=> Trib. Tivoli, 23 maggio
2012
Con la pronuncia in commento, viene
solleva questione di legittimità
costituzionale dell’art. art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 con
riferimento agli articoli 11, 24, 111, 117 della Costituzione nonché agli art.
6 e 13 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo ed agli
artt. 47, 52 e 53 della Carte dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, nella parte in cui viola il principio di non incertezza del diritto non prevedendo, il decreto
legislativo in tema di mediazione, una formulazione della normativa di
comprensione univoca e chiara del proprio significato (I).
In particolare, nel caso in esame, all’interno
di un giudizio per la cessazione degli
effetti civili del matrimonio, veniva proposta domanda di scioglimento della comunione insistente sulla casa
coniugale, con riferimento alla quale veniva eccepito l’improcedibilità del
ricorso, ove non preceduto dalla mediazione obbligatoria, trattandosi di
materia per la quale sarebbe obbligatorio l’esperimento del tentativo di
mediazione ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. 28/2010.
Il tribunale si domanda pertanto se la procedura sia obbligatoria
anche in caso di giudizio divisorio introdotto nell’ambito di controversia in
materia di diritto di famiglia (e segnatamente in un giudizio di divorzio).
Il tribunale nota al riguardo che:
- “la presente controversia, in quanto avente ad oggetto anche una
domanda di divisione, debba essere oggetto di mediazione obbligatoria. Non sono
infatti previste deroghe in ipotesi di domande plurime che abbiano anche
diversi petita”;
- “tuttavia, la controversia segue – non a caso – un rito speciale,
nel quale è già prevista una attività di mediazione, rispetto alla quale l’istituto
di cui all’art. 5 del d.lvo 28/2010 finirebbe con l’aggravare il processo ed
allungarne i tempi”;
- “per contro, potrebbe offrire elementi utili – anche in considerazione
della diversa dinamica e del separato iter, connotato da specifiche competenze
degli addetti alla mediazione - che potrebbe agevolare la definizione della
parte economica relativa alla divisione”.
Vi sono dunque sia elementi a favore che elementi contrari alle
diverse soluzioni possibili.
Pertanto, “alla luce della assoluta
genericità della norma in questione, ritiene quindi il giudice che non sia
possibile esprimersi nel senso di una chiara intelligibilità ed univoca portata
precettiva della norma. Perciò una
qualsiasi interpretazione si tradurrebbe in una vera e propria scelta
arbitraria del giudice, che finirebbe con il sostituirsi al legislatore,
piuttosto che farsene mero interprete. Non vi sono invero ad avviso di
questo giudice riferimenti “ermeneutici” – né di carattere letterale, né sistematico,
né logico - che possano giustificare una univoca interpretazione”.
Fonte: Osservatorio
Mediazione Civile n. 101/2012
Tribunale di Tivoli
Sezione civile
23 maggio 2012
Ordinanza
Il Tribunale di Tivoli, nella persona del
Giudice unico dott. Alessio Liberati, nel procedimento ---ha pronunciato la
seguente
ORDINANZA
con
la quale si solleva di ufficio
QUESTIONE
DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE
IN FATTO
L’attrice ha citato in giudizio il
convenuto in data 9.9.2011, chiedendo a questo Tribunale di voler dichiarare la
cessazione degli effetti civili del matrimonio e di voler provvedere allo
scioglimento della comunione dell’immobile destinato a casa coniugale.
Il convenuto si è costituito in data
28.2.2012, chiedendo anch’egli la dichiarazione di cessazione degli effetti
civili del matrimonio e la revisione, in suo favore, delle condizioni economiche,
essendo il figlio divenuto maggiorenne ed avendo attività lavorativa propria,
ancorché saltuaria. Si è invece opposto alla istanza di divisione dell’immobile
ed ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità della relativa domanda.
In sede di udienza, il 23.5.2012, il
convenuto ha chiesto inoltre pronunciarsi l’improcedibilità del ricorso, ove
non preceduto dalla mediazione obbligatoria, trattandosi di materia per la
quale sarebbe obbligatorio l’esperimento del tentativo di mediazione ai sensi
dell’art. 5 del d.lgs. 28/2010.
Il tribunale ritiene che la domanda di
scioglimento della comunione insistente sulla casa coniugale sia ammissibile,
potendo certamente essere introdotta in sede di divorzio.
Si pone quindi il problema se la
controversia rientri in quelle previste dall’art. 5 del d.lgs. 28/2010, e
segnatamente nella materia della divisione, o, rectius, se la procedura sia obbligatoria anche in caso di giudizio
divisorio introdotto nell’ambito di controversia in materia di diritto di
famiglia (e segnatamente in un giudizio di divorzio), posto che prevede un rito
specifico con apposito tentativo di conciliazione.
Il problema in diritto concerne quindi la
condizione di procedibilità del giudizio, che è certamente rilevante e
prodromica per la successiva prosecuzione del giudizio, dovendo nel caso il
Giudice assegnare i termini di legge per esperire la mediazione.
IN DIRITTO
LA NORMA IN QUESTIONE E LA SUA INTERPRETAZIONE
L’art. 5 del d.lgs. 28/2010 sancisce che: “1.
Chi intende esercitare in giudizio un'azione
relativa ad una controversia in materia di condominio,
diritti reali, divisione, successioni
ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende,
risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da
responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro
mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, e' tenuto
preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del presente
decreto ovvero il procedimento di conciliazione previsto dal decreto
legislativo 8 ottobre 2007, n. 179, ovvero il procedimento istituito in
attuazione dell'articolo 128-bis del testo unico delle leggi in materia
bancaria e creditizia di cui al decreto legislativo 1 settembre 1993, n. 385, e
successive modificazioni, per le materie ivi regolate. L'esperimento del
procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda
giudiziale.
L'improcedibilità deve essere eccepita dal
convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d'ufficio dal giudice, non oltre la
prima udienza. Il giudice ove rilevi che la mediazione e' gia' iniziata, ma non
si e' conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui
all'articolo.
Allo stesso modo provvede quando la
mediazione non e' stata esperita, assegnando contestualmente alle parti il
termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione. Il
presente comma non si applica alle azioni previste dagli articoli 37, 140 e
140-bis del codice del consumo di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005,
n. 206, e successive modificazioni. ”
Al successivo comma 4 sono previste
espressamente le esclusioni: “I commi 1 e 2 non si applicano:
a)
nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l'opposizione, fino alla pronuncia
sulle istanze di concessione e sospensione della provvisoria esecuzione;
b) nei procedimenti per convalida di
licenza o sfratto, fino al mutamento del rito di cui all'articolo 667 del
codice di procedura civile;
c) nei procedimenti possessori, fino alla
pronuncia dei provvedimenti di cui all'articolo 703, terzo comma, del codice di
procedura civile;
d) nei procedimenti di opposizione o
incidentali di cognizione relativi all'esecuzione forzata;
e) nei procedimenti in camera di
consiglio;
f) nell'azione civile esercitata nel
processo penale.”
