausola contrattuale, questo fatto  limita l'argomentare  e la parte che agisce in modo strumentale può portare a casa il risultato atteso, ad es. un esproprio, l'altra parte se si limita ad argomentazioni  nel merito delle norme  oggetto  della lite non può che  cercare il necessario per l'altra parte o al limite rifiuta il verbale e si ritira dalla mediazione.
F   Il  risultato  della  mediazione è  originato da una componente affettiva, ad es, la diffamazione, in questa circostanza  l'agire di una parte è sbilanciato  solo su un aspetto del problema. Questa situazione è di  forza apparente, nel senso che è possibile che entrambe le parti pensino  di essere più forti perciò la mediazione può fallire o nel migliore dei casi  portare ad una soluzione  limitata al necessario.
Tra le tre situazioni a simmetria comunicativa e  le tre asimmetriche vi sono  differenze profonde circa l’oggetto della lite, nella situazione A l’oggetto ha contenuti  concreti  e simbolici, anche la componente affettiva è condivisa, è possibile una valutazione  oggettiva di questo oggetto, passando nelle situazioni  B e C le componenti simboliche, in B quelle normative, sia di tipo giuridico  che tecniche,poi in C quelle affettive rendono l’oggetto della lite meno valutabile perchè prevalgono criteri sempre più soggettivi. In B ci creano  interpretazioni soggettive di norma più vantaggiose, in  C la soggettività è massima.
Nelle situazioni  asimmetriche  la parte che si considera forte tenta di imporre la sua visione oggettiva.
Nella situazione  D, una parte  cerca di imporre con argomentazioni di tipo perlocutivo il suo obiettivo, in E queste argomentazioni sono limitate alla componente tecnica o giuridica, in F cerca di imporre la sua visione affettiva della lite la pone su un piano strettamente soggettivo e personale, per dirla alla Habermas  usa una comunicazione  drammaturgica. In questi tre casi  l’atto perlocutivo ha contenuti diversi in D una parte spera di coinvolgere totalmente l’altra parte in E si limita a voler imporre la sua verità normativa e in F cerca di corteggiare l’altra parte.
In genere nelle situazioni di agire comunicativo è sempre possibile, ma poco probabile che la mediazione  fallisca, nelle situazioni a comunicazione asimmetrica è possibile e probabile che fallisca.


Carlo Baratta mediatore  Arbimedia  Torino.

Bibliografia
E.Cheli         La comunicazione come antidoto ai conflitti  Punto di fuga editore 2003
E.Goffman      Espressione e identità                              Il Mulino 2003 
E. Goffman     Relazioni in pubblichè                               Cortina   2008
J. Habermas  Teoria dell’agire comunicativo vol.1 vol.2   Il Mulino 1997
J. Habermas   La condizione intersoggettiva                     Laterza  2007
R.Hudson.       Sociolinguistica.:                                        il Mulino.2001
Per le matrici a doppia entrata vedi.
prof. M.R. Ferrante  Corso di  Metodi statistici per l’economia e per l’azienda  http://www2.stat.unibo.it/ferrante/stat/AA0405/U8%20-%20Tabelle%20a%20doppia%20entrata1.pdf

prof .F, Bertolucci  Università di Urbino.
http://www.econ.uniurb.it/bartolucci/descrittiva-lezione1127.pdf


AVVISO. Il testo riportato è quello inviato in Redazione dall'Autore, il quale è l'unico responsabile dei contenuti e della paternità dello scritto.


Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 18/2015
(www.osservatoriomediazionecivile.blogspot.com)

14 aprile 2015

17/15. Natura personalissima della mediazione (Osservatorio Mediazione Civile n. 17/2015)

=> Tribunale di Vasto, 9 marzo 2015

In tema di mediazione demandata, va dichiarato il mancato avveramento della condizione di procedibilità nel caso in cui le parti non siano comparse personalmente (mentre in loro rappresentanza siano intervenuti soltanto i difensori, i quali non abbiano, peraltro, esposto al mediatore alcun giustificato motivo dell’assenza dei rispettivi assistiti) ed il procedimento venga dichiarato chiuso dal mediatore per mancata prestazione del consenso da parte della convenuta (senza dare atto a verbale delle ragioni della assenza delle parti e delle eventuali iniziative adottate al fine di procurare la comparizione personale delle stesse).




Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 17/2015

Tribunale di Vasto
sentenza
9 marzo 2015

Omissis

Premesso in fatto che

La Nuova O.C.M. s.n.c., assumendo di avere stipulato con la società convenuta un contratto di fornitura e posa in opera di serramenti in alluminio per un fabbricato in corso di costruzione di proprietà della R.R. s.r.l. per un corrispettivo di € 140.000,00, ha convenuto in giudizio, innanzi a questo Tribunale, la società committente per ivi sentirla condannare al versamento della somma di € 96.221,35, a titolo di saldo asseritamente dovuto per tutte le forniture pattuite ed eseguite, ma non ancora pagate dalla convenuta.

La R.R. s.r.l., costituitasi in giudizio, si è opposta all’accoglimento della domanda, sull’assunto che la fornitura dei materiali non sarebbe stata ultimata e che i manufatti consegnati presenterebbero vizi e difetti; ha, pertanto, concluso per il rigetto della domanda, a motivo della sua infondatezza, chiedendo in via riconvenzionale la condanna di controparte al pagamento della somma di € 163.250,35 a titolo di risarcimento danni.

In corso di causa, il giudice istruttore, ritenuto che il comportamento delle parti (resesi disponibili alla individuazione di una soluzione conciliativa della controversia) suggeriva il ricorso a soluzioni amichevoli della lite, disponeva – ai sensi dell’art. 5, secondo comma, del D. Lgs. n. 28/10 – l’esperimento del procedimento di mediazione, il quale veniva dichiarato chiuso dal mediatore per mancata prestazione del consenso da parte della società convenuta.

Ritenuto in diritto che

Lo scrutinio nel merito delle rispettive domande delle parti deve essere anticipato dalla trattazione di una questione pregiudiziale, relativa alla procedibilità della domanda, che assume carattere dirimente.
Da quanto risulta dal verbale del procedimento di mediazione n. 25/14, instaurato innanzi all’organismo di mediazione istituito presso il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Vasto, in sede di primo incontro svoltosi davanti al mediatore, le parti non sono comparse personalmente e la procedura si è chiusa poiché la società convenuta non ha prestato il proprio consenso al relativo espletamento.
Orbene, a tal proposito, è appena il caso di evidenziare che le disposizioni di cui all’art. 8 del D.Lgs. n. 28/2010 (come modificato dalla legge n. 98/2013), lette alla luce del contesto europeo nel quale si collocano (cfr. in particolare, direttiva comunitaria 2008/52/CE) impongono di ritenere che l’ordine del giudice è da ritenersi osservato soltanto in caso di presenza della parte (o di un di lei delegato), accompagnata dal difensore e non anche in caso di comparsa del solo difensore, anche quale delegato della parte. Molteplici sono le argomentazioni che consentono di giungere a tale conclusione.

a. Innanzitutto, la natura della mediazione di per sé richiede che all’incontro con il mediatore siano presenti (anche e soprattutto) le parti di persona. L'istituto, infatti, mira a riattivare la comunicazione tra i litiganti al fine di renderli in grado di verificare la possibilità di una soluzione concordata del conflitto; questo implica necessariamente che sia possibile una interazione immediata tra le parti di fronte al mediatore. Nella mediazione è fondamentale, infatti, la percezione delle emozioni nei conflitti e lo sviluppo di rapporti empatici ed è, pertanto, indispensabile un contatto diretto tra il mediatore e le persone parti del conflitto. Il mediatore deve comprendere quali siano i bisogni, gli interessi, i sentimenti dei soggetti coinvolti e questi sono profili che le parti possono e debbono mostrare con immediatezza, senza il filtro dei difensori (che comunque assistono la parte). D’altronde, il principale significato della mediazione è proprio il riconoscimento della capacità delle persone di diventare autrici del percorso di soluzione dei conflitti che le coinvolgono e la restituzione della parola alle parti per una nuova centratura della giustizia, rispetto ad una cultura che le considera ‘poco capaci’ e, magari a fini protettivi, le pone ai margini. Non è, dunque, pensabile applicare analogicamente alla mediazione le norme che, ‘nel processo’, consentono alla parte di farsi rappresentare dal difensore o le norme sulla rappresentanza negli atti negoziali. La mediazione può dar luogo ad un negozio o ad una transazione, ma l’attività che porta all’accordo ha natura personalissima e non è delegabile.