IL SIGNIFICATO NON UNIVOCO DELLA NORMA, QUANTO ALLA
DEFINIZIONE DELL’AMBITO DI APPLICAZIONE, IN TERMINI GENERALI
Si pone – con riferimento alla fattispecie
in oggetto - il dubbio relativo all’ambito applicativo della norma, ed in
particolare alla sua obbligatoria esperibilità anche nel caso in cui la domanda
sia inserita in un ricorso avente altro e totalmente diverso oggetto, nel caso
di specie la materia divorzile.
Affrontando il tema in termini generali,
la lettura delle eccezioni di cui al successivo comma 4, poc’anzi riportato,
porterebbe ad escludere dall’ambito di applicazione le sole fattispecie
espressamente indicate.
Se ne dovrebbe concludere che la presente
controversia, in quanto avente ad oggetto anche una domanda di divisione, debba
essere oggetto di mediazione obbligatoria. Non sono infatti previste deroghe in
ipotesi di domande plurime che abbiano anche diversi petita.
Tuttavia, la controversia segue – non a
caso – un rito speciale, nel quale è già prevista una attività di mediazione,
rispetto alla quale l’istituto di cui all’art. 5 del d.lvo 28/2010 finirebbe
con l’aggravare il processo ed allungarne i tempi.
Per contro, potrebbe offrire elementi
utili – anche in considerazione della diversa dinamica e del separato iter, connotato
da specifiche competenze degli addetti alla mediazione - che potrebbe agevolare
la definizione della parte economica relativa alla divisione.
Vi sono dunque sia elementi a favore che
elementi contrari alle diverse soluzioni possibili e, ad avviso di questo
giudice, manca un criterio “dirimente”.
La norma, come detto, non è chiara e non è
suscettibile di univoca interpretazione, non avendo previsto alcunché in merito
al rapporto tra riti diversi. In sostanza non è in grado di offrire quella
certezza della regola che deve essere propria della norma (e che ne connota la
funzione) rimettendo il compito di legiferare “di fatto” al Giudice, con ciò delegando
all’autorità giudiziaria una vera e propria attività normativa, anziché
ermeneutica e rischiando di porre le parti (gli utenti della Giustizia) in una inaccettabile
situazione di incertezza giuridica.
Deve dunque verificarsi la compatibilità
costituzionale di un simile legiferare sotto il profilo della incertezza che
deriva nel diritto.
SULLA RILEVANZA DELLA QUESTIONE NELLA
FATTISPECIE ALLA ATTENZIONE DEL TRIBUNALE
Va precisato che la questione che si
sottopone alla attenzione del Giudice delle Leggi è di assoluta rilevanza per
la fattispecie alla attenzione di questo Tribunale.
Nel caso di specie la questione di diritto
appena descritta appare di imprescindibile soluzione per la decisione,
trattandosi di norma che prevede una questione prioritaria rispetto ad ogni
altra analisi e considerazione in rito ed in merito: la improcedibilità del
giudizio (rilevabile ex officio) in caso di mancato esperimento della
mediazione obbligatoria.
Si deve quindi preliminarmente verificare
se la norma sia costituzionalmente legittima, nella sua genericità e quindi
applicabile, e se la formulazione adottata lasci al giudice un potere realmente
interpretativo, come tale attribuitogli dall’ordinamento, o qualcosa di diverso
che esula dalla mera attività ermeneutica.
Va anche rammentato che la procedura in
questione (la mediazione obbligatoria) è onerosa per le parti e determina un
considerevole allungamento della risposta della giustizia (la esclusione dal
computo ai fini della ragionevole durata del processo – prevista dal medesimo
d.lvo 28/2010, invero, si ritiene non linea con l’orientamento della Corte di
Strasburgo, almeno per le ipotesi di mediazione iniziata dopo la proposizione
dell’azione), sicché potrebbe tradursi in un aggravio del diritto di difesa,
ove disposta dal giudice nelle ipotesi in cui non è non prevista.
Non dissimilmente, ove omessa ma ritenuta
successivamente doverosa dal giudice di appello o dalla Cassazione, potrebbe
dar luogo e remissione in termini e rinvio al giudice di primo grado, al fine
di superare la eccezione di improcedibilità essendovi stata richiesta delle
parti. Egualmente si avrebbe un aggravio dei costi ed un allungamento dei
processi.
Infine, non va sottaciuto che la
giurisprudenza della Corte di Giustizia (nella causa C-379/10) ha censurato l’attuale
regime di irresponsabilità dello Stato (ancorché non dei singoli giudici) per
le ipotesi di colpa lieve dei magistrati - ipotesi che certamente potrebbe
essere contestata nel caso di specie, ove l’autorità giudiziaria si dovesse
attribuire un potere che esula da quello strettamente ermeneutico, ed in
sostanza arbitrario, pervenendo ad una decisione non corretta – affermando che
con il limitare la responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi
dell’art. 2, commi 1 e 2, della legge n. 117/88, la Repubblica Italiana è
venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di
responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto dell’Unione da
parte di uno dei propri organi giurisdizionali.
IMPOSSIBILITA’ DI UN’INTERPRETAZIONE
UNIVOCA DELLA NORMA
Nel silenzio della legge, ad avviso di
questo giudice, vi è una sostanziale impossibilità di una interpretazione
univoca della disposizione. Il potere decisorio del giudice sconfinerebbe nella
fattispecie in quello creativo del precetto, anziché limitarsi ad una
interpretazione dello stesso, non essendovi alcuna indicazione normativa in
merito al rapporto tra rito divorzile e giudizio di divisione nell’ottica della
mediazione. Ciò peraltro potrebbe dar luogo (come sta effettivamente accadendo)
ad interpretazioni divergenti o contrapposte da parte dei vari giudici di
merito, determinando una mancanza di certezza del diritto.
In altre parole, alla luce della assoluta
genericità della norma in questione, ritiene quindi il giudice che non sia
possibile esprimersi nel senso di una chiara intelligibilità ed univoca portata
precettiva della norma. Perciò una qualsiasi interpretazione si tradurrebbe in
una vera e propria scelta arbitraria del giudice, che finirebbe con il
sostituirsi al legislatore, piuttosto che farsene mero interprete. Non vi sono
invero ad avviso di questo giudice riferimenti “ermeneutici” – né di carattere
letterale, né sistematico, né logico - che possano giustificare una univoca interpretazione.
PREMESSA SULLA RILEVANZA COSTITUZIONALE
DEL DUBBIO ERMENEUTICO: LA MANCANZA DI CERTEZZA DEL DIRITTO INTEGRANTE UNA
VIOLAZIONE DELL’ART. 6 CEDU
Sono noti gli impatti economici (e non)
che le sentenze della CEDU hanno avuto sull’irrisolto problema della
ragionevole durata del processo, e che hanno portato alla normatizzazione della
c.d. legge Pinto.
Ritiene questo giudice che costituisca un’altra
e diversa questione, altrettanto preoccupante e del tutto sottostimata nell’ordinamento
italiano, che potrebbe portare anch’essa ad una elevatissima casistica di condanne
per la Repubblica Italiana, in qualità di parte aderente alla Convenzione
Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo. Ci si riferisce alla
violazione dell’art. 6 della Convenzione EDU sotto il profilo del “deaut seurit juridique”, cioè della certezza
del diritto.
Invero una moltitudine di questioni
ermeneutiche sono affrontare – a causa della scarsa determinazione, della non
univocità di significato ed intellegibilità delle norme – in termini
assolutamente diversi dalla giurisprudenza, non esclusa la Suprema Corte di
Cassazione, financo a Sezione Unite.
La funzione di nomofilachia attribuita
alla Cassazione a Sezioni Unite, del resto, è uno strumento solo in parte
dirimente, per un duplice ordine di ragioni. Innanzitutto, alla luce della
irrisolta questione della durata dei processi, l’eventuale decisione delle
Sezioni Unite interviene in genere ad anni di distanza dal momento in cui si
crea il dubbio ermeneutico, costringendo le parti a rivolgersi alla autorità
giudiziaria in un clima di incertezza giuridica, ciò che di per sé – ad avviso
di questo Tribunale – implica una violazione dell’art. 6 della CEDU. Ciò anche
in considerazione del fatto che nell’ordinamento italiano non è consentito al
Giudice di rimettere direttamente la questione interpretativa alle Sezioni
Unite della
Suprema Corte di Cassazione, in funzione
nomofilattica. In secondo luogo la decisione della Suprema Corte a Sezioni
Unite non è comunque vincolante per le pronunce successive (né sono mancati revirement delle medesime Sezioni Unite,
come già sottolineato), sicché nemmeno dopo il più autorevole pronunciamento
gli utenti della Giustizia possono ritenersi certi della regola giuridica da
seguire, essendo comunque soggetta a possibili, diverse, interpretazioni.
Ne consegue che gli utenti della giustizia
non hanno, nell’ordinamento giuridico italiano, una certezza delle regole
giuridiche da applicare, stante la possibilità di soluzioni completamente
diverse a seconda dell’interpretazione fornita dall’organo giudicante, che
potrebbe portare (come non di rado accade) a soluzioni diverse o addirittura
diametralmente opposte dinanzi a fattispecie uguali.
Orbene, tale incertezza integra ad avviso
di questo Giudice una violazione della Convenzione EDU che merita di essere
rimessa alla attenzione del Giudice delle Leggi, per la verifica della
compatibilità delle norme di riferimento con l’art. 6 della Convenzione EDU. La
giurisprudenza della Corte EDU è molto chiara sul punto (Broniowski v. Poland [GC],
no. 31443/96, e 151, ECHR 2004-V; Păduraru
v. Romania, no. 63252/00, e 92, ECHR
2005-XII (extracts); and Beian v. Romania), a far data dall’importante sentenza Broniowski. Il principio implica che chi è sottoposto ad una
normativa debba sapere cosa è permesso e cosa no, cosa è obbligatorio e cosa
non lo è in base a norme chiare e di
costante applicazione. Solo in tal modo è rispettata l’aspettativa in un
diritto certo ed univoco, senza il quale si perde il concetto stesso di diritto
inteso quale regola generale da seguire. In sostanza la norma perde la sua
stessa ragion d’essere. Detto in altre parole, l’affermazione del principio di
non incertezza del diritto risponde alla esigenza di far fronte alla crescente
complessità del diritto, di fronte alla quale la certezza giuridica appare come
un baluardo al quale appigliarsi per mantenere una unità e, in definitiva, il
senso ultimo della regola giuridica, idoneo ad evitare l’arbitrio.
In questa prospettiva, del resto, si sono
già espressi altri Stati aderenti alla Convenzione EDU, trovando anche un
riferimento specifico nella propria Carta
fondamentale. Ad esempio il Conseil
constitutionnel francese si è espresso nel senso dell’obbligo per la legge
di esprimere – pena l’incostituzionalità - regole intellegibili, precise e non
equivoche (decisione n. 2004-500 DC del 29 juillet
2004, cons. 13): (testualmente: «Il
incombe au l’islateur d’exercer pleinement la complence que lui confie la Constitution
et, en particulier, son article 34. A cet ard le principe de clart de la loi,
qui dloule du m e article de la Constitution, et l’objectif de valeur
constitutionnelle d’intelligibilit et d’accessibilitè de la loi, quidoule des
articles 4, 5, 6 et 16 de la Déclaration de 1789, lui imposent d’adopter des
dispositions suffisamment prises et des formules non uivoques afin de prémunir
les sujets de droit contre une interpreation
Contraire la Constitution ou
contre le risque d’arbitraire, sans reporter sur les autoritè administratives
ou juridictionnelles le soin de fixer des riles dont la dermination n’a été confiée
par la Constitution qu’à la loi.»).
In Italia il riferimento
costituzionale va rinvenuto ad avviso di questo Tribunale negli artt. 3, 24 e
111 e nel riferimento normativo di cui all’art. 6 e 13 della Convenzione EDU,
come recepito nell’ordinamento italiano – secondo l’insegnamento della Consulta
– ai sensi degli artt. 111 e 117 della
Costituzione, oltre che negli
artt. 47 52 e 53 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea
(CDFUE).
Ne consegue che le norme prive
di sicuro ed univoco significato e valore precettivo sono contrarie alla
Costituzione, sempre ad avviso di questo Giudice, per il combinato disposto con
le norme sovranazionali di principio.