b. In secondo luogo, i difensori (definiti mediatori di diritto dalla stessa legge) sono senza dubbio già a conoscenza della natura della mediazione e delle sue finalità (come, peraltro, si desume dal fatto che essi, prima della causa, devono fornire al cliente l'informazione prescritta dall'art. 4, comma 3 del D. Lgs n. 28/2010), di talché non avrebbe senso imporre l'incontro tra i soli difensori e il mediatore in vista di una inutile informativa. Ritenere che la condizione di procedibilità sia assolta dopo un primo incontro, in cui il mediatore si limiti a chiarire alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione, vuol dire in realtà ridurre ad un’inaccettabile dimensione notarile il ruolo del giudice, quello del mediatore e quello dei difensori. L’ipotesi che la condizione si verifichi con il solo incontro tra gli avvocati e il mediatore per le informazioni appare particolarmente irrazionale nella mediazione disposta dal giudice: in tal caso, infatti, si presuppone che il giudice abbia già svolto la valutazione di ‘mediabilità’ del conflitto (come prevede l’art. 5 cit.: che impone al giudice di valutare “la natura della causa, lo stato dell’istruzione e il comportamento delle parti”). Questo presuppone anche un’adeguata informazione ai clienti da parte dei difensori; inoltre, in caso di lacuna al riguardo, lo stesso giudice, qualora verifichi la mancata allegazione del documento informativo, deve a sua volta informare la parte della facoltà di chiedere la mediazione. Come si vede, dunque, sono previsti plurimi livelli informativi e non è pensabile che il processo venga momentaneamente interrotto per un’ulteriore informazione anziché per un serio tentativo di risolvere il conflitto.

Alla luce delle considerazioni che precedono, il giudice ritiene che, sia per la mediazione obbligatoria da svolgersi prima del giudizio ex art. 5, comma 1 bis, D. Lgs. n. 28/2010, sia per la mediazione demandata dal giudice, ex art. 5, comma 2, è necessario – ai fini del rispetto della condizione di procedibilità della domanda - che le parti compaiano personalmente (assistite dai propri difensori, come previsto dal successivo art. 8) all’incontro con il mediatore. Graverà su quest’ultimo, in qualità di soggetto istituzionalmente preposto ad esercitare funzioni di verifica e di garanzia della puntuale osservanza delle condizioni di regolare espletamento della procedura, l’onere di adottare ogni opportuno provvedimento finalizzato ad assicurare la presenza personale delle parti, ad esempio disponendo - se necessario – un rinvio del primo incontro, sollecitando anche informalmente il difensore della parte assente a stimolarne la comparizione, ovvero dando atto a verbale che, nonostante le iniziative adottate, la parte a ciò invitata non ha inteso partecipare personalmente agli incontri, né si è determinata a nominare un suo delegato (diverso dal difensore), per il caso di assoluto impedimento a comparire.
La parte che avrà interesse contrario alla declaratoria di improcedibilità della domanda avrà l’onere di partecipare personalmente a tutti gli incontri di mediazione, chiedendo al mediatore di attivarsi al fine di procurare l’incontro personale tra i litiganti; potrà, altresì, pretendere che nel verbale d’incontro il mediatore dia atto della concreta impossibilità di procedere all’espletamento del tentativo di mediazione, a causa del rifiuto della controparte di presenziare personalmente agli incontri. Solo una volta acclarato che la procedura non si è potuta svolgere per indisponibilità della parte che ha ricevuto l’invito a presentarsi in mediazione, la condizione di procedibilità può considerarsi avverata, essendo in questo caso impensabile che il convenuto possa, con la propria colpevole o volontaria inerzia, addirittura beneficiare delle conseguenze favorevoli di una declaratoria di improcedibilità della domanda, che paralizzerebbe la disamina nel merito delle pretese avanzate contro di sè. Negli altri casi e, segnatamente, quando è la stessa parte che ha agito (o che intende agire) in giudizio a non presentarsi personalmente in una procedura di mediazione da lei stessa attivata (anche su ordine del giudice), la domanda si espone al rischio di essere dichiarata improcedibile, per incompiuta osservanza delle disposizioni normative che impongono il previo corretto esperimento del procedimento di mediazione.  

Nel caso in esame, nella procedura di mediazione demandata dal giudice non sono comparse personalmente né la parte attrice, né la parte convenuta, mentre in loro rappresentanza sono intervenuti soltanto i difensori, i quali non hanno, peraltro, esposto al mediatore alcun giustificato motivo dell’assenza dei rispettivi assistiti. Il mediatore ha dichiarato chiuso il procedimento, senza dare atto a verbale delle ragioni della assenza delle parti e delle eventuali iniziative adottate al fine di procurare la comparizione personale delle stesse. La procedura non si è, pertanto, svolta correttamente, in particolar modo a causa della ingiustificata assenza della parte che ha presentato (su disposizione del giudice) la domanda di mediazione, vale a dire del legale rappresentante della società attrice La Nuova O.C.M. s.n.c., che aveva interesse contrario alla declaratoria di improcedibilità della domanda giudiziale.
Occorre, pertanto, rilevare d’ufficio il mancato avveramento della condizione di procedibilità, ai sensi dell’art. 5, comma 2, D. Lgs. n. 28/10 e assumere le conseguenziali determinazioni decisorie. A tal riguardo, secondo questo giudicante, non vi è altra possibilità se non quella di dichiarare l’improcedibilità della domanda attorea. Non è praticabile, per converso, l’alternativa soluzione di assegnare alle parti un nuovo termine per la reiterazione della procedura di mediazione, essendo questa già stata definita. La norma dell’art. 5, comma 1-bis, D. Lgs. n. 28/10, che impone al giudice l’obbligo di assegnare alle parti il termine per la presentazione della domanda di mediazione e di fissare la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’art. 6, si applica soltanto al caso in cui la mediazione è già iniziata ma non si è ancora conclusa e al caso in cui essa non è stata affatto esperita, ma non anche alla diversa ipotesi (come quella in esame) in cui la mediazione è stata tempestivamente introdotta e definita, ma in violazione delle prescrizioni che regolano il suo corretto espletamento.

Quanto al regime delle spese processuali, l’assoluta novità della questione, l’assenza di un consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità sul punto e la natura meramente processuale delle ragioni di reiezione della domanda, costituiscono eccezionali motivi che giustificano l’integrale compensazione delle spese di lite fra le parti.

P.Q.M.

Il Tribunale di Vasto, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando sulla domanda promossa da La Nuova O.C.M. s.n.c., in persona del legale rappresentante pro tempore, nei confronti di R.R. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, disattesa ogni diversa richiesta, eccezione o conclusione, così provvede:

DICHIARA improcedibile la domanda di cui in epigrafe;

DICHIARA interamente compensate tra le parti le spese di lite;

MANDA alla Cancelleria per gli adempimenti di competenza;

DISPONE che la presente sentenza sia allegata al verbale di udienza.

Così deciso in Vasto, il 9.3.2015.

IL GIUDICE
dott. Fabrizio Pasquale

AVVISO. Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità.