In particolare, simili norme –
frutto di un legiferare in termini eccessivamente generico - non sono in grado
di ottemperare né all’obbligo costituzionale dettato dal principio di
eguaglianza innanzi alla legge
(sancito dall’art. 3 della
Costituzione), né alla finalità di assicurare la tutela dei diritti ed
interessi legittimi (tutelati dall’art. 24 della Costituzione), né alla regola
del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., inteso nella accezione più lata,
né infine, al principio di sicurezza giuridica di cui all’art. 6 Convenzione
EDU come interpretata dalla Corte di Strasburgo e come recepito ai sensi dell’art.
52 della CDFUE.
SULLA AMMISSIBILITA’ DELLA QUESTIONE
Il Giudice delle Leggi si è espresso,
in passato, sulla non proponibilità di questioni ermeneutiche alla Consulta (ex plurimis: sentenze 419/05 e
466/2000), non potendosi la Corte Costituzionale sostituirsi al giudice nella
interpretazione corretta di una norma.
Va a maggior ragione rilevato
che la questione che si pone oggi alla attenzione della Consulta non è – come
nelle ipotesi in cui si è in passato pronunciata – meramente propositiva di una
interpretazione piuttosto di un’altra, ma, al contrario, è atta ad evitare la
violazione (che implicherebbe una possibile condanna della Repubblica Italiana
per “defaut de sicurité juridique”)
del principio di certezza giuridica in base all’art. 6 della Convenzione EDU,
nel caso in cui il Giudice a quo dovesse decidere in base a dettato normativo
non chiaro e la cui determinazione in concreto del significato fosse di fatto
attribuito in modo arbitrario al singolo Giudice, stante la scarsa chiarezza ed
intelligibilità della norma (palesata peraltro dai contrasti giurisprudenziali
già in atto) o addirittura sconfinasse in un potere - di fatto - creativo della
regola.
Sicché si tratta di vero e proprio
dubbio di compatibilità costituzionale della norma di cui all’art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 con l’art. 6 della Convenzione Europea per la
Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, come interpretata dalla Corte di Strasburgo
dalla sentenza Broniowski in poi, e con gli artt. 47 e 52 della CDFUE.
Tale questione deve essere
quindi portata alla attenzione della Corte Costituzionale, in base al
meccanismo generale indicato dalla Corte stessa, per le ipotesi di contrasto
con le norme CEDU o con norme UE recanti principi generali.
SULLA ESPERIBILITA’ DEL RIMEDIO DELLA QUESTIONE DI
LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE PER CONTRASTO DELLA NORMA INVOCATA CON LA
CONVENZIONE EUROPEA PER LA SALVAGUARDIA DEI DIRITTI DELL’UOMO, SECONDO LA
CONSULTA.
Invero, la Corte Costituzionale
ha in più occasioni (ex multis: Corte
Cost. 347/2007 e 348/2007) precisato che la Convenzione EDU non crea un
ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente
applicabili negli Stati contraenti. Ad avviso della Consulta, la Convenzione
EDU è configurabile come un trattato internazionale multilaterale – pur con
caratteristiche peculiari – da cui derivano “obblighi” per gli Stati
contraenti, ma non l'incorporazione dell'ordinamento giuridico
italiano in un sistema più
vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, omisso
medio, per tutte le autorità interne degli Stati membri, rilevando che il
giudice a quo aveva correttamente escluso di poter risolvere il dedotto
contrasto della norma censurata con una norma CEDU, come interpretata dalla
Corte di Strasburgo, procedendo egli stesso a disapplicare la norma interna
asseritamente non compatibile con la seconda.
In altre decisioni (Corte
Costituzionale 311/2009 e 317/2009) il Giudice delle leggi ha anche precisato
che la Corte Costituzionale non
può sostituire la propria interpretazione di una disposizione della CEDU a quella
della Corte di Strasburgo, con ciò uscendo dai confini delle proprie
competenze, in violazione di un preciso impegno assunto dallo Stato italiano
con la sottoscrizione e la ratifica, senza l'apposizione di riserve, della Convenzione,
ma può valutare come ed in qual misura il prodotto dell'interpretazione della
Corte europea si inserisca nell'ordinamento costituzionale italiano. La norma
CEDU, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell'art. 117 Cost., da
questo ripete il suo rango nel sistema delle fonti, con tutto ciò che segue in
termini di interpretazione e bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni
compiute dalla Corte in tutti i giudizi di sua competenza.
In definitiva, facendo leva
sul dettato dell’art. 117 della Carta fondamentale, la Consulta ha rilevato che
il parametro costituzionale
è espresso dall'art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la
conformazione della
legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
Pertanto, ove si profili un eventuale contrasto fra una norma interna e una
norma della CEDU, il giudice comune deve verificare anzitutto la praticabilità
di una interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione,
avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; e, ove tale
verifica dia esito negativo – non potendo a ciò rimediare tramite la semplice
non applicazione della norma interna
contrastante – egli deve
denunciare la rilevata incompatibilità proponendo questione di legittimità
costituzionale in riferimento all'indicato parametro. A sua volta, la Corte
costituzionale, investita dello scrutinio, pur non potendo sindacare
l'interpretazione della CEDU data dalla Corte europea, resta legittimata a
verificare se la norma della Convenzione – la quale si colloca pur sempre a un
livello sub-costituzionale - si ponga eventualmente in conflitto con altre
norme della Costituzione: ipotesi nella quale dovrà essere esclusa la idoneità
della norma convenzionale a integrare il parametro considerato. Sulla
integrazione da parte delle norme della CEDU, quali norme interposte, dell'art.
117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione
interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
Alla stregua di tale
ragionamento, il giudice nazionale è tenuto a rimettere alla Consulta la
questione sottostante la decisione da adottare, posto che implica la soluzione
di un problema di contrasto tra la norma interna e la Convenzione Europea per
la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, come interpretata dalla Corte di
Strasburgo.
LA RILEVANZA DELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE EDU
NELL’ORDINAMENTO INTERNO, SECONDO LA CONSULTA
Vanno anche svolte le opportune
precisazioni in merito alla valorizzazione del potere interpretativo dei
giudici nella giurisprudenza costituzionale è tale che, nella sentenza n. 239
del 2009, la Corte si spinge fino al punto di ritenere che l’esperimento del
tentativo d’interpretazione conforme alla Convenzione europea sia una
condizione necessaria per la valida instaurazione del giudizio di legittimità
costituzionale, ripetendo lo schema che ormai da anni utilizzato a proposito
del dovere di interpretazione conforme a Costituzione. Per superare il vaglio
di ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, quindi, il
giudice deve dimostrare che il tenore testuale della norma interna o il diritto
vivente eventualmente formato sulla legge interna si oppongono all’assegnazione
a tale legge di un significato compatibile con la norma convenzionale.