10 aprile 2015

16/15. Mediazione demandata: la convocazione deve riguardare anche il contumace (Osservatorio Mediazione Civile n. 16/2015)

=> Tribunale di Roma, 10 aprile 2014

Disposta la mediazione demandata ai sensi dell’art. 5 comma 2 d.lgs. n. 28/2010, la convocazione deve riguardare anche la parte rimasta contumace in causa. In particolare ciò, nel caso di più di due parti coinvolte nella controversia, ha il fine di propiziare un accordo pieno che riguardi tutte le parti coinvolte (nella specie compagnie co-assicuranti), senza che sia in ogni caso di ostacolo all’esperimento del procedimento di mediazione ed al raggiungimento dell’accordo l’eventuale assenza di una o più di esse. Vi sono infatti situazioni in cui non è pensabile, in termini di efficacia giuridica, un accordo al quale non partecipino tutte le parti interessate; vi sono, invece, altre situazioni in cui non sussistendo alcun litisconsorzio necessario, la presenza di tutte le parti convocate è utile ma non indispensabile. In tal caso, le valutazioni ed i provvedimenti che si dovessero trarre dalla mancata partecipazione alla procedura di mediazione ai sensi delle norme vigenti (art. 8 comma 4-bis d.lgs. n. 28/2010) riguarderanno tout court le parti costituite e solo ai sensi dell’art. 116 c.p.c. il contumace.

Fonte: Osservatorio Mediazione Civile n. 16/2015

Tribunale di Roma
Sezione XIII
sentenza
10 aprile 2014

Omissis

letti gli atti e le istanze delle parti, osserva:

l’attrice lamenta che a seguito dell’intervento omissis presso la clinica omissis di Roma contraeva infezione nell’ambito della permanenza in detta struttura che non veniva immediatamente, come pure a suo dire possibile, considerata e curata, tanto che subiva un danno consistente nel rallentamento del processo di consolidazione della ferita ed impedimento di una corretta ripresa anatomo-funzionale del distretto interessato.
Il C.T.U. nominato dal giudice rilevava per contro che il P.R. aveva provveduto per quanto di sua competenza ad osservare ogni misura idonea a preservare la salute della paziente.
Ed in effetti ciò è documentale come risulta dagli atti acquisiti alla causa.
“ Il medico, al quale si era rivolta l’attrice già prima dell’intervento e che aveva preso in cura R.S. operandola, cioè il prof. P.R., impartiva adeguata tempestiva ed appropriata cura antibiotica da proseguirsi anche dopo le dismissioni.
“ Ciò è irrefutabile e documentale.
“ E pertanto la evocazione in giudizio del medesimo era del tutto fuori luogo.
“ Di ciò la difesa dell’attrice sembra non essere ancora consapevole nel redigere le errate note critiche che omettono di considerare la immediata adeguata ed esaustiva somministrazione di terapie antibiotiche proprio da parte del prof. P.R., il medesimo che vista la non retrocessione della malattia provvedeva ad inviare (anche qui il fatto è documentale) la paziente presso l’ospedale omissis per accertamenti ulteriori.
“Tutto ciò con scansioni temporali ragionevoli, vista la necessità di attendere l’esito delle cure somministrate ”.
Il C.T.U. dà atto che nel caso in esame era stata utilizzata una tecnica chirurgica consolidata da anni in conformità alle metodiche medico-chirurgiche stabilite dalla prassi e dalla scienza medica.
E che l’intervento era ben riuscito.
D’altra parte la paziente non era affetta all’ingresso nella casa di cura da alcuna infezione nella parte qua del suo corpo.
I problemi successivi quindi non sono dipesi da una errata scelta ovvero inadeguata modalità di esecuzione dell’intervento, né da pregresse patologie ed infezioni in atto, ma da complicanze successivamente insorte.
A dire del CTU se è infatti evidente il nesso di causalità tra i postumi derivati (processo infettivo postoperatorio) e l’intervento chirurgico al piede destro effettuato il 23 gennaio 2007, tale nesso non può essere attribuito alle responsabilità degli operatori sanitari ma ad un “cedimento” della catena della prevenzione, i cui obblighi spettano alle strutture che forniscono i servizi operatori, ospedali pubblici o case di cura private.
Il consulente tecnico di ufficio affermava altresì che le infezioni post-operatorie, in una piccola percentuale (circa il 2%), costituiscono una complicanza degli interventi chirurgici di ortopedia anche quando vengono rispettate tutte le procedure raccomandate dalle più recenti linee guida; è necessario sottolineare anche che tali infezioni così dette nosocomiali  molto spesso presentano una forte resistenza a qualsiasi terapia farmacologica.
Uscito di scena il medico che ha effettuato l’intervento chirurgico, va rigettata, perché doppiamente erronea ed infondata, l’eccezione della casa di cura che declina ogni sua responsabilità sotto il profilo che il rapporto contrattuale è stato concluso solo fra l’attrice che assume il danno ed il medico convenuto che non è un dipendente della casa di cura omissis né ha con la stessa rapporti di collaborazione stabile con detta struttura, presso la quale si limita ad eseguire sporadici interventi solo per la sua clientela. Ogni rapporto è intercorso esclusivamente fra il medico e la paziente (scelta della clinica, pagamento degli onorari, effettuazione delle prestazioni mediche e curative etc.). Come da contratto specificamente stipulato fra i due soggetti (medico – paziente) in data 23.1.2007 e consegnato alla casa di cura.
In primo luogo si condivide la giurisprudenza della S.C. che ha affermato la corresponsabilità nei confronti del paziente della casa di cura presso la quale ha operato il medico non legato da rapporti di dipendenza con la medesima
Invero la giurisprudenza ha ormai chiarito da tempo (Cass. n. 13066/2004, n. 9556/2002 e n.