Peraltro, come la stessa Corte
Costituzionale esplicitamente ha sottolineato, in relazione alla Convenzione
Europea dei Diritti dell’Uomo, il giudice comune non ha soltanto il dovere di
interpretare il diritto interno in modo conforme a quello internazionale, ma
deve fare ciò tenuto conto della norma convenzionale come interpretata dalla
Corte di Strasburgo.
In realtà già prima dell’intervento della
Consulta, il vincolo dell’interpretazione adeguatrice si era affermato presso i
giudici comuni, come confermano, tra le altre, le sentenze della Corte di
cassazione a Sezioni Unite da n. 1339 a n. 1341 del 2004, ove si impone ai
giudici nazionali di non discostarsi dall’interpretazione che della Convenzione
dà il giudice europeo. E’, tuttavia, oggi, che la Corte costituzionale eleva
questo compito a vero e proprio vincolo per il giudice comune.
Con riferimento alle sole norme
convenzionali, la Corte costituzionale precisa che esse vivono nell’interpretazione
che viene data loro dalla Corte europea (così la sent. n. 348 del 2007, ma
similmente anche la sent. n. 349 del 2007), nel senso che la loro “peculiarità”, nell’ambito della
categoria delle norme internazionali pattizie che fungono da norme interposte,
“consiste nella soggezione
all’interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati contraenti,
salvo l’eventuale scrutinio di costituzionalità sono vincolati ad uniformarsi”
(sent. 39 del 2008).
Quando viene in rilievo la Convenzione
europea, su tutti gli organi giurisdizionali nazionali, Corte costituzionale
compresa, ciascuno nell’esercizio delle proprie competenze, grava un vincolo
interpretativo assoluto e incondizionato alla giurisprudenza della Corte di
Strasburgo per la determinazione dell’esatto contenuto del vincolo
internazionale.
La rigidità di tale condizionamento
ermeneutico rappresenta il risultato di un iter le cui tappe fondamentali si
rinvengono nelle sentenze 348 e 349 del 2007, 39/2008, 311 e 317/2009 e 187 e
196/2010.
Nelle sentenze nn. 348 e 349 emergeva una
“funzione interpretativa eminente” da
parte della Corte europea dei diritti dell’uomo che si sostanzia anche nel
fatto che “le norme della CEDU vivono
nell’interpretazione che viene data loro dalla Corte europea”. La
consacrazione del ruolo della giurisprudenza avviene, quindi, per via giurisprudenziale:
è una Corte a legittimare un'altra Corte (con affermazioni, si noti,
suscettibili di assumere valenza generale, e quindi, all'occorrenza, anche
autoreferenziale)]. Al riconoscimento della funzione interpretativa eminente
della Corte Edu segue un passaggio in cui si afferma che “[s]i deve (...) escludere che le pronunce della Corte di Strasburgo
siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità
delle leggi nazionali”, dovendosi “[t]ale controllo [...] sempre ispirar[e] al
ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi
internazionali, quale imposto dall'art. 117, comma 1, Cost., e la tutela degli
interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della
Costituzione”.
Si poteva, quindi, ancora legittimamente
dubitare della sussistenza di un monopolio esclusivo, in capo alla Corte
europea dei diritti dell’uomo, circa il significato da attribuire alla CEDU,
senza possibilità alcuna, da parte dei giudici comuni e specialmente da parte
della Corte costituzionale, di integrare quel significato.
Qualche tempo dopo i dubbi sul punto si
sono dissolti quasi del tutto. Il Giudice delle leggi, infatti, nella decisione
n. 39 del 2008, facendo dire, attraverso
la nota tecnica di citazione manipolativa del precedente, quanto in realtà non
si diceva nelle decisioni del 2007, ha sottolineato che tali decisioni avevano
precisato che la peculiarità delle norme della CEDU nell’ambito della categoria
delle norme interposte risiede “nella
soggezione all’interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati
contraenti, salvo l’eventuale scrutinio di costituzionalità sono vincolati ad uniformarsi”.
Un vincolo interpretativo, dunque,
assoluto e incondizionato alla giurisprudenza della Corte europea in capo ai
giudici comuni ed alla Corte costituzionale per quanto riguarda l’inquadramento
dell’esatta portata della norma convenzionale. Vincolo che non emergeva,
invece, dalle decisioni del 2007 e che viene invece ora confermato dalle
decisioni nn. 311 e 317/2009, ove espressamente si dice che alla Corte
costituzionale, salvo ovviamente la possibilità che una norma CEDU sia in
contrasto con la Costituzione, “è
precluso di sindacare l’interpretazione della Convenzione europea fornita dalla
Corte di Strasburgo, cui tale funzione è stata attribuita dal nostro Paese
senza apporre riserve” (sent. 311/09).
La funzione interpretativa della Corte europea
è diventata dunque talmente eminente da escludere qualsiasi intervento da parte
di altri giudici, comuni e costituzionali, volto ad una possibile integrazione
del significato delle disposizioni della Convenzione oggetto di interpretazione
da parte della Corte di Strasburgo.
Alla valorizzazione del vincolo
interpretativo nei confronti della giurisprudenza della Corte europea si
accompagna, tuttavia, il riconoscimento della possibilità che, in determinati
casi, la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo attribuisca agli Stati
membri la facoltà di discostarsi dagli orientamenti di Strasburgo. Ciò può
avvenire, come specifica la sentenza n. 311, in relazione, ad esempio, alla
possibilità che per “motivi imperativi di
interesse generale, il legislatore si possa sottrarre al divieto, ai sensi dell’art.
6 CEDU di interferire nell’amministrazione della giustizia”.
La posizione della Corte costituzionale in
merito al vincolo ermeneutica gravante sul giudice interno rispetto alla
giurisprudenza della Corte Edu risulta recentemente confermata nelle sentenze
nn. 187 e 196 del 2010.
Nella prima delle due pronunce la Corte,
dopo aver richiamato e ripercorso la giurisprudenza della Corte di Strasburgo
pertinente alla disposizione che veniva in rilevo nel caso di specie, afferma
che: “Lo scrutinio di legittimità
costituzionale andrà dunque condotto alla luce dei segnalati approdi
ermeneutici, cui la Corte di Strasburgo è pervenuta nel ricostruire la portata
del principio di non discriminazione sancito dall’art. 14 della Convenzione,
assunto dall’odierno rimettente a parametro interposto, unitamente all’art. 1
del Primo Protocollo addizionale, che la stessa giurisprudenza europea ha
ritenuto raccordato, in tema di prestazioni previdenziali, al principio innanzi
indicato (in particolare, sul punto, la citata decisione di ricevibilità nella
causa Stec ed altri contro Regno Unito)”.