103/99), che la responsabilità della struttura è di regola presente anche in presenza di intervento effettuato da medico non dipendente della stessa (“l’oggetto dell’obbligazione assunta dalla Casa di cura non è costituito semplicemente dalla prestazione medica dei propri dipendenti, ma da una più complessa prestazione, definita come ‘assistenza sanitaria’, oggetto di un contratto atipico, inquadrabile nella categoria della locatio operis. A carico della struttura sanitaria gravano infatti, prestazioni non solo di diagnosi e cura, ma anche di tipo organizzativo, connesse all’assistenza post-operatoria, alla sicurezza delle attrezzature, dei macchinari, alla vigilanza ed alla custodia dei pazienti, oltre a prestazioni più propriamente riconducibili al contratto d’albergo. L’attività del medico costituisce quindi solo un momento di una più complessa prestazione, ed il danno non sempre è conseguenza dell’errore del singolo operatore, ma talvolta anche del comportamento di più soggetti. Tanto comporta, oltre la responsabilità vicaria per il fatto del dipendente, altra, diretta, per la carente organizzazione, che può riguardare numerosi aspetti, quali la disponibilità di personale qualificato ed in numero sufficiente, la sorveglianza sul coordinamento dei servizi, la garanzia sulla salubrità degli ambienti, la disponibilità di attrezzature di adeguato livello tecnologico, la cui disponibilità sia esigibile per la natura delle prestazioni ivi offerte. Conseguentemente, la responsabilità dell’ente per il fatto dei propri medici ausiliari si fonda sulla previsione dell’art. 1228 c.c., in forza del quale, il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro. La natura della responsabilità della struttura, poi, non muta se il paziente si sia rivolto direttamente ad una struttura sanitaria del S.s.n. o convenzionata, o se si sia rivolto ad un medico di fiducia che ha effettuato l’intervento presso una struttura privata, sempre che il professionista sia inserito nella stessa, in rapporto di dipendenza o di mera convenzione, supponendo anche la seconda forma di collaborazione una scelta del medico da parte della struttura, con assunzione del relativo rischio”).
Ed anzi la condotta (casa di cura) della convenuta induce a ritenere necessaria tale ricostruzione dogmatica del complesso rapporto giuridico paziente-medico-struttura ospedaliera.
E’ evidente infatti che avvalorando la tesi propugnata dalla convenuta, non vi sarebbe struttura privata che non imporrebbe a chiunque la forma di un modulo con su scritto: rapporto intercorso solo fra medico Caio e paziente Sempronio, la casa di cura non c’entra niente.
Inoltre se c’è un caso dove tale eccezione è del tutto fuori luogo è proprio in questa causa dove si parla di infezione nosocomiale.
Locuzione che evoca evidentemente possibili responsabilità della casa di cura.
E pertanto ogni discettazione, in merito a solidarietà esterna e rapporti di regresso interni, è sterile ed irrilevante.
Attese le indubbie semplificazione e laconicità che si riscontrano nell’elaborato del consulente tecnico di ufficio vanno esposte ulteriori informazioni e principi pertinenti ed utili in materia di infezioni nosocomiali.
Qual è il quadro che emerge da quanto sopra?
Fermo restando che una volta accertato che il paziente ha contratto un’infezione nosocomiale, in virtù dei principi che regolano l’onere della prova, in materia contrattuale (qual è quella che ci occupa, , ancorché non fondata sul contratto, ma sul “contratto sociale”) non vi può essere alcun dubbio che incombe alla struttura ospedaliera ed in questo caso alla clinica spa omissis provare di avere adottato tutte le misure utili e necessarie per una corretta sanificazione ambientale, al fine di evitare la contaminazione.
In altre parole la convenuta deve fornire la prova che l’evento dannoso (contagio) non rientra fra le complicanze prevedibili ed evitabili.
Qual è il modo di adempiere a tale prova negativa ?
Quello di fornire la prova positiva di aver fatto tutto quanto la scienza del settore ha finora escogitato per evitare o quanto meno ridurre al massimo il rischio di contaminazione.
Si può dire che la convenuta abbia fornito tale prova ?
Sicuramente dall’esame a contrariis della specifica minuziosa elencazione delle attività di sanificazione che sarebbero state poste in essere di cui alla memoria ex art. 183 I° e II° c.p.c. della casa di cura convenuta si può escludere che sia stato costituito ivi un CIO “organismo multidisciplinare responsabile dei programmi e delle strategie di lotta e di contrasto contro le infezioni ospedaliere”, così come che nell’ambito delle funzioni di tale comitato o in qualsiasi altro modo siano stati predisposti percorsi di formazione e di sensibilizzazione del personale a vario titolo operante nella struttura al problema delle Infezioni Ospedaliere (IO) o Correlate all’Assistenza (ICA)
In ogni caso il giudice ritiene che vi siano lacune istruttorie che devono essere colmate.
Ma che di tali lacune debba farsi carico l’ufficio in dipendenza della non esaustiva indagine peritale.
Esclusa la rilevanza ed efficacia delle prove orali richieste dalla casa di cura, in primo luogo il C.T.U. dovrà validare, arricchendole ed integrandole se del caso, le affermazioni di cui alla nota due affinché diventino patrimonio formale della causa e non solo cognizione del giudice.