Nella sentenza n. 196/2010 la Corte
afferma che “dalla giurisprudenza della
Corte di Strasburgo, formatasi in particolare sull’interpretazione degli
articoli 6 e 7 della CEDU, si ricava, pertanto, il principio secondo il quale
tutte le misure di carattere punitivo – afflittivo devono essere soggette alla
medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto”.
Le affermazioni contenute nelle sentenze
del 2010 sono indicative di come progressivamente il ruolo della Corte di
Strasburgo sia cambiato, non tanto nelle modalità di azione, che si
concretizzano nell’accertamento e nella condanna delle violazioni della
Convenzione, quanto nel significato sempre
maggiore assunto dalla sua attività
interpretativa. Come è noto, non esiste per la CEDU un meccanismo analogo a
quello previsto dall’art. 267 TFUE (ex art. 234 TCE), che permetta al giudice
di rivolgersi alla Corte qualora abbia un dubbio interpretativo, ma la prassi
ha determinato nel tempo un legame altrettanto forte, legame che oggi è
espressamente riconosciuto dalla Corte costituzionale.
Il quadro complessivo che risulta dalle
due sentenze del 2010 si avvicina, quindi, a quello che era stato delineato da
chi aveva previsto che “nella misura in cui si afferma negli ordinamenti
nazionali il principio di supremazia delle norme internazionali su quelle
interne, almeno nella forma del pacta
sunt servanda, le pronunce della Corte europea finiranno con l’assumere
carattere vincolante, sia nel senso di determinare l’invalidità delle norme
interne ritenute incompatibili con la Cedu, sia nel senso di orientare in
funzione della giurisprudenza della Corte l’interpretazione delle norme
nazionali”.
L’affermazione secondo cui, in generale, “le
norme giuridiche vivono nell'interpretazione che ne danno gli operatori del
diritto, i giudici in primo luogo” e, in particolare, “le norme della CEDU
vivono nell'interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea”
(sicché “tra gli obblighi internazionali assunti dall'Italia con la
sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria
legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla
Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione”)
sembra quindi aver portato a compimento e, per così dire, alle sue estreme
conseguenze un percorso di acquisizione di consapevolezza del ruolo della CEDU
nell’ordinamento interno.
Ciò non può che valere anche per il
principio della certezza del diritto (il defaut
de surit juridique).
LA RILEVANZA
DELLA CONVENZIONE EDU NELL’ORDINAMENTO INTERNO, NEL CASO DI SPECIE
Ciò premesso, va sottolineato anche che,
nel caso di specie, vi è una diretta interconnessione anche con la CDFUE.
Il ragionamento relativo al “defaut de surit juridique” che si è
pocanzi prospettato è quindi egualmente valido ed operante nell’ordinamento
interno anche per le ulteriori motivazioni che seguono.
Invero, la Carta Europea dei Diritti
Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE) ha valore di trattato per gli Stati
membri, in base al trattato di Lisbona.
Tale carta CEDFUE disciplina il rapporto
con la Convenzione EDU e la relativa giurisprudenza precisando all’art. 52
comma 3 che “3. Laddove la presente Carta
contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, il
significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla
suddetta convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto
dell'Unione conceda una protezione più estesa. ”
Orbene, l’art. 47 della CEDFUE dispone che
“Ogni individuo i cui diritti le cui
libertà garantiti dal diritto dell'Unione siano stati violati ha diritto a un
ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste
nel presente articolo.
Ogni individuo ha diritto a che la sua causa sia esaminata
equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice
indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni individuo ha la
facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare.
A coloro che non dispongono di mezzi sufficienti è concesso il
patrocinio a spese dello Stato qualora ciò sia necessario per assicurare un
accesso effettivo alla giustizia. ”
La corrispondenza con la Convenzione EDU è
evidente e palese dal raffronto con l’art. 6, che recita “1. Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente,
pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e
imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle
controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza
di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti. (..)” e con l’art. 13 “Ogni
persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione
siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza
nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che
agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali.”
Ne deriva che i principi elaborati dalla
Corte EDU in relazione alla Convenzione EDU, ivi compreso quello relativo al “defaut de surité juridique” trovano
applicazione nell’ordinamento italiano, anche al di fuori delle materie di
competenza della Convenzione stessa. In tali ipotesi, ad avviso di parte della
Giurisprudenza, si potrebbe procedere a disapplicazione della norma interna
direttamente da parte del giudice nazionale. Anche ove si volesse aderire a
tale orientamento, la questione, però non verrebbe comunque in rilievo nel caso
di specie.
SULLA NECESSITA’
DELLA RIMESSIONE DELLA QUESTIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE
Nella fattispecie, difatti, si pone il
problema di come procedere quando il contrasto della norma legislativa interna sussiste
non già nei confronti di una norma comunitaria direttamente applicabile, a sua
volta idonea a fornire la regula juris
per il caso concreto (poiché allora il contrasto si risolve con la applicazione
di quest’ultima, e la “disapplicazione” (o non applicazione) della norma
interna, da parte del giudice comune), ma nei confronti di principio di diritto
comunitario o della Convenzione EDU.
Ci si deve domandare cioè se, in questo
caso, il giudice possa o debba risolvere da sé il contrasto, negando applicazione
alla legge interna, non perché utilizza in sua vece una norma comunitaria di
diretta applicazione, ma solo perché la legge interna gli appare viziata dal
conflitto con i principi del diritto comunitario in combinato disposto con il
diritto della Convenzione EDU.
Il problema è particolarmente delicato
perché il contrasto riguarda di principi “comunitari” di contenuto
sostanzialmente corrispondente ai principi costituzionali, posto che si tratta
di diritti fondamentali (ipotesi che sussiste automaticamente quando si chiama
in causa la applicazione della Giurisprudenza della Corte di Strasburgo sulla
Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo).
Infatti, in questa ipotesi, se si ammette
che il giudice possa disapplicare la legge nazionale perché la ritiene in
contrasto con i principi comunitari/CEDU in tema di diritti, senza sollevare
questione di costituzionalità si verifica un paradosso: il giudice, al quale il
nostro ordinamento preclude sia l’applicazione sia la disapplicazione della
legge sospetta di incostituzionalità obbligandolo a investire della questione,
in via incidentale, la Corte costituzionale, potrebbe invece, in alternativa, e
sostanzialmente per gli stessi motivi, disapplicare direttamente la legge per
contrasto con i principi comunitari.
Nella giurisprudenza comune è dato già di
rinvenire alcune pronunce di giudici di merito che ragionano così nei riguardi
della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: la Convenzione, in quanto
richiamata dai Trattati, è diritto comunitario (e ciò varrà ancor più una volta
costituzionalizzata la Carta dei diritti, e una volta realizzata l’adesione
formale dell’Unione alla Convenzione europea dei diritti, come previsto dall’art.
7, paragrafo 2, del progetto di trattato costituzionale); il diritto
comunitario prevale sul diritto interno, e il giudice è abilitato e tenuto ad
applicarlo, disapplicando la legge interna contrastante. Ergo, il giudice può
direttamente disapplicare la legge italiana che contrasta con la Convenzione
europea.
Dato il carattere generale e di principio
proprio di molte norme della Convenzione, però questo modo di ragionare conduce
ad avviso di questo giudice ad instaurare un nuovo sistema, parallelo, di
sindacato di costituzionalità sulle leggi, realizzabile in modo diffuso dai
giudici comuni.
Ma ciò porrebbe sostanzialmente nel nulla
il principio del nostro ordinamento, secondo cui sono accentrati nella Corte
costituzionale il potere e il compito di privare di efficacia le leggi
ordinarie in contrasto con la Costituzione: principio a cui non sarebbe
implausibile attribuire la portata di principio supremo dell’ordinamento
costituzionale, sicché non pare applicabile.
Mentre, infatti, il conflitto fra norme
interne e norme comunitarie di diretta applicazione può essere risolto in
termini di separazione dei due ordinamenti, applicando la norma comunitaria e
conseguentemente negando applicazione alla norma interna incompatibile, il
conflitto della norma
interna con principi sanciti nella
Costituzione e insieme nel diritto comunitario UE in relazione alla Convenzione
EDU (come quelli in tema di diritti fondamentali) non può essere risolto se non
attraverso un espresso sindacato di legittimità sull’atto legislativo
ordinario: e questo, nel sistema vigente, spetta, per quanto riguarda gli atti
di legislazione ordinaria, statale o regionale, alla Corte costituzionale,
essendo precluso al giudice comune sia applicare, sia direttamente disapplicare
le norme legislative riguardo alle quali sorga il dubbio sulla loro
compatibilità con norme di rango sovraordinato.
Resta quindi in ogni caso interamente in
capo ai giudici comuni – così come essi debbono sempre interpretare le leggi in
conformità alla Costituzione – il potere-dovere di interpretare le leggi,
quando operano in campi coperti dal diritto comunitario, in conformità con
quest’ultimo, come accertato in
ultima analisi dalla giurisprudenza della
Corte di giustizia, oltre che, in conformità alle norme della convenzione
europea sui diritti, quali risultano dalla giurisprudenza della Corte di
Strasburgo.
Pur non potendo escludersi, nemmeno in un
contesto siffatto, incertezze o contrasti di giurisprudenza in un campo
delicato com’è quello della garanzia dei diritti fondamentali, si eviterebbero
comunque conseguenze “eversive”dei criteri cui il nostro costituente si è
ispirato in tema di rapporto fra giurisdizioni comuni e giurisdizione
costituzionale, oltre che foriere, in pratica, di imprevedibili sviluppi (o
avventure) giurisprudenziali.
SULLA CONFORMITA’ ALLA COSTITUZIONE ED
ALLE NORME COMUNITARIE DELL’ISTITUTO DELLA MEDIAZIONE.
Ovviamente tale soluzione
presuppone la soluzione, a monte, della questione di legittimità costituzionale
e di compatibilità con le norme UE dell’istituto della mediazione introdotto
dalla d.lgs. 28/2010.
Viceversa, dovrebbe procedersi
a disapplicazione dell’istituto della mediazione nel suo insieme, senza entrare
nello specifico del difetto di certezza di diritto costituzionalmente rilevante
riguardo all’ambito applicativo della norma.
In proposito, ed attendendo
gli insegnamenti della Consulta sulle questioni già sollevate da altri uffici
giudiziari, questo Giudice ritiene di limitare i quesiti alla attenzione della
Consulta a quelli sopra evidenziati sinteticamente considerato, in ordine alle
questioni pendenti innanzi alla Consulta, che la previsione di uno strumento
quale il tentativo obbligatorio di conciliazione è finalizzata ad assicurare l’interesse
generale al soddisfacimento più immediato delle situazioni sostanziali
realizzato attraverso la composizione preventiva della lite rispetto a quello
conseguito attraverso il processo, risultando, per tale via, perfettamente
coerente anche con i principi e gli obiettivi propri del diritto comunitario.
Il fatto che il D.lgs 28/2010
non preveda la necessaria assistenza di un difensore, infatti, non significa
che alla parte sia vietato avvalersi di un avvocato nel corso della procedura
e, comunque, come ha osservato attenta dottrina, la mediazione opera su un
piano esclusivamente negoziale, potendo, sotto tale profilo, essere avvicinata
alla disciplina dell’arbitrato, in cui non è prevista per le parti l’assistenza
obbligatoria dell’avvocato. La costituzionalità della normativa citata, per
tutte le ragioni sopra illustrate, permette di affermarne anche la compatibilità
con il diritto comunitario, per come evincibile anche dalla sentenza del 18
marzo 2010 della Corte di giustizia dell’Unione europea, pronunciatasi (nelle
cause riunite C-317/08, C-318/08, C-319/08 e C-320/08) proprio sulla
previsione, da parte dello Stato italiano, di un tentativo obbligatorio di
conciliazione in materia di telecomunicazioni. La Corte di Lussemburgo,
infatti, ha affermato che il diritto alla tutela giurisdizionale, quale diritto
fondamentale dell’individuo, può anche soggiacere a restrizioni, purché le
stesse risultino proporzionate e funzionali al soddisfacimento di interessi
generali, quali, appunto, il decongestionamento dei tribunali o la definizione
più spedita e meno onerosa delle controversie in materia di comunicazioni
elettroniche.