In secondo luogo il giudice intende appurare, mediante indagine integrativa da affidare al consulente, se oltre alle necessarie ordinarie cautele (di cui è traccia nella documentazione prodotta dalla casa di cura) siano stati attuati specifici protocolli diretti all’applicazione, monitoraggio, aggiornamento e verifica dei risultati delle pratiche dirette ad evitare o contenere le infezioni nosocomiali, se è stato istituito un comitato o gruppo di lavoro a ciò deputato, se e come abbia operato e quant’altro.
Il tutto al fine di pervenire ad una ragionevole e motivata valutazione -non fondata su un inaccettabile principio di responsabilità oggettiva- sulla sussistenza del nesso causale fra evento (infezione) e deficit di sanificazione.
Ovvero per escluderlo, mediante l’affermazione che avendo adempiuto la casa di cura a quanto era possibile ed esigibile allo stato dell’arte, l’evento danno va ascritto nel novero delle complicanze imprevedibili ed inevitabili collegate alla presenza della paziente nel nosocomio.
Tale esclusione andrà rapportata ad un obiettivo c.d. di rischio minimo (ovvero l’adozione di un insieme di procedure e di protocolli elaborati allo stato attuale dalla scienza del settore per ridurre al minimo il rischio di esposizione ad infezioni nosocomiali dei pazienti).
A tale fine il consulente accerterà con ispezione in loco, e servendosi, occorrendo, di persona- le specializzato di sua fiducia, in relazione ai parametri supra esposti dal giudice, previa esame esteso alle scritture ed ai registri contabili della società, se e quali attività utili al fine risultino effettivamente attivate e con quali cadenze presso la casa di cura convenuta.
Ritiene il giudice, prima di disporre la nuova consulenza, che per la regolamentazione dei rapporti fra le parti possa essere vantaggioso avviare un preventivo percorso di mediazione demandata ai sensi dell’art.5 co.II° decr. legisl. 28/2010 al quale parteciperanno da una parte la casa di cura convenuta e dall’altra le assicurazioni convenute (la presenza del medico prof. P.R. non è ritenuta necessaria dal giudice ma utile).
La convocazione dovrà riguardare anche l’assicurazione rimasta contumace in questa causa. Ciò al fine di propiziare un accordo pieno che riguardi tutte le compagnie coassicuranti.
Senza che sia di ostacolo all’esperimento del procedimento di mediazione ed al raggiungimento dell’accordo l’eventuale assenza di una o più di esse.
Vi sono infatti situazioni in cui non è pensabile, in termini di efficacia giuridica, un accordo al quale non partecipino tutte le parti interessate. Pena che il negozio giuridico eventualmente siglato risulti inutiliter dato.
Vi sono altre situazioni, e questa vi rientra, in cui non sussistendo alcun litisconsorzio necessario, la presenza di tutte le parti convocate è utile ma non indispensabile.
Invero, nel caso in esame, una volta che fra la casa di cura e le assicurazioni chiamate in causa sia stato raggiunto l’auspicato accordo, il giudice provvederà a regolare, autonomamente, i rapporti fra la casa di cura e quella fra le assicurazioni che dovesse non aderire all’invito o non partecipare all’accordo. Che sia qui costituita o meno.
Le valutazioni ed i provvedimenti che si dovessero trarre dalla mancata partecipazione alla procedura di mediazione ai sensi delle norme vigenti (art.8 co.4 bis decr. lgsl. 28/2010)   riguarderanno tout court le assicurazioni costituite e solo ai sensi dell’art.116 c.p.c. l’assicurazione contumace.
La procedibilità delle domande della casa di cura di chiamata in giudizio a manleva delle compagnie di assicurazione resta pertanto subordinata al puntuale adempimento di quanto testé prescritto.
Le spese (che vengono regolate secondo le previsioni –orientative per il giudice che tiene con-to di ogni utile circostanza per adeguare nel modo migliore la liquidazione al caso concreto- della l.24.3.2012 n.27 e del D.M. Ministero Giustizia 22.7.2012 n.140) seguono la soccombenza, e possono essere liquidate fin da subito, nonostante si tratti si sentenza parziale, posto che la stessa pur non definendo interamente il giudizio, regola completamente e definitivamente i rapporti fra l’attrice ed il medico convenuto.
La sentenza è per legge esecutiva.

P.Q.M.

Non definitivamente pronunziando, salvo che per il rapporto fra R.S.  ogni contraria domanda eccezione e deduzione respinta, così provvede:
rigetta le domande di R.S. contro il prof. P.R.;
condanna R.S. al pagamento in favore del prof. P.R. delle spese di causa che liquida in favore del predetto in complessivi €.3.000,00 di cui €.600,00 per spese, oltre IVA e CAP;
dispone con separata ordinanza per il prosieguo.
Sentenza esecutiva
Roma lì 10.4.2014

AVVISO. Il testo riportato non riveste carattere di ufficialità.

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