Inoltre, il procedimento di
mediazione obbligatoria non preclude la tutela cautelare e la trascrizione
della domanda giudiziale; produce, sulla decadenza e sulla prescrizione,
effetti simili a quelli propri della domanda giudiziale. Il sacrificio in
termini di tempo e i costi imposti dalla mediazione obbligatoria, del resto,
sono potenzialmente giustificati e resi ragionevoli dal vantaggio che può
ottenersi in caso di esito positivo della procedura. Infine, non sembra
profilarsi neppure il denunciato eccesso di delega. L’articolo 60 della legge
69/2009 nulla, infatti, ha previsto in ordine alla facoltatività od
obbligatorietà del preventivo ricorso alla mediazione e la scelta della
obbligatorietà fatta dal Legislatore non è una scelta irragionevole, in quanto
non si pone fuori dalla tradizione processuale italiana, che conosce, come
noto, varie ipotesi di tentativi obbligatori di conciliazione. La
costituzionalità della normativa citata permette di affermarne anche la
compatibilità con il diritto comunitario, per come evincibile anche dalla
sentenza 18 marzo 2010 della Corte di giustizia dell’Unione europea,
pronunciatasi (nelle cause riunite C-317/08, C-318/08, C-319/08 e C-320/08)
proprio sulla previsione, da parte dello Stato italiano, di un tentativo
obbligatorio di conciliazione in materia di telecomunicazioni.
Per queste ragioni si ritiene
che l’istituto in sé sia conforme (ed anzi auspicato) alle normative
sovranazionali, sicché non si pone alcun problema di compatibilità dell’istituto
con l’impianto costituzionale e normativo europeo, ma solo una questione di
determinazione dell’ambito di applicazione sotto il profilo del difetto di “securité juridique”.
In questa ipotesi non può il
giudice procedere alla disapplicazione totale di un apparato normativo conforme
alle leggi e ai principi cui è gerarchicamente sottoposta, ma deve limitarsi ad
interessare il Giudice delle Leggi alla verifica di costituzionalità
relativamente al profilo di interesse.
QUESTIONE
DI LEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE DELL’ART. 5 D.LGS. 4 MARZO 2010, N. 28 -
ATTUAZIONE DELL'ARTICOLO 60 DELLA LEGGE 18 GIUGNO 2009, N. 69, IN MATERIA DI
MEDIAZIONE FINALIZZATA ALLA CONCILIAZIONE DELLE CONTROVERSIE CIVILI E
COMMERCIALI (GU N.53 DEL 5-3-2010)
Per questi ragioni si
ritiene di dover sollevare di ufficio, in quanto rilevante e non manifestamente
infondata, la questione della legittimità costituzionale dell’art. 5 d.lgs. 4
marzo 2010, n. 28 – attuazione dell'articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n.
69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie
civili e commerciali (GU n.53 del 5-3-2010) in relazione all’art. 24 della
Costituzione ed all’art. 6 della CEDU, come interpretata dalla stessa Corte di
Strasburgo, nella parte in cui non prevede una regola certa ed idonea ad
evitare un vero e proprio “defaut de
seurité juridique” (mancanza di certezza del diritto) nei confronti delle
parti del processo.
***
In subordine, si ritiene di
dover sollevare di ufficio, in quanto rilevante e non manifestamente infondata,
la questione della legittimità costituzionale dell’art. 372 comma 2 e 3 c.p.c.
in relazione agli artt. 24 e 111 della Costituzione e all’art. 6 della CEDU,
come interpretata dalla stessa Corte di Strasburgo, nella parte in cui non
prevede la possibilità per il giudice di ogni ordine e grado di richiedere
preventivamente una pronuncia delle Sezioni Unite in funzione nomofilattica,
analogamente a quanto previsto dall’art. 267 del Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea in relazione alle pronunce pregiudiziali della Corte di
Giustizia Europea in merito ai dubbi interpretativi di norme comunitarie. Solo
in tal modo, invero, potrebbe evitarsi che nel caso di specie le parti si
trovino a chiedere l’applicazione di una norma dal contenuto certo senza essere
a conoscenza prima della decisione stessa della reale portata precettiva della
norma, in presenza di dubbi ermeneutici irrisolti, affrontando un giudizio in
stato di defaut de seurité juridique contrario alla Convenzione Europea per la
Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo dome interpretata dalla Corte di Strasburgo
e come recepito nell’ordinamento UE ai sensi degli artt. 47 e 52 della CDFUE.
In sostanza si porta alla
attenzione del Giudice delle Leggi la questione, non nuova nel dibattito sulle
tecniche di redazione dei testi normativi, della conformità alla Costituzione
(in combinato disposto con la Convenzione EDU) di testi legislativi dal
contenuto non univoco e di non certa
interpretazione, così come
già affrontato dagli organi di verifica della legittimità costituzionale di
altri Paesi membri, non ultima la citata decisione del Conseil Costitutionnel della
Repubblica Francese.
Per
Questi Motivi
Il Tribunale di TIVOLI,
sezione civile, in persona del Giudice unico dott. Alessio Liberati, visti gli
articoli 137 della Costituzione, 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1984
n. 1 e 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87, ritenuta la rilevanza e la non
manifesta infondatezza,
IN VIA PRINCIPALE
- solleva questione di
legittimità costituzionale dell’articolo dell’art. art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28 - attuazione
dell'articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione
finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali (GU n.53
del 5-3-2010) con riferimento agli articoli
11, 24, 111, 117 della Costituzione nonché dell’art. 6 e 13 della Convenzione
Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e degli artt. 47, 52 e 53
della Carte dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, nella parte in cui
viola il principio di non incertezza del diritto (“defaut de securité juridique”) non prevedendo una formulazione
della normativa che di comprensione univoca e chiara del proprio significato;
IN VIA SUBORDINATA
- solleva questione di
legittimità costituzionale dell’articolo 372 comma 2 e 3 c.p.c. con riferimento agli articoli 11, 24, 111, 117 della Costituzione
nonché dell’art. 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti
dell’Uomo e degli artt. 47, 52 e 53 della Carte dei Diritti Fondamentali dell’Unione
Europea, nella parte in cui non consente ad ogni giudice di qualsiasi ordine e
grado di richiedere una interpretazione pregiudiziale alle Sezioni Unite della
Corte di Cassazione, analogamente a quanto
previsto dall’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea in
relazione alle pronunce pregiudiziali della Corte di Giustizia Europea in
merito ai dubbi interpretativi di norme comunitarie.
Ordina l’immediata
trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale e sospende il giudizio in
corso.
Ordina che a cura della
cancelleria la presente ordinanza sia notificata alle parti ed al Presidente
del Consiglio dei ministri e che venga comunicata ai Presidenti delle due
Camere del Parlamento.
Tivoli, 23 maggio 2012
IL GIUDICE
Dr. Alessio Liberati
AVVISO. Il
testo riportato non riveste carattere di ufficialità